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Autore: Lady Antares Degona Lienan    19/12/2010    1 recensioni
C'era una volta un Re. Il Re cadde e con lui la sua gloria.
Rimangono i pensieri, i rimpianti e un dolore sordo che, semplicemente, non va più via.
Fanfiction vincitrice del "A wind of Change", indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction vincitrice del Wind of Change, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »

Fanfiction Contest ~ Collection of Starlight






I know Saint Peter won’t call my NAME.

 

 

 

 

- Popolo! -

Le urla, le voci, i sussurri. Neri come l’odio, assordanti come lo squillo di tromba.

- Popolo! - un urlo su tutti. - Popolo! Il re è morto! -

Le persone sbattono le une contro le altre, mi urtano, pestano l’orlo del mio mantello. E si abbracciano, si baciano, si complimentano: non sanno se seguirà un flagello peggiore. Alcuni sputano, lanciano maledizioni; un po’ di saliva finisce sullo stivale in pelle della persona vicina a me. Egli non se ne cura, tutto intento a mostrare al mondo un sorriso fatto di denti che non ci sono più: le gengive sono d’un rosa pallido che è quasi bianco.

- Morto! - inneggia la folla: non sanno che proprio in questo momento il loro odiato re si unisce al loro gaudio e celebra la propria morte. D’altra parte, come potrebbero saperlo? E’ da quando avevo sedici anni che nessuno di loro vede il mio viso.

Gli sputi che casualmente mi colpiscono non bruciano la pelle ma l’onore. Sono re figlio di re e regine, fratello e padre di re. Poco importa se ho le mani sporche del loro sangue. L’ingordigia uccise mio padre e mia madre, la necessità mia moglie e mio figlio. Io i miei fratelli. Dolore e ingordigia hanno le mie stesse colpe, ma non hanno spalle per sopportarle. E’ finito il tempo in cui stendevo il piede perché qualcuno lo vestisse e in cui ogni mio capriccio era parola divina. Ma in fondo anche gli dèi fuggono, anche gli umani più perfetti corrono lontano.

- Ma non sarò Dafne e la colpa non sarà Apollo. - dico piano. Guardo ancora l’uomo senza denti ed è come se glieli avessi estratti uno ad uno io stesso.

- I regni son fatti d’argilla. - rammento la voce dell’istitutore greco che soleva citarmi Shakespeare. Il palazzo è solido davanti ai miei occhi eppure, come se una patina calasse sul mio viso e potesse trascendere la realtà, improvvisamente lo vedo crollare sotto il peso delle bugie e delle antiche glorie. Stendardi ammuffiti, malesseri stantii nell’aria viziata.

Il mondo è sempre stato troppo piccolo per noi re, noi imperatori: il cielo immutabile ci ha impedito d’espanderci oltre, costruendo città nel cielo e respirando le stelle. Seicento stati per altrettanti re e regine, una terra divisa in minuscole frazioni fatte di niente.

L’aspirazione massima: espandere il proprio regno e divenire grande, ergersi contro il cielo e gettarlo in mare, urlando. Assoggettare mondi e, per fare questo, prima di tutto assoggettare il proprio.

Non ho mai odiato il mio popolo, ma ho sempre detestato il contatto umano – la mia vita da recluso non è stato un capriccio bensì una necessità, o forse il vizio ha reso una paturnia da deboli una richiesta da re.

Non ho mai odiato il mio popolo, non più di quanto odiassi mia madre per avermi avvolto in sé mentre crescevo fino ad essere in grado di respirare da solo o mio padre per la trasparenza con cui non mi notava o mio figlio per le mani che tendeva verso di me, speranzoso di fama e fortuna.

Non ho mai odiato il mio popolo ma…

… lentamente, dolorosamente, dolosamente come il mio peccato di vanità che ora è argilla ai miei piedi e sulle mie scarpe (le calze vanno indossate da solo, ho imparato, non v’è mondo in cui non si possa vivere senza sapersi mettere le calze), malamente, terribilmente, scioccamente, sciocco io a pensare di poter rompere il cielo e riempirlo di nuova gloria, grottescamente ridendo degli essere deboli, io, io, re e imperatore grande e in seguito infimo, io l’ho ridotto alla miseria più nera.

I soldi erano necessari, e non potevano venire tutti dal tesoro: in questo i miei sottoposti erano stati chiari. “Tassate il popolo, maestà,” avevano detto “tassate il popolo, ché poi ve ne sarà riconoscente.”

Impossibile avere due Cesari nello stesso mondo, tutti i nemici andavano annientati e ogni vittoria costava in armi quanto la paga del popolo. E i morti!, quanti morti!, mai avrei pensato che una nobile missione come quella avrebbe comportato l’uso di così tanto sangue.

Era cresciuto con Shakespeare ma il Re Lear gli era sempre parso troppo finto, troppo crudo per essere vero: eppure la realtà era ancora più rossa di quelle violente pagine. Né l’avevano spaventato, ad onor del vero, Antonio e Cleopatra con la sua stessa ambizione.

Aveva riconosciuto in sua moglie la cinica Cressida e l’aveva uccisa prima che la sua sciocca concezione del mondo minasse i forti pilastri su cui aveva costruito il proprio credo. E il figlio, quel figlio dagli occhi così azzurri e duri da essere appartenuti ad un fantasma (come quel cielo che non riusciva a raggiungere nemmeno stirando le punte dei piedi e graffiando con le unghie) l’aveva seguita dopo due mesi.

Se non era amore per il regno, questo: trucidare una moglie ed il figlio affinché non interferissero nel legame di prim’ordine che lui aveva sempre desiderato. Eppure.

Una volta sceso dal trono, dopo aver assaggiato il sapore dell’odio e della polvere e della disperazione, aveva capito quanto egoista fosse stato il suo amore, quanto quell’egoismo l’avesse condotto a percepire e respirare un credo falso e stabile proprio come l’argilla.

(E LA SABBIA)

La sabbia che adesso gli entrava nelle narici e sfregava contro i suoi denti rendendolo uguale a milioni di altri: l’aveva capito solo col tempo, solo con il dolore. Ciò che aveva creduto perfetto era crollato.

Anche il suo popolo aveva costruito capanne sulla spiaggia; costruzioni che puntualmente erano spazzate via dalla furia del mare e della tempesta. Eppure le piccole formiche che aveva sempre creduto essere scioccamente tenaci si erano rivelate più realiste di lui, che era il re e stringeva ogni verità nel palmo della mano.

Avevano costruito, avevano costruito sulla spiaggia.

Sulla spiaggia. Sulla sabbia. Sabbia. Avevano costruito sulla spiaggia (e le loro casette crollavano con la furia del mare e della tempesta – perché erano sulla spiaggia).

Sapevano a cosa andavano incontro.

La realizzazione l’aveva colto in un giorno qualunque, ascoltando due pescatori parlare tra di loro. Le sue piccole formiche erano cresciute, avevano abbandonato da tempo il mondo dei sogni in cui era uso vivere e avevano imparato, imparato coi morti e la rassegnazione e l’esperienza, che nulla è immutabile e tutto, contemporaneamente, si distrugge in un attimo.

Non erano come lui. Non lo erano mai stati.

Loro avevano veramente vissuto, avevano conosciuto la sabbia ed il mare traditori perché li avevano sputati ed assaggiati e fronteggiati per tutta una vita, quando la propria isteria gli aveva precluso ogni singolo contatto umano.

Eppure.

Eppure non vedeva onore in questa vita, non vedeva gloria, la fama che lui per tutta un’esistenza aveva perseguito, cercato, bramato, chiamato a sé con il sangue e le vendette e il dolore che s’era causato, pensando di arrecarsi piacere.

- Cavolo. - la moglie di Mavros il pescatore gli calpesta il mantello e lo sporca con la sabbia. Borbotta un insulto, lo mastica tra i denti e poi prosegue il cammino verso la propria casa, in ritardo.

Quella donna non è mai in orario e non gli presta mai la minima attenzione. E’ duro, per lui, capire quanto sia diventato inutile.

Lei ha la pelle arsa dal sole e i capelli non hanno mai conosciuto l’amore di una spazzola. È sporca quando ha il mare a pochi metri da casa. Lui non la sopporta. Lei e Mavros hanno avuto quattro figli, e il re da tempo si chiede come sia stato possibile concepire un figlio con una donna così orrenda (ma poi pensa che la rassegnazione del suo popolo, la sua caratteristica migliore e contemporaneamente la peggiore, l’ha temprato per questo ed altro).

Lisetha, comunque, lo ignora.

Da tempo ha capito che per lui non c’è più posto, in questo mondo.

Volevo la Terra e ho trovato l’Inferno, volevo il dominio del cielo ed ora addirittura il mare mi deride, desideravo essere un Cesare e anche Lisetha m’ignora.

Io sono niente eppure il mio orgoglio mi rende meglio di loro, hanno vinto ed avevano ragione a vincere, eppure loro non avrebbero dovuto avere le meglio perché delle persone rassegnate non meritano niente. Niente.

Li ho distrutti (ma non distrutti), li ho resi nullità e loro si sono rialzati (senza sogni né prospettive, supportati unicamente dalla cruda realtà). Persone così meritavano d’eliminarmi, ma non di governare.

 

Forse è per questo…

… forse è per questo che mi sono ucciso.

E sono un fantasma pentito, ma incapace di vivere col mio pentimento.

Salute, Lisetha.

Questo è l’addio di un re.

 

 

 

 

 

 

 

Ci ho pensato a lungo, sinceramente. Può un sovrano crudele, un dittatore, veder cadere il suo sogno e contemporaneamente scrivere – pensare – ad un’apologia di se stesso?

Non penso. Credo che l’unica arma che gli rimanga, in questo caso, sia un’analisi critica di ciò che l’ha portato al crollo, un mea culpa freddo e lucido che però non gli porta alcun tipo di soddisfazione. Non si possono perdere i sogni di una vita e gettarli nella spazzatura, rinnegandoli. Ad ogni modo ci ho provato, ho fatto del mio meglio.

Il riferimento ad Apollo e Dafne, sì. Mi è stato chiesto di spiegarlo: nel mito si racconta di un folle Apollo che insegue per amore Dafne nei boschi. Un serpente però morde la fanciulla che, destinata alla morte, viene salvata dal dio che la tramuta in albero. L’alloro, appunto. Riprendo qui il concetto di fuga dalle colpe e di pentimento ossessivo che porta alla distruzione.

Tutti i riferimenti al cielo che non è abbastanza, inoltre, vengono da Shakespeare e, più precisamente, da Antonio.

Ja ne,

Ross

 

 

 

 

 

   
 
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