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Autore: Lara Rye    19/12/2010    1 recensioni
Jason.
Un uomo, un medico che non pratica più a causa di Alec, un fantasma del suo passato. Una lotta per ricostituire il cuore e i sogni di Jason.
Nathaniel. Nate. Una persona che cercherà di entrare dentro di Jason, di aiutarlo.
Una storia di amore, di ricerca, di paure. Jason e Nate.
Questa storia partecipa alla Challenge dal nome alla storia (only slash) di NonnaPapera.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3JasonNateAlec


Le luci di Manhattan.

[Jason - Nathaniel]




"Jason McLean. Sembri quasi un miraggio di questi tempi."
Il ragazzo emise solo un flebile sorriso, senza aggiungere una parola, come risposta all'affermazione del suo vecchio capo reparto. Osservava il corridoio bianco aprirsi davanti a lui, movimentato dagli infermieri che correvano da una parte all'altra, pronti ad aiutare i pazienti a non morire, quando possibile.
Sin dalla sera prima aveva sperato che, tornando in quel posto e rivedendo tutte le persone a cui era profondamente legato, dentro di lui sarebbe scattato qualcosa di profondo, come un segno o un avvertimento che quell'anno passato lontano dal suo lavoro era stato tutto uno sbaglio per cui era pronto a rimediare.  
I passi lenti che percorreva, ascoltando il rumore delle sue scarpe che toccavano l'asfalto tra quel reparto che per lui aveva sempre rappresentato la sua vera casa, si mostravano inutili, come quella stessa mattina, quel tentativo.
Sentiva il suo cuore pulsare ad un ritmo totalmente naturale, indifferente e quindi privo di qualsiasi emozione.
Essere un chirurgo non era più l'essenza della sua vita e non corrispondeva più alla sua totale felicità: probabilmente tutto quello che lui aveva fatto prima dell'incontro con Alec non era nemmeno stata felicità perchè quella vera, quella che ricordava lui, durava pochissimi secondi, inafferabili ed irrecuperabili.
Eppure, dietro quel suo essere vile, Jason sapeva che si trovava in quel posto per un motivo preciso ovvero perché era esattamente quello il punto da cui poter ricominciare. In quell'ospedale tutto era iniziato e in esso tutto era finito.
"Dannie, ci vediamo dopo. All'una, giusto?" Osservò l'amico annuire, prima di andarsene in un altro reparto che per quanto ci avesse provato, non gli era mai appartenuto.
Attraversare quella porta era come una metafora terribile con Dante Alighieri: era la porta dell'inferno. Quando si varcava l'entrata, bisognava sapere che niente, nell'animo e nel cuore, sarebbe stato come prima perchè si mostrava, come un quadro, l'immagine di tantissime persone private della propria dignità e del proprio futuro.
Jason si posò davanti a quel maledetto cartello verde, pronto a mostrare le indicazioni -a lui non neccessarie- per un reparto in cui, come in nessun'altro, si capiva il vero significato della parola malattia.  
Oncologia.
Fece un lungo respiro, profondo e denso, poi toccò la fredda maniglia di ferro ed aprì la porta, consapevole di quello che era e di quello che sarebbe diventato.


"Perchè ti fa così tanto paura quella maniglia?"
Jason guardò la porta, tremando leggermente, fermandosi davanti ad essa, mentre spingeva la carozzina di Alec.
"Là dentro c'è la perdita della speranza, là dentro ci sono le persone.."
"Come me, Jason?"
Alec era ferito. Sapeva di non avere più nulla. Sapeva che tutto gli era stato portato via, persino la sua stessa vita.
Il suo sguardo si abbassò, fermo e deciso, verso il cemento. "Alec, scusami.  Io non intendevo."
Alzò gli occhi, fermo nell'azzurro del ragazzo. "Sappiamo entrambi cosa intendevi. Il punto è che non capisco come tu riesca a stare con una persona per cui provi pena. Davvero, non ci arrivo."
Jason non ribattè. Non sapeva cosa dire, come giustificarsi e se c'era davvero un giustificazione per tutto ciò.
"Forse è meglio che non mi accompagni, oggi." disse infine, aprendo la porta e facendosi strada, muovendo la carozzella manualmente, anche se con qualche difficoltà.
Non avere il possesso delle sue gambe era disintegrante.


I suoi passi erano intensamente delicati, come dei piccoli saltelli, come se fosse in procinto di volare: si sentiva estremamente piccolo davanti a tutto quello, ai malati che avevano la forza che non aveva mai visto in nessun altro, alla malattia più disintegrante che ci fosse, per lui molto più distruggente dell' Alzheimer o di un Ictus.
Gli infermieri, passando, lo guardavano: erano certi di riconoscere in lui qualcuno che era già stato lì, che aveva attraversato quella porta e ne era uscito illeso, o perlomeno ancora vivo, anche se Jason spesso ne dubitava.
All'improvviso si ritrovò davanti a quella stanza, a quella che per mesi era appartenuta ad Alec. Dalla porta mezza aperta, poté vedere ancora i ricami azzurri sulle tende bianche ed ingiallite, la scrivania rossa, la televisione mezza distrutta la quale si vedeva completamente in verde ed in azzurro, il calorifero ormai nero.
Osservò il letto.
Un ragazzino di non più di diciassette anni ci dormiva dentro, con il cuscino mezzo alzato e con il corpo completamente teso anche nel sonno.
Jason avanzò, camminando lentamente, impaurito dal pensiero di poterlo svegliare, di poterlo disturbare in quei pochi momenti che sicuramente il ragazzo riusciva a concedersi, liberandosi dal dolore.  Prese in mano la cartella, osservano i termini che gli passavano sotto le dita, mentre scorreva le pagine.  
Samuel Denay: sedici anni non ancora compiuti, tumore in prossimità del cuore e dei polmoni.
"Chi sei?"  Il ragazzo lo fissava dai suoi occhi azzurrissimi, molto simili ai suoi.
"Sono un chirurgo specializzato in cardiochirugia." Il ragazzo si alzò, cercando di tirarsi su con la forza che non aveva nelle braccia. Ci riuscì in qualche modo, tentennando.
Jason lo osservò bene: nella sua magrezza e debolezza, aveva una bellezza intrinseca che gli circondava il viso, semplice e delineato, come se esso fosse completamente distaccato dal dolore che circondava e caretterizzava il corpo. I suoi occhi, azzurri come il cielo, come una specie di paradiso celeste, esprimevano serenità, curiosità e un incredibile voglia di vivacità e vita. Moltissime persone situate in quel reparto erano vuote, perse, chiuse in una baratro, ma Samuel no.
Sembrava che ciò che traspariva dalla sua anima gridasse vita a piena voce.
Samuel aprì il cassetto inferiore del comodino posto accanto al suo letto e porse una foto a Jason, dicendo solo: "Penso che appartenga a te."
Jason la prese tra le mani, osservando bene quella fotografia, raffigurante lui ed Alec stretti in un forte abbraccio.

"Non abbiamo neanche una foto." sussurrò Jason, steso sul letto, mentre Alec si preparava per una visita importante.
"Quando te ne andrai, non avrò neanche una foto di te, di noi." concluse infine il biondo.
Alec era davanti allo specchio, possente e scuro nel viso, come sempre. Avanzò verso la scrivania, estraendo una polaroid.
"Facciamola."
"Abbracciami." sussurrò Jason.
"Cosa?"
"Abbracciami. Voglio potermi ricordare di un tuo abbraccio."
Alec lo strinse a sè, forte e deciso, mentre il viso sembrava rigato dalle lacrime. Era una specie di pre-addio, una foto per ricordarsi della verità.


"Grazie" disse Jason, riportando gli occhi sulla cartella del ragazzo.



Soho, Casa di Nathaniel. Ore 21.20
Nathan stava male.
I colori lo stancavano, come sempre. Volse gli occhi attornò al soggiorno di casa sua, color bianco e nero, come un vecchio filmato di Jim Morrison o un vecchio film, colmo di quella magia che il mondo gli aveva tolto, smembrandolo.
I suoi libri si aprivano in un perfetto ordine alfabetico, mostrandosi perfetti e delineati, come una pura ossessione. Talvolta, quando stava male e si sentiva perennemente solo, si beveva un bicchiere di vino leggendo qualche pagina, quelle che gli serviva per superare, per andare avanti.
"Come stai, Nate?" Nathan alzò lo sguardo verso la ragazza, bionda e con un viso troppo giovane e spontaneo per i suoi trent'anni di età.
"Sto, Chloe."
"Devi perdonarla. Prima o poi dovrai farlo."
Nathan sbattè il pugno sul tavolo, violentemente, causando la fuoriuscita di un pò di sangue. Lui e sua sorella si erano ripromessi di non affrontare più quell'argomento così doloroso eppure lei, proprio quel giorno, era ritornata a sbatterglielo in faccia, brutalmente.
Aveva cercato di estraniarsi da tutto ciò, di vivere e crescere senza che nessuno potesse fargli o rinfacciargli il suo passato, la sua vita precedente.
"Si tratta della mamma, Nate."
Gli occhi castani di Nathan cambiarono, assumendo un tono scuro, raggiungendo quasi il nero, l'oscurita. Quella persona non era sua madre, non più, non da quando suo padre era morto e lui si era ritrovato a combattere contro una persona malvagia, indifferente nei confronti di suo figlio, di lui.
"Sarà tua madre. Non è più la mia da molto tempo."
Il campanello suonò, interrompendo la discussione tra i due fratelli. Nate guardò oltre la porta, emettendo un sospiro di sollievo. Era arrivato il suo adorato ospite proprio nel momento perfetto.
Appena Nate poggiò lo sguardo sul corpo di Jason, si sentì al sicuro, pronto a ritornare nella sua falsa serenità.

...
Sono giorni che sono su sto benedetto capitolo e finalmente pubblico, non ce la facevo più a lavorarci sopra. Tanto è comunque orribile.
A dir la verità è la meta di un capitolo: ho deciso di dividerlo in due.. Il prossimo sarà totalmente dedicato a Nate.
Comunque ho deciso di allungarla un pò.
Grazie a tutti, come sempre :)


   
 
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