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Autore: AvevoSolo14Anni    12/12/2010    1 recensioni
[SOSPESA PER MANCANZA DI ISPIRAZIONE!]
E se Isabella Marie Swan fosse stata una giovane d'inizio '900? E se un certo Edward Masen l'avesse trovata? E se i due si fossero scoperti innamorati, ma qualcosa avesse impedito la loro felicità? E se poi fosse successo qualcosa di totalmente inimmaginabile...?
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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Capitolo 1:
 


Qualcosa mi accarezzò una spalla e poi il viso, scuotendomi dalle mie fantasie.
Chi stava cercando di tirarmi via da quel sogno? Perché lo stava facendo?
Aprii gli occhi dopo pochi secondi, e con la vista – prima sfocata, poi sempre più chiara mentre i miei occhi si abituavano alla debole luce che entrava dalla finestra – arrivarono anche le parole di mia madre.
<< Edward, svegliati. Farai tardi al lavoro. >> diceva, con il tono amorevole che era solita usare con me.
Era inutile insistere per restare a dormire ancora, anche perché sapevo non sarebbe stato giusto. Dovevo rispettare il mio dovere quotidiano.
Le sorrisi, per farle intendere che ero cosciente. Lei mi ricambiò ed uscì dalla mia camera, richiudendo la porta.
Non nego che il primo impulso, vedendo la stanza sgombra, fu quello di rimettere la testa sul cuscino e abbandonarmi ai bei sogni interrotti come prima. Ma – come avevo già pensato poco prima – non sarebbe stato corretto.
Perciò mi alzai, ancora leggermente intontito, per andarmi a vestire e prepararmi alla giornata di duro lavoro che mi aspettava.
Sceso in cucina afferrai un pezzo di pane e bevvi il bicchiere di latte freddo che mia madre mi aveva lasciato sul tavolo.
<< Buongiorno, Edward. >> mi salutò mio padre, entrando nella stanza.
<< Buongiorno. >> risposi, mentre mi pulivo con la mano le labbra bagnate dal liquido bevuto.
<< Sei pronto? >> chiese lui subito dopo, controllando che fossi già vestito.
<< Sì. >> risposi.
<< Andiamo. >> disse sorridendo e incamminandosi verso la porta di casa.
Non capivo proprio cosa c’era da sorridere. Non sarebbe stata di certo divertente la giornata che ci aspettava.
Con i soliti pensieri malinconici ma rassegnati lo seguii.
Mentre varcavo la soglia, due mani leggere che conoscevo molto bene mi si posarono sulle spalle per trattenermi.
<< Buon lavoro, tesoro. >> mi augurò mia madre alle mie spalle.
Mi voltai e lei subito mi strinse a sé. Quei dolci abbracci rasserenavano un poco la mia giornata.
Mio padre, che era già avanti di qualche passo, tornò indietro per darle un breve bacio. Poi insieme andammo verso la fabbrica dove lavoravamo.
Durante il percorso non ci scambiammo una parola. Volevo bene a mio padre e sapevo che lui ne voleva a me, ma non sempre era facile conversare con lui. Era introverso, forse non amava condividere i suoi pensieri con gli altri. Nemmeno con suo figlio.
Quel giorno, però, intuivo la sua preoccupazione. Non sapevo spiegarmela e non chiesi nulla a riguardo, ma in qualche modo l’avvertivo nella sua espressione e nei suoi movimenti.
Dopo i soliti cinque chilometri di cammino, arrivammo al lavoro che odiavo tanto intensamente.
Era stancante: arrivato a casa la sera, dopo dieci ore di fatica, ero sempre sfiancato. Ma non solo: ero sempre stato un po’ ambizioso, di conseguenza non miravo ad una vita da operaio come quella di mio padre. In fine, se non gli incidenti tanto frequenti, ad uccidermi sarebbe stata la noia: il fisico era concentrato sul proprio lavoro, ovviamente, ma non ci voleva una grande concentrazione. E la mia mente vagava, correva libera, e dopo solo un paio d’ore era già in crisi perché non trovare qualcosa a cui pensare.
Per questo motivo, nella disperazione, avevo iniziato a guardarmi intorno e a riflettere su qualsiasi cosa mi circondasse.
Che fossero i visi conosciuti dei miei colleghi più vecchi, quelli dei miei coetanei costretti a quel misero lavoro, quelli dei nuovi impiegati che ancora non conoscevo o i macchinari cigolanti e arrugginiti.
Una volta avevo io stesso visto un incidente causato dal malfunzionamento di uno di questi ultimi. Era stato tremendo, uno di quei ricordi che temevo di non poter mai dimenticare e che tormentavano certi miei incubi. Il cavo di un semplice macchinario che sollevava pesi troppo esagerati per essere trasportati dagli uomini si era d’un tratto rotto, facendo cadere il tubo di ferro molto spesso e pesante su un malcapitato che passava in quel momento. Il silenzio occupato soltanto dal ronzio delle macchine e dal ticchettio di martelli e altri attrezzi era stato infranto dalle urla disumane dell’uomo. Tutti erano accorsi – dopo i primi momenti di shock – in suo aiuto.
Dopo alcuni minuti una ventina di uomini erano riusciti a sollevare il tubo e a spostarlo, ma, prima che potesse essere trasportato all’ospedale più vicino, l’uomo si addormentò per non risvegliarsi più. L’emorragia interna era troppo grave.
Ogni volta che tornava quel pensiero nella mia testa, cercavo di scacciarlo subito con un brivido. Non è mai bello vedere una persona morire tra le urla.
Da quel giorno mi fidavo sempre meno dei macchinari della fabbrica, cercando di tenere me e mio padre il più lontano possibile da essi.
Così, non mi restava nulla da fare se non osservare (per non dire spiare) le persone che lavoravano intorno a me.
Non solo ascoltavo le conversazioni che riuscivo ad udire, a volte semplicemente esaminavo i loro comportamenti.
Dopo pochi mesi di esercizio sapevo tutti i nomi dei miei cinquantatre colleghi, sapevo se erano sposati, se avevano figli, conoscevo piuttosto bene il loro carattere.
Quando i nostri superiori ci avvertivano che era l’ora della pausa pranzo, tiravo un sospiro di sollievo.
Mangiavo il panino che mi portavo da casa insieme ai colleghi che avevano più o meno la mia stessa età, parlando del più e del meno.
<< Finalmente. >> mormorava sempre Thomas, tirando fuori il suo pranzo.
Era il mio migliore amico, ed anche il mio “maestro”. Erano tante le cose che mi aveva insegnato: ad avere un migliore inglese, le basi della matematica, come funzionava l’universo. Era così che c’eravamo trovati: lui un ragazzo di vent’anni con un bagaglio culturale superiore alla media per via degli insegnamenti di suo padre, io un ragazzo di sedici anni con una grande voglia di imparare.
Ultimamente andavo spesso a casa sua, la sera, per imparare a suonare il pianoforte. Io non ne avevo uno, per cui non potevo fare pratica da solo, e questo non aiutava. Ma lui era sempre molto paziente.
<< La giornata è ancora lunga. >> gli rispose quel giorno Matthew, con il suo solito pessimismo.
Matthew era un ragazzo più povero di me e mal nutrito, spesso mi ritrovavo a preoccuparmi per le sue condizioni. Il suo fisico si debilitava ogni giorno di più, grazie al suo lavoro: alimentava il fuoco dei macchinari trasportando il legno e gettandovelo dentro.
<< Domani è giornata di riposo. >> dissi io, cercando di pensare in positivo.
<< Finalmente. >> ribadii Thomas.
<< E dopodomani saremo di nuovo qui. >> sospirò Matthew. << Con un po’ di fortuna. >> aggiunse poco dopo.
Era davvero molto pessimista.
Thomas scosse la testa e si rifiutò di rispondergli, piuttosto si rivolse a me. << Vieni a fare un po’ di pratica, questa sera? >>
Annuii, subito entusiasta della proposta. << Volentieri. >>
Dopo qualche minuto di silenzio in cui eravamo tutti e tre intenti a mangiare, esposi i miei timori. << Sapete per caso cosa sta succedendo? >> domandai.
<< A cosa ti riferisci, Edward? >> rispose Thomas.
Anche Matthew mi guardava curioso.
<< All’umore degli adulti >> mormorai, per non farmi sentire da un gruppo di essi che stava seduto poco distante.
<< In che senso? >> continuò a chiedere Thomas.
<< Non avete notato come sono tutti… preoccupati? >> chiesi, pensando in particolare all’espressione tormentata di mio padre ma anche a quelli di un’altra ventina di persone.
I ragazzi si guardarono intorno, scrutando gli uomini più grandi.
<< In effetti hai ragione, Edward. >> confermò Matthew, ancora guardandosi attorno.
<< Cosa può essere successo, per preoccupare tutti in questo modo? >> domandai tra me e me.
I miei compagni restarono in silenzio, mentre la leggera preoccupazione che mi tormentava contagiava anche loro. Mi dispiaceva averli messi a conoscenza di quel problema, ma speravo che mi potessero dare una risposta.
Evidentemente, non mi restava che parlarne con mio padre.
Dopo la solita mezz’ora di pausa pranzo, le attività ripresero regolarmente.
Alla sei del pomeriggio finì l’orario lavorativo, ed io uscii da quel luogo contento come ogni sabato di non rivederlo per più di ventiquattro ore.
Come d’abitudine, al ritorno io e mio padre passammo per il parco cittadino, allungando leggermente il cammino.
Quando giunse il momento più opportuno, mi decisi a parlare. << Padre, come mai ti vedo così preoccupato? >>
Lui alzò lo sguardo, sorpreso di avermi sentito parlare, e forse colpito dalla mia domanda. << Preoccupato? >> chiese a sua volta, anziché rispondermi.
<< Da stamani mi sembri turbato. Forse è una mia impressione. >> no, non era una mia impressione. Ne ero quasi certo.
Scosse le spalle, ostentando indifferenza.
<< Sono solo voci. >> mormorò.
<< Quali voci? >>
Mi sorrise bonario, ma non sembrava un’espressione sincera. << Non te ne devi preoccupare, per ora. Meglio badare solo alle certezze. >>
Ero confuso dalla sue parole, ma sapevo che non mi avrebbe svelato altro.
A quel punto, speravo che il padre di Thomas sapesse qualcosa della faccenda.
<< Ti dispiace se resto qui un po’? Tornerò a casa per l’ora di cena. >> domandai, fermandomi in mezzo al parco.
Lui mi osservò e alzò le spalle. << Fa pure, figliuolo. >>
Continuò per la sua strada, mentre io raggiunsi una delle panchine al bordo del sentiero che dava su un ampio prato.
Il sole era in procinto di tramontare, in quella giornata autunnale.
Tentai di trovare le risposte alle mie domande in quello spettacolo così comune e pure così spettacolare, ma per quanto cercai non mi venne in mente niente.
Cosa poteva preoccupare mio padre e tutti gli altri colleghi? Quale comune problema potevano avere?
Mi stupii della mia stupidità: la risposta era davanti ai miei occhi, eppure per ore l’avevo ignorata.
Non c’erano altre opzioni, doveva essere per forza quello. Cercai altre possibilità, ma non ne trovai.
Mi arresi e esaminai la situazione – ancora non troppo definita –, constatando che il problema anche mio.
Cos’era successo al lavoro? Cos’aveva quella vecchia fabbrica che non andava?
Tante cose, risposi automaticamente. Ma non penso che le mie lagne sulla sicurezza fossero il problema che perseguitava tutta quella gente.
Doveva essere qualcos’altro, qualcosa di peggiore, sicuramente.
Sospirai rassegnato. Forse avrei ripreso il discorso, quella sera a cena.
Poi mi persi nell’arancione del cielo sconfinato, immaginando di poter raggiungere il sole. Non di raggiungerlo realmente, solo di poter volargli più vicino, lontano dai miei problemi e dalla mia vita, che non mi soddisfaceva.
Mi ritrovai di nuovo a ripensare al mio destino – cosa che succedeva veramente spesso – e a chiedermi cosa mi sarebbe successo nel futuro. Cos’avrei fatto nella mia vita?
Mi immaginai adulto. Un uomo saggio e colto, uno scienziato. Incredibile la mia curiosità a riguardo della scienza, avrei voluto conoscere l’origine di ogni cosa. Ma forse nessuna persona al mondo poteva sapere tutto.
Immaginai di tornare casa la sera dalla mia famiglia: una moglie e due figli, un maschio e una femmina. Mai, mai, li avrei costretti a lavorare. Gli avrei voluto dare un’adolescenza migliore della mia, più felice e spensierata.
Non che io fossi arrabbiato con mio padre, per carità. Sapevo bene che non era colpa sua, che non c’era scelta per noi. Ma avrei voluto che per me, una volta padre, non fosse così.
Per quanto riguardava la figura della mia sposa, non avevo nemmeno una vaga idea. Non sapevo come sarebbe potuta essere la mia donna ideale, ma confidavo di poterlo capire una volta che l’avessi avuta di fronte.
 
A cena, infine, mi dovetti trattenere dal chiedere altre informazioni a mio padre. Il motivo era semplice: mia madre.
Non sapevo lei fosse a conoscenza o meno di ciò che preoccupava mio padre, non volevo rischiare di spaventarla. Era una donna così dolce, così amorevole, da rendere intollerabile il pensiero di ferirla.
Mio padre, era un po’ il suo contrario: forte, indistruttibile. Sembrava che nulla potesse scalfire la sua calma.
Ed io com’ero? Forse una via di mezzo, ma non saprei dirlo. Non penso si possa essere obbiettivi su se stessi.
Ad ogni modo, dopo cena ero uscito per andare dal mio amico Thomas. Casa sua era a soli due isolati, la raggiunsi in fretta.
Bussai alla porta – due colpi secchi – e pochi istanti dopo lui mi aprì. Mi fece accomodare e io lo ringraziai cortesemente, sfilandomi il cappello e mettendolo dotto braccio.
Senza dire nulla andò in sala da pranzo, verso il pianoforte, e si sedette sulla panca che stava di fronte ad esso.
Mi accomodai al suo fianco.
Lo interruppi prima che potesse parlare. << Thomas, >> dissi, << penso di sapere cosa preoccupa tutti quanti, giù in fabbrica. >>
Lui mi guardò interessato. << Ovvero? >>
<< Ci devono essere problemi con il lavoro. >>
Lui rifletté brevemente. << È possibile. >>
Mi morsi il labbro, nervoso. << Pensi che perderemo il posto? >>
Avvertii la sua ansia alle mie parole. Conoscevo la sua risposta già prima che parlasse. << Non lo so. >>
Dopo qualche altro minuto di pensieri timorosi, iniziò la lezione di pianoforte. Non ero ancora bravo, ma cercavo di impegnarmi al massimo: il suono di quello strumento in particolare mi piacque al primo udito.
Tornato a casa, andai a dormire. Ero molto stanco, dopo un’intera settimana di lavoro.
Poco prima che spegnessi le luci, mia madre entrò nella stanza per darmi la buonanotte.
Si sedette sul bordo del mio letto e mi guardò con tenerezza. << Com’è andata la giornata? >>
<< Bene >> risposi, sperando non notasse la menzogna.
<< Ne sono lieta >> disse, sorridendo.
La ricambiai, e per un attimo affondai nel suo sguardo, nei suoi occhi verdi così identici ai miei. La somiglianza tra di noi era lampante.
<< Scusa, ma ora vorrei dormire. Sono molto stanco. >> sussurrai, per poi sbadigliare.
<< Ma certo, tesoro mio. Buonanotte. >> sussurrò.
<< Buonanotte anche a te. >>
Fece per alzarsi, ma si arrestò subito. Si chinò su di me e poso un lieve bacio sulla mia fronte. Poi uscì dalla stanza sorridendomi un’ultima volta e chiudendo le luci.
Un grande affetto mi riempiva il cuore pensando a mia madre: l’unica donna che avessi amato fino ad allora.




Spazio dell'autrice:
Salve a tutti! :) Grazie mille per aver letto :)
Spero che questo capitolo non vi abbia deluse o annoiate. Anche a me sembra un po' monotono, ma volevo presentare per bene la vita di Edward prima di entrare nel vivo della storia :)
Un grazie particolare a:
anna71: grazie per la recensione, spero leggerai anche il resto della mia storia! :)
mikycullen2: grazie per la recensione e il complimento :D Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo :)
Mela_: ciao! Grazie per la recensione! Grazie per i complimenti e sono contenta che ti sia piaciuta l'idea!
Thelionfellinlovewiththelamb: grazie mille! Spero ti sia piaciuto il primo capitolo :D
Isabella_Swan: grazie per i complimenti e per la correzione, avevo fatto confusione tra prefazione e epilogo xD
Mi farebbe piacere ricevere altre vostre recensioni e ovviamente anche di altri! ;)
Baci e a presto, Juls.

  
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