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Autore: SunVenice    21/12/2010    10 recensioni
Il governo mondiale ordina una strage oltre la Red Line, tre ragazzi sono costretti ad un doloroso esodo per recuperare almeno un pezzo della propria vita, e due mondi, da anni separati, si incontreranno sulla Grande Rotta, svelando un segreto che nessuno avrebbe mai voluto venisse divulgato. "Vuoi sapere chi sono?"
La storia continua dopo quasi tre anni di assenza! (psss! è anche ON HIATUS,perchè? Perchè sono masochista!)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Barba bianca, Marco, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
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Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 13

Atto 13, scena 1

Ormai era ora di mettersi in branda anche per Marco ed Ace, nonostante la voglia di lasciare in sospeso la ricerca della piccola e dolce causa della loro rivalità fosse ben poca. La ragazza era rimasta sul ponte, osservandoli silenziosamente dal pennone della nave con occhi traboccanti di sofferenza, senza nemmeno osare  rispondere alla buonanotte che il moro le aveva mandato a gran voce, con consumati e più svariati tentativi di convincerla ad uscire allo scoperto.

Marco si era ben riguardato dal riferire all’altro Ace la posizione di Momo, accompagnandolo, senza mai fiatare, di nuovo nella sottocoperta, in direzione dei loro alloggi. Fu proprio questo silenzio ad insospettire Ace che,  percependo nella sua espressione neutra una nota di consapevolezza, non poté fare altro che dare voce ai suoi presentimenti, piantandosi improvvisamente in mezzo al corridoio con le mani sui fianchi, scrutando l’altro con un sopracciglio alzato.

Non servirono parole per comunicare la domanda sottintesa, ma eloquentemente espressa, del moro.

Marco rispose al suo sguardo con un’occhiata stanca, prima di continuare per la propria strada come se nulla fosse.

“Non so dove sia.” Disse laconico, meritandosi da parte dell’altro uno sbuffo che sapeva di amaro e sarcastico.

Non passò comunque molto, prima che se lo ritrovasse affianco.

“Amico mio, sarò pure astinente,…”  disse attirando su di sé una fuggevole occhiata del biondo “…, ma non scemo.”

Quella dichiarazione fece nascere un sorrisino sulle labbra della Fenice.

“Già, a volte dimentico che qualcosa in quella zucca rimane, oltre alla cenere.” Ironizzò, aspettandosi una risposa acida dall’altro, ma ottenne soltanto un sospiro ed un Ace decisamente poco propenso ad un battibecco. Durante le ultime settimane erano state molte le occasioni che gli avevano visti schermirsi con battutine e controbattute di ogni sorta, e forse fu per quello che Marco si stupì, abbandonando la propria e saltuaria sfrontatezza per ricadere nel serio.

“Non ci perdonerà facilmente, eh?”

“Tu che dici?”

Ace scoccò una breve occhiataccia all’altro, sentendosi preso in giro.

“Dico che più va avanti questa storia, più mi sembra di non capirci nulla.” Disse con tono aspro, lasciando di stucco Marco, che si fermò, spalancando gli occhi azzurri davanti al fratello, occupato a rimuginare a testa bassa su quello che aveva appena sputato dallo stomaco, dandogli le spalle mentre si poggiava le mani sui fianchi.

“Pensi di essere il solo a pensarci? Guarda che anche io ho ragionato su quello che è successo un mese fa.” Disse a denti stretti.

A quelle parole la Fenice poté finalmente ben intuire quello a cui si riferiva il fratello, poiché i suoi pensieri erano gli stessi, da quando il padre aveva sentenziato di cambiare rotta verso Inari Fountain.

“Momo non ricorda ancora niente. O almeno non ci rende partecipi…” fece una pausa mordendosi quasi la lingua nel correggersi “…a parte Satch.”

Marco sbuffò, incrociando le braccia al petto “Non puoi incolparla per essere diventata amica di Satch…

“Non parlare come se la cosa non infastidisse pure te.” Lo imbeccò, zittendolo.

Il biondo si ritrovò a dare ragione all’altro, più di una volta aveva dovuto compiere uno sforzo più forte del dovuto per non prendere da parte Satch ed implorarlo a suon qualche calcio in testa di limitare le sue boccate d’aria fresca in compagnia della paradisea.

“Abbiamo un mese di tempo, Ace. Non cominciare a fare storie.”

Un ringhio sommesso irruppe lieve dalla gola del moro “Fosse solo per questo.”

Marco stette ad osservare attentamente l’altro, non capendo bene il senso di quell’ultima frase. Cos’altro poteva infastidire il suo educato e irruente fratellino tanto da fargli spasimare in quel modo, quasi impercettibile ad occhio che non fosse stato acuito dai sensi sovrannaturali di una Fenice, le mani e i muscoli visibilmente tesi a fior di pelle?

“A volte, durante le ultime settimane…” cominciò Pugno di fuoco con tono strascicato e forzato “… ho ripensato alle parole di Shanks, … alla vita delle paradisee, alle loro capacità … è stato semplice sentirselo spiegare allora dal Rosso, ma…

Una mano gli scattò con fare istintivo poco sopra gli addominali appoggiandosi a mo’ di artiglio dove si sarebbe dovuto trovare lo stomaco.

“Più ci penso, più sento che … “

“Manca qualcosa.” Terminò per lui la Fenice.

Ace annuì, incrociando il suo sguardo color brace con quello cristallino dell’altro. Marco rispose pienamente a quell’occhiata significativa: lui ed Ace avevano intuito la stessa cosa.

“Ti ricordi cosa successe, dopo quella sera di bevute?” domandò il moro.

“Sì, papà rimase solo con il Rosso per circa una mezzoretta.”

“Ma quello che si sono detti lui e il Rosso, non ce lo ha mai riferito.”

Nel silenzio che seguì, Marco si poggiò di schiena alla parete del corridoio a gambe accavallate e braccia incrociate.

“Anche tu pensi  abbia a che fare con Inari Fountain?” chiese il biondo, abbassando le palpebre con fare pensoso.

Un altro ringhio.

“E come faccio a pensarlo, se non so nemmeno che tipo di isola è?!”

Quelle parole lasciarono letteralmente di sasso il comandante della prima flotta.

“Come?” chiese incredulo.

“Ho chiesto a tutti della Moby, e sembrano avere le bocche cucite!!Mi snobbano non appena ne faccio parola!!” esclamò, strofinandosi nervosamente la fronte, alzandosi lievemente il cappello per passarsi una mano tra i capelli corvini.

“Insomma, cosa c’è ad Inari Fuontain?!” terminò spazientito mentre si parava proprio di fronte al biondo con sguardo che non ammetteva né repliche né ritirate strategiche di alcun tipo.

Marco era indeciso se ridere o meno: non poteva credere che, a distanza di anni, l’intera ciurma ricordasse ancora l’ordine, che aveva dato non appena finita la sua piccola disavventura sulla temibile isola dei Ciliegi Cicalini, di non fare mai più parola né del padrone dell’isola né dei suoi abitanti.

Cavolo, ed Ace, essendo entrato nella famiglia molto tempo dopo quel fatto, non aveva mai avuto modo di sentirla nominare!

Si lasciò sfuggire una risata appena accennata, giusto per non offendere troppo il fratellino.

“Colpa mia Ace, sulla Moby non si parla di Inari Fuontain a causa mia.” Disse incitandolo con un gesto della mano a accostarsi a lui.

L’altro inarcò un sopracciglio, accogliendo in pieno l’invito.

“Allora?” lo incitò spazientito, provocando un’altra risata del biondo.

“Bene cominciamo dal principio…” disse il biondo alzando la testa verso l’alto con improvviso fare assorto “…Inari Fuontain è l’inferno.”

A quelle parole, Ace quasi capitombolò a terra per la sorpresa. Che razza di inizio era quello?

“Cos-?!”

“E io mi ci sono allenato per 6 mesi, prima che tu entrassi nella ciurma.”

Ace registrò le informazioni ottenute con un certo sforzo, era tardi dopotutto, e gli ingranaggi del suo cervello avevano dato l’ultimo sprazzo di energia per esporre i propri pensieri a Marco.

“Sei mesi?!” sbottò infine, ricevendo un cenno affermativo da parte del biondo.

“Perché diavolaccio ti sei allenato per sei mesi su un’isola? Cos’è, un campo di addestramento da far invidia alla Marina?!”

“Tutt’altro…” ridacchiò amaramente alle parole del fratello.

Un campo di addestramento sarebbe stato più morbido e meno sfiancante, si ritrovò a pensare.

“È un’isola famosa per i sui impianti termali e le feste serali.” Spiegò quasi facendosi venire il voltastomaco al ricordo di come anche lui, all’epoca molto più giovane ed ingenuo, si era lasciato fuorviare da quella subdola descrizione.

“E allora qual è il problema?” chiese sinceramente confuso Ace

“Il padrone dell’isola…” spiegò in un sospiro “… è stato il mio incubo notte e giorno.”

Il volto di Ace era ormai un punto interrogativo vivente, non si sforzava neanche più a porre domande

“Ti basti sapere…” disse la Fenice, tirandosi su dall’appoggio ormai scomodo delle pareti in legno “… che una volta entrato su quell’isola, devi lottare per uscirne.”

“Ehi!” Lo richiamò Ace intercettandogli una spalla per fermarlo, parandoglisi di fronte con voce tagliente

“Non troncare il discorso a metà! Cosa centra questo con Momo?” chiese perentorio.

Marco lottò contro il groppone che gli si era formato in gola per rispondergli degnamente: non amava parlare del suo soggiorno su quella maledettissima isola primaverile-estiva, ogni volta che ci ripensava sentiva la spina dorsale tremargli come se dietro di sé avvertisse, in un angolo buio della nave, ancora occhi gialli e ghignanti studiarlo, attendendo solo il momento propizio.

Amaterasu Ryogan.” Disse infine chiudendo gli occhi “Il padrone dell’isola. È un patito delle razze del Nuovo Mondo. Conosce ogni singola specie o essere vagamente interessanti che sorvoli o abiti quelle acque.”

Non aspettò che Ace facesse un’altra domanda, ben intuendo il suo .

 “… e se le Paradisee non sono conosciute nella Grande Rotta… è molto probabile che vengano da lì.”

  

 

Atto 13, scena 2

Senti Arch…” sibilò a denti stretti Viola, guardando fisso negli occhi il compagno di viaggio, parato davanti a Morgan per proteggerlo dall’imminente attacco d’ira dell’altra “Non mi ripeterò una seconda volta: spostatevi. ORA.

Dietro il biondo il bambino orientale tremava come una foglia, impaurito dallo sguardo feroce che l’altra stava poco a poco assumendo. Pregò che il signor Arch riuscisse a calmare un’altra volta quella furia dai capelli argentati, o si sarebbero ritrovati per l’ennesima volta a dormire al freddo.

“No, se prima non ti calmi.” Ribattè monotono il ragazzo, apparentemente calmo e gelido come dimostravano i suoi occhi dal taglio sottile.

Viola strinse i pugni più forte di prima, sorda alle ammonizioni dell’altro, puntando poi con convinto intento omicida gli occhi nocciola sull’uomo seduto poco distante dal loro tavolo.

Era una locanda semplice quella in cui si trovavano, senza troppe pretese, con una clientela varia, più o meno tranquilla, pareti in pietra grezza e un solo camino a riscaldare l’ambiente che minacciava di congelarsi come l’aria di fuori. Un’isola invernale.

Mi. ha. palpato. il. culo.” Scandì pericolosamente, facendo sbiancare di netto sia Morgan, che si annotò mentalmente di non palpare mai e poi mai il sedere ad una donna, sia i pochi che, vedendoli in piedi a fronteggiarsi in quel modo, avevano ascoltato il tono infuriato della ragazza dai capelli argentati.

Arch si accigliò lievemente, vedendola accennare un passo in avanti.

“Non fare casini Viola. L’ultima volta ci abbiamo quasi rimesso le penne.”

Ma mi ha palpato il culo!!!” sbottò indignata, facendo zittire mezza locanda, non essendosi premurata di tenere basso il tono di voce.

Arch sentiva gli sguardi di tutti puntarsi su di lui. Non andava bene. Per niente. Si preannunciava un’altra notte all’insegna di denti battuti tra loro per il freddo.

“E che cosa vorresti fargli, sentiamo.” Tentò di salvare la situazione incrociando le braccia al petto, sfiorando appena con la punta delle dita i manici dei suoi pugnali nascosti sotto la giacca, in prossimità del costato.

Gli strappo una ad una le dita sudice che si ritrova e gliele faccio ingoiare.” Fu la risposta schietta e velenosa che fece trattenere il fiato all’intera sala.

Il colpevole in questione, di fronte a quella discussione di cui aveva capito, nonostante il rhum gli annebbiasse un poco il cervello, era il malaugurato protagonista, fece una cosa che, se avesse saputo chi era quella bella gnocca a cui aveva saggiato le forme, sarebbe equivalsa ad un suicidio in piena regola.

Tracannando nel frattempo ancora un po’ di liquore dalla bottiglia, si avvicinò ai tre, ignorando volutamente i gesti disperati del bambino che gli intimavano di non fare un altro passo.

Cosha c’è amico… hic…” sghignazzò, poggiandosi pesantemente con un braccio sulle spalle del biondo, che barcollò pericolosamente “… la tua bella non ha… hic… gradito il mio complimento?” Si scolò un altro sorso veloce, umettandosi quel tanto che gli serviva le labbra.

“Ha proprio un bel sedere sai? Hiiic. Sarebbe un vero e proprio reato no-..”

Arch si spostò appena in tempo per non venire anche lui colpito dal pianoforte verticale appena lanciato da Viola, premurandosi di scattare ed allontanare Morgan dal centro della sala.

“Niente camera nemmeno stanotte, vero signor Arch?” chiese sconsolato il bambino guardando la tempesta di neve che aveva cominciato a soffiare brutalmente contro i vetri della finestra appannati della locanda.

“Temo di no.” Rispose il biondo rimettendosi in piedi.

“Ehi tu! Fatina bionda!”

A quell’esclamazione diretta verso di sé il ragazzo si paralizzò, avvertendo alle proprie spalle la presenza di almeno un paio di energumeni arrabbiati per il trattamento che stava subendo il loro compagno di bevute. Sbuffò. Perché tutte le volte che Viola faceva casino ci andava di mezzo lui? Non facevano prima ad andare ad aiutarlo?

La razza di suo padre era veramente ipocrita.

Azzardò un’occhiatina frustrata all’indietro, constatando di aver avuto un’altra volta ragione, per suo enorme sfortuna.

Contò ben tre paia di braccia muscolose e una mazza. Non male. Di solito gli andava peggio.

“Cosa pensi di fare?”

“La tua amichetta sta pestando Miguel come un sacco da boxe.”

“Allora?!”

Arch rimase zitto, scoccando una significativa occhiata a Morgan che, annuendo, si affrettò ad uscire, non senza un certo rammarico, dalla locanda, addentrandosi nel freddo della notte con le braccia strette al petto.

“Ehi! Parlo con te facc-

Una mano callosa gli artigliò una spalla, costringendolo con uno strattone a voltarsi e fronteggiare quell’ennesima seccatura. Il suo occhio sinistro si aprì, scintillando solitario di una luce color amaranto che gli bruciava dolorosamente e lentamente il nervo ottico.

A quella vista i tre uomini ebbero un attimo di ripensamento indietreggiando, ma solo per un istante. Quello che brandiva la mazza si scagliò in direzione del giovane, colpendo però il vuoto.

Pizzicato d’Ape

Fu la sola cosa che riuscì a sentire venirgli sussurrato all’orecchio, prima di venire trafitto al fianco destro da qualcosa di corto ed affilato. Intravide una lama corta venire estratta con velocità dalla propria carne, scintillando sinistra di un colore rossastro, prima di cadere a terra dolorante.

“Bastardo!” gli ringhiò contro uno degli altri due, indietreggiando tuttavia confuso.

Il biondo pulì con noncuranza la lama sul gilet che indossava e sospirò estraendo anche l’altro pugnale, preparandosi all’attacco ormai imminente.

Avrebbero finito con lo scappare via anche da quell’isola, poco ma sicuro.

 

Ed infatti eccoli lì, sotto la neve e con un misero albero dalla chioma conica a ripararli, neanche tanto bene, dal vento gelido.

“La prossima volta dammi retta.”  Ruppe il silenzio Arch, stringendosi nelle spalle più che poteva. Non era come una paradisea lui, e le sue fiamme non gli fornivano protezione dalle intemperie, ma questo, ovviamente, non importava più di tanto a Viola, bella calda attorniata dalle sue fiamme rosso vivo.

Non usare quel tono con me Arch.” Lo imbeccò, raggomitolandosi con una lieve smorfia sulla neve  Ha avuto quel che si meritava.” Concluse, lanciando un’occhiata incuriosita a Morgan, perso con il viso tra le mani in chissà quali pensieri, mentre osservava con interesse alle reazioni di Arch ad ogni spiffero di vento.

“Ti rendi conto c-che siamo dei fuggiaschi per la quinta volta di fila?” provò inutilmente a controbattere senza far tremare le mascelle.

Chi se ne frega. ” rispose Viola sbuffando di nascosto. Sapeva di essere la causa dei mali dell’altro, ma non l’avrebbe mai ammesso. L’unica a poterle estorcere una confessione simile era Allegra e nessun’altro.

“Ma non lo riscaldi?”

La ragazza cadde quasi di faccia sulla neve nel sentire quelle parole provenire dalla bocca di Morgan.  Come? Cosa? Aveva sentito bene? Lei riscaldare Arch?! Cosa aveva bevuto in quella bettola?!

E come di grazia?” chiese con un tono di avvertimento ed un sopracciglio argentato inarcato.

“Con il corpo.” Fu la semplice ed innocente ribattuta del bambino.

Non ci metto nulla a romperti l’osso del collo, marmocchio.

Ed altrettanto semplice e dura fu la risposta di Viola.

S-scusa.” Borbottò incavando con vergogna la testa tra le spalle.

“Tu piuttosto…” riprese la ragazza, dimentica di come Arch stesse assumendo via via un colorito sempre più bluastro “… non hai freddo?”

“Veramente io…

Il suono sordo del corpo del biondo che cadeva sulla neve acquistò tutta la loro attenzione.

Merda.”

“Signor Arch!” scattò il bambino terrorizzato, accostandosi con apprensione al corpo accasciato del ragazzo.

“Signorina Viola non può fare un’eccezione? Morirà di freddo di questo passo.” Implorò una volta valutato dal colore violaceo delle labbra e delle dita la gravità della situazione.

Ma se tu stai benissimo.

“Ma io…!” fece per replicare prima che un mugolio sofferente da parte del biondo lo interrompesse.

Di colpo il viso infantile di Morgan si corrucciò, assumendo quello che Viola definì un’espressione matura e ferma nelle decisioni appena prese.

La ragazza guardò con stupore malcelato il bambino dai capelli neri togliersi la magliettina e riporla accanto all’albero, per poi scoccarle uno sguardo apprensivo.

S-signorina… n-non si spaventi p-p-per favore.”

Fu tutto quello che ottenne come spiegazione, prima di vedere i tratti del fanciullo ingrossarsi e scurirsi al tempo stesso, assumendo un colore tendente al castano, per poi improvvisamente spaccarsi nei pressi degli occhi e del naso, alzandosi con degli scricchiolii secchi sempre più verso il basso, sul collo, sul petto, sulle braccia. Viola vide le mani piccole di Morgan allungarsi e incurvarsi con i piedi ad assumere la stessa trasformazione, mentre dalle mascelle, improvvisamente allungatesi, spuntavano delle zanne piccole e quasi arrotondate.

La cosa peggiore fu quando dalla schiena del bambino si allungò velocemente in qualcosa di molto simile ad una coda. Una coda lunga circa quanto il corpo e affusolata alla punta.

Davanti a lei era comparso un lucertolone con delle grosse scaglie lignee e tutto preso a raggomitolarsi il più possibile ad Arch.

Grande Spirito…escalmò incredula Viola, paralizzandosi sulla neve.

Cosa…?Come…?

Gli occhi neri della lucertola si abbassarono con vergogna, emettendo dalle profondità della lunga gola un suono sofferente, prima di diventare qualcosa di più comprensibile.

“Sono così da un po’.” Ammise la voce di Morgan, balbettando“N-non volevo dirvelo p-perché avevo paura mi m-m-mandaste via… co-come la ma-mamma.”

Un cumulo di neve gli arrivò dritto in faccia e subito dopo si ritrovò Viola addosso con le mani ad allargargli le mascelle per scrutarci dentro.

Caccia fuori il marmocchio, lucertolone!” esclamò convinta la ragazza.

M-m-ma signorina! Sono io!”

 

 

Atto 13, scena 3, Marineford, il giorno dopo, ore 9,30 del mattino

Monkey D. Garp odiava dare rapporto. La considerava di per sé una pratica, oltre che controproducente, essenzialmente atta a stringergli il collo, come se quelli dei piani alti si premurassero di ricordargli, con una saltuaria  scrollatina di guinzaglio, chi tra di loro comandasse. 

L’eroe dal Pugno di ferro non avrebbe mai ammesso, ma lui detestava dover chinare sempre la testa come un cucciolotto obbediente.

 Chi non l’avrebbe fatto?

Era un essere umano anche lui dopotutto e la libertà, anche nel più sottomesso dei purosangue viziati di cui si attorniavano pomposamente i Nobili, era un richiamo che difficilmente poteva essere soppresso del tutto. Se poi alla sua indole decisamente poco accondiscendente e molto più incline a colpi di testa, distruttivi il più delle volte, si aggiungeva anche una certa esperienza nel mondo dei Protettori della Giustizia era naturale che le sue azioni dessero l’impressione di una scalpitante voglia di liberarsi da quelle catene per poter finalmente dare lui stesso una scrollatina al mondo.

A cominciare da Akainu.

Oh, lui sì che avrebbe meritato una bella lezione. Più giovane di lui di ben vent’anni e già a presiedere la carica che lui aveva, con grande disappunto di Sengoku, più volte rifiutato. In tutta la sua carriera non aveva mai visto un marine più spregiudicato e ottuso. Cieco e sordo ad ogni parola o qualsivoglia cosa che osasse mettere in dubbio la malata idea di giustizia.

Per la barba assurda di Sengoku, quello non era un ammiraglio, ma un mastino lasciato a guinzaglio sciolto!

Neanche l’avesse fatto apposta, in quel momento l’occhio li cadde proprio sulla porta rossiccia e intarsiata della stanza privata del suddetto ammiraglio Rosso, dove non mancava mai di chiudersi ermeticamente dopo ogni missione.

Senza uscirne per delle ore.

Al solo pensiero il naso del vice ammiraglio si storse indignato e sbuffando dalle narici dilatate due nuvolette di fumo.

Un alloggio personale, bah, ai suoi tempi a un marine non sarebbe servito che un po’ di paglia ed un misero tetto gocciolante sulla testa per sentirsi a casa. E lui aveva persino chiesto ed ottenuto un alloggio personale.

Ah, queste epoche … - pensò rammaricato, scuotendo la testa mentre continuava ad allontanarsi, ma le cose non andarono come previsto.

C-c’è nessuno?

Si gelò sul posto, sbarrando gli occhi rotondi.

Era stato un sussurro femminile quello che aveva udito o la vecchiaia aveva cominciato finalmente a corrodergli il cervello?

“Qualcun-o mi sente…?”

Realizzando di non esserselo immaginato, si girò di scatto, irrigidendosi istintivamente con i pugni ben chiusi, ma non trovò nulla ad attenderlo dietro di sé.

Un’enorme punto interrogativo gli si formò sulla testa. Garp inclinò la testa confuso, non capendo lui stesso in che situazione si trovasse.

Ma…” grugnì, grattandosi la testa brizzolata con una mano e quasi scattò un’altra volta sull’attenti, quando un rumore continuato di una mano sbattuta su del legno iniziasse a rimbombare nel corridoio.

“Aiuto..!” fece nuovamente la voce femminea, cominciando una litania che si protrasse finché non ne ebbe individuato l’origine.

Monkey D. Garp avrebbe immaginato di tutto, persino uno spettro.

Nella sua carriera d’altronde ne aveva viste tante di cose strane: asini che volavano, piante mangia-nuvole e molte altre ancora.

Ma scoprire che nella camera privata dell’ammiraglio Cane Rosso c’era una donna, o almeno così aveva potuto intuire dalla voce, che implorava flebilmente di essere aiutata, era l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato.

Ancora accompagnato da qui lamenti estranei ripetuti, il vice ammiraglio si accostò meglio all’uscio.

Ehm…

“Mi faccia uscire… !” sbottò di nuovo quella voce , incrinandosi pericolosamente verso qualcosa di simile al pianto “La prego… ! Mi faccia uscire… !”

“Ehi ehi  ehi!” disse portando avanti le mani come ad intimarle di calmarsi, non pensando al fatto che lei non potesse vederlo. “Calma! Diamine, non riesco a pensare!”

Per lui fu un sollievo sentire le suppliche continuate di quella voce cessare di botto.

Sospirò, mettendosi una mano su un fianco e l’altra sulla testa, a stuzzicargli la testa con qualche grattata.

Bene… prima di tutto… ” disse chiudendo gli occhi con fare pensoso, riaprendoli poi di scatto, dirigendoli verso la superficie liscia e pomposamente cesellata della porta.

“… con chi parlo?” domandò infine.

“Con me.”

Garp cadde quasi sul pavimento. Incredibile- pensò, mentre si manteneva a stento in equilibrio, massaggiandosi le tempie – questa è di certo la cosa più assurda che mi sia mai capitata.

Fare un interrogatorio ad una porta… bah.

“E come si chiama lei?”

Clarina… Sassonia.”  Fu la nuova risposta della voce.

Bhe, era un passo avanti. “E che ci fa in quella stanza?” ricominciò incrociando le braccia al petto, pronto a ricevere qualsiasi tipo di spiegazione assurda.

“Non lo so..!” disse la donna, ponderando stranamente su ogni singola parola, quasi facendola uscire con sforzo studiato. “Voglio uscire…!” sussurrò di nuovo con tono disperato.

“Ma lui no vuole…! Sono mesi che sono qui…!”

 A quelle parole i muscoli di Garp si contrassero, irrigidendosi più di quanto non lo fossero già, e i suoi occhi stralunarono increduli.

Lui?! Aveva sentito proprio LUI??!!

Si impose la calma. Non doveva arrivare a conclusioni affrettate. Una parola non condannava una persona e lui non poteva certo collegarla alla prima che gli veniva in mente.

Si accigliò duramente, sondando con sospetto quella porta quasi a volerla oltrepassare con lo guardo e vedere finalmente il volto di chi gli stava facendo sorgere un grande atroce dubbio.

“Di chi sta parlando?” domandò a denti stretti.

L-lui… lui ha detto… di chiamarsi S-sa..” balbettò con cautela la donna oltre l’uscio, lasciandolo su un letto di chiodi per la tensione.

 Saka-zuki.”

Una decina di vene si ingrossò sulle enormi braccia del marine, minacciando di strappare il tessuto pregiato della divisa, mentre le mandibole possenti digrignavano furiose.

Rinchiudere una persona in un alloggio di Marineford???!!!

“GNNNNNNGHHHFFFF!!!” ringhiò trattenendosi a fatica dall’urlare ai quattro venti il nome del superiore. No, era troppo.  In meno di un nanosecondo la mente di Garp prese una decisione. Al diavolo i gradi. Al diavolo il protocollo. Ed al diavolo le manie d’onnipotenza di quel pomposo e scellerato del suo superiore.

“La preg-…!”

“SI SPOSTI…” disse caricando all’indietro un braccio per poi abbatterlo impietoso contro l’ostacolo che la divideva dalla prigioniera.

In men che non si dica un polverone di schegge rosse e segatura si alzò per quel breve tratto di corridoio, oscurando la vista stessa del marine, tanto era fitta. Non si preoccupò di aver esagerato nel caricare un colpo, come suo solito e senza ripensamenti mise piede nella stanza.

Gli cadde la mascella e dovette sputacchiare un po’ per via della polvere che gli si depositò sulla lingua a causa del suo gesto. Per tutte le strambe isole della Rotta Maggiore, non aveva mai visto una cosa tanto malata.

In quella stanza non c’era un solo oggetto, angolo, suppellettile che non fosse rosso. Rosso sul soffitto, sulle pareti, sui mobili, sul pavimento. Neanche quella testa bacata di Shanks, che quell’orrendo colore se lo portava in testa, avrebbe saputo pareggiare una pazzia simile.

Era… era assurdo.

Non riuscì realizzare altro, poiché un improvviso peso gli pressò delicatamente il petto, permettendogli di prestare attenzione a qualcosa che non fosse il colore della camera.

Una cascata ondeggiante di capelli biondi era riversa sulla seta tesa della sua giacca, tremando e tirando con le proprie mani quanto più materiale riusciva a raccogliere.

Dall’alto della propria statura, Monkey D. Garp riconobbe nel corpo alto e ricoperto da un semplice lembo di coperta, attorcigliata a mo’ di tunica, una donna di non più di una trentina di anni, spaventata e certamente sull’orlo di un pianto liberatorio alla vista della fine del proprio lungo ed indimenticabile incubo.

Le poggiò le mani tozze sulle spalle nude, scostandola un po’ da sé, e quello che vide fu certamente il volto di una delle più belle e regali donne che avesse mai visto. Due gemme cobalto posate a regola d’arte su un volto ovale e perfetto, come tutto il resto, specie le labbra rosee e piene come quelle infantili di una bambina. Deglutì inconsciamente di fronte a tanta perfezione e capì immediatamente il motivo per il quale Akainu si chiudeva ad ogni rientro in quella stanza.

Di certo non per riposare.

Un paio di gocce salate stillarono fuori da quelle gemme sottili e profonde come l’acqua dell’oceano, scendendo lungo le guance.

C’era un’altra cosa che Garp non avrebbe mai e poi mai imparato ad affrontare: ossia le lacrime di una donna.

“La preg- ..!” sighiozzò questa portandosi le mani alla bocca, attutendo di poco le proprie parole.

 “Mi porti via da qui…! Mi porti dai miei figli!”

Garp decise che avrebbe fatto rapporto molto più tardi.

 

Atto 13, scena 4, una delle isole della Rotta Maggiore

“Insomma sei diventato così dopo aver mangiato un frutto.” Ricapitolò brevemente Arch, innalzando  velocemente la vela maestra del Cutter. Il tessuto sottile della piccola imbarcazione si gonfiò immediatamente sotto la frenetica spinta dei venti invernali dell’isola e ben presto all’orizzonte i tre viaggiatori poterono assistere, con loro grande sollievo, alla vista di un gremire feroce di gente radunatosi sulla riva, allontanarsi sempre di più man mano che la corrente li trascinava via.

“Uhm.” Annuì in risposta Morgan poggiando le mani sulle ginocchia, stando seduto per terra. “Aveva un sapore orribile.”aggiunse poi cacciando fuori la lingua al solo pensiero del gusto amarognolo che gli aveva percorso la gola quella volta.

Finalmente lontani. Arch poté mettersi seduto al timone, senza mai però perdere di vista il bambino, quasi si aspettasse che si ritramutasse da un momento all’altro. Inutile dire che Morgan si sentì a disagio, scrutato dagli occhi freddi e come sempre inespressivi dell’altro.

“Che tipo di frutto era?” fu la rapida e semplice domanda del biondo, sempre attento ai gesti del bambino.

Il piccolo ci pensò un po’ su.

“Giallo.” Disse infine “Era come un grappolo d’uva enorme e lungo, ma non aveva il raspo.”

“Uva?” chiese improvvisamente il ragazzo, lasciando un po’ confuso l’altro.

Arch scosse la testa, scusandosi per averlo interrotto.

“Lascia stare.” Disse, virando di 30 a gradi in modo tale da far coincidere il verso giusto del loro Log Pose con quello della rotta intrapresa dall’imbarcazione.

Da lì in poi non parlarono per tutto il viaggio.

Morgan dopo un po’ decise di schiacciare un pisolino, non avendo dormito granchè la scorsa notte, ma Arch non smise di pensare un solo istante.

Doveva la vita a quel bambino. Lo ammetteva e gli sarebbe stato eternamente grato, ma quello che aveva capito avrebbe fatto meglio a non tenerselo per sé. Viola era andata a sua volta a dormire per via delle sue abitudini di paradisea, ed era stato un bene.

Di certo non avrebbe reagito bene alla notizia e Morgan avrebbe fatto meglio a non essere nei paraggi per allora.

Sospirò.

La ricerca di Allegra e sua madre si stava complicando più del previsto.

 

Atto 13, scena 5, Moby Dick, giorno.

“Tesoro, non pensi di dover andare a dormire?” fece preoccupata Penelope, districandole delicatamente da dietro i capelli, ormai spenti, con una spazzola a setole. Erano entrambe sedute sul letto di Momo, uno dei tanti dell’infermeria che per decoro le infermiere della Moby non cedevano mai a nessuno.

La ragazza strizzò gli occhi, ben consapevole di quanto il suo viso, solcato da un paio di occhiaie più profonde del solito, angosciasse l’infermiera dai capelli biondi.

Scosse la testa, sentendo il pettine venire delicatamente posato sul comodino poco lì affianco. Come al solito non poteva parlare in pieno giorno, ma questo non impedì a Penelope di capire.

La donna sospirò, capendo bene come si dovesse sentire. In una notte aveva scoperto di essere contesa da due capitani della nave ed aveva quasi rischiato di mandare a fuoco la Moby per un momento di rabbia.

La scorsa notte aveva ascoltato le sue spiegazioni dalla prima all’ultima parola, senza fiatare, affiancata dall’immancabile ed autoritaria presenza di Betty accanto alla porta.

“Capisco.” Le disse, passandole le lunghe e smaltate dita tra i capelli, sperando in cuor suo di tranquillizzarla con quel misero gesto di solidarietà, ma ottenne solo il secco fruscio delle pagine di anatomia che venivano sfogliate.

Betty le aveva dato un ottimo passatempo, mettendo sotto il naso della paradisea uno dei suoi primi libri di medicina, ma vedere la ragazza immergersi così ostinatamente in quella lettura la rendeva inquieta.

Si alzò sconsolata dal letto, uscendo dalla stanza senza mai togliere gli occhi dalla figura ricurva della ragazza, nemmeno quando l’ultimo spiraglio che si creò nel richiudere l’uscio si fu annullato del tutto, lasciandola da sola nel corridoio.

Cominciò a dirigersi verso la mensa con la cartelletta in mano, ripensando con sguardo assente a quello che le aveva confessato Momo la scorsa notte.

Le aveva confessato di non aver ancora ricordato. Per quanto si sforzasse di capire chi fossero i visi che le giravano, offuscati e deformati da chissà cosa,  nella mente, tutto sembrava privo di significato.

Forse il capitano avrebbe dovuto dirle quello che erano riusciti a scoprire sulle sue origini, anche grazie alle confessioni del Rosso.

Già perché non dirle niente? Non sarebbe stato più semplice?

Penelope corrugò la fronte. Non era una cosa che succedeva spesso, ma qualcosa non le tornava. Il capitano non aveva mai dato segno di voler rivelare alla ragazza la sua identità, seppure in minima parte.

Allora perché?

“Buongiorno Penelope!”

Si voltò e a risponderle fu il largo e solare sorriso di Satch, in piedi dietro di lei con la solita ed impeccabile divisa bianca a doppio petto ed il ciuffo imbrillantinato pettinato all’indietro. Le venne naturale sciogliersi in uno dei propri sorrisi angelici.

“Buongiorno a lei, comandante Satch.” 

Per un attimo il comandante dal pizzetto tentennò, colpito da quell’espressione candida che l’infermiera gli aveva rivolto, ma si costrinse a riprendersi il più in fretta possibile, tornando alla propria consueta compostezza.

“Come sta il nostro scricciolo?” chiese accennando con un piccolo movimento della testa la porta dell’infermeria.

Si pentì immediatamente nel vedere il bel volto di Penelope indurirsi in un’espressione preoccupata.

“Non bene.” Sospirò con rammarico la donna, facendo per compiere un passo che venne ben presto imitato dall’altro “Non vuole nemmeno dormire.” Ammise provocando in Satch lo stesso moto di preoccupazione.

Non era normale che la ragazza non dormisse. Il suo corpo non era abituato e chissà quale stress mentale avrebbe aggiunto quello fisico. La spina dorsale gli tremolò appena nel ricordare la corda bruciacchiata dalle fiamme di Momo che Marco ed Ace gli avevano mostrato, chiedendogli se lui ne sapesse qualcosa.

Anche lui era rimasto sorpreso da quel nuovo risvolto, ma non poteva dirsi totalmente sorpreso di quello che era successo. In fondo il suo istinto, come sempre benedetto, lo aveva più volte avvertito di non far arrabbiare lo scricciolo. E in quel momento aveva capito il perché.

“Sono preoccupata, comandante Satch.”  Lo riscosse la voce sottile e tirata dell’infermiera, che si portò una mano al viso, posandola delicatamente sulla guancia “C’è qualcosa che la turba.”

Parecchie cose direi…- pensò satch, lanciando un’occhiata all’indietro, sperando che la ragazza stesse bene, o almeno, prossima a lasciarsi abbracciare da Morfeo.

Avrebbe voluto farle visita, ma in quel momento era di maggiore importanza fare un’altra cosa.

Penelope…

“Sì?” si voltò l’infermiera incontrando ancora una volta il sorrisone sereno dell’altro.

“Per caso hai visto Jaws?”

 

Atto 13, scena 6

Momo leggeva.

Leggeva con foga quei fiumi infiniti di parole senza mai vederne la fine.

Davanti a lei frasi e frasi descrivevano il corpo umano con meticolosità quasi maniacale, analizzando viscere, vene, tessuti muscolari o semplicemente epidermici con una crudezza che il suo stomaco aveva imparato in pochissimo tempo a sopportare.

Per un attimo si chiese chi avesse scritto una cosa simile, ma continuò la sua ricerca sfogliando e sfogliando ancora quell’enorme volume, ignorando la propria curiosità.

Si soffermava sulle parole che le sembravano più significative, sulle frasi, ma solo per scartarle ed andare avanti, pregando di avere più fortuna nelle pagine successive.

Niente. Niente.

Tutto quello che leggeva per lei aveva senso, come non lo aveva. La sua mente, oramai abituata alle analisi di quel tipo, cercava di evitare la sensazione di stranezza che le immagini di persone svestite della propria pelle le creava, soffocando in gola piccoli conati acidi di nervosismo.

Per tutte le stelle… perché sentiva che anche quello significava qualcosa?!

Arrivò all’ultima pagina.

L’ultima pagina.

I suoi occhi arrossati ondeggiarono sulle ultime ed insignificanti parole del libro, prima che le sue mani lo lasciassero scivolare con un tonfo sordo a terra.

Non ci trovava niente in quel volume. Niente di quel modo di pensare, di analizzare di vedere le cose, come aveva visto nelle intense e rugose pagine del libro, le apparteneva. Nulla. Assolutamente nulla.

Perché quella sensazione? Perché, nonostante la lingua, i vestiti e tutto il resto, sentiva che quel mondo non le apparteneva?

Si era gettata a capofitto su quelle pagine, spinta da un’urgenza incontrollata: capire chi era. Le era venuto naturale dopo gli avvenimenti della scorsa notte.

Capire chi era significava capire se stessa e, di conseguenza, sapere quello che voleva, poteva e doveva fare.

Chinò la testa in avanti, sperando forse di alleggerire così le proprie spalle dall’enorme peso che le dava la sensazione di pensare.

Davanti a lei soltanto il legno del pavimento. Strizzò gli occhi: doveva ricordare.

Chi era Arch?

Un ragazzo dai capelli biondi e occhi blu. Chi?

 Chi era Viola?

Una figura lontana con una fiamma rossa in mano. Chi?

Perché un’isola diversa?

Quale isola?

Perché il sospetto?

Gli occhi freddi e distaccati del ragazzo. Perché?

BASTA!

L’urlo nella sua mente fu accompagnato da un senso di pesantezza al petto, talmente forte da farle gocciolare la fronte e boccheggiare alla ricerca disperata di aria.

Pensa a qualcos’altro… – si impose, rovistando nella propria mente, ma più cercava, più le immagini di quel giorno in cui aveva fatto cadere Arch in acqua ritornavano prepotentemente in superficie – …pensa a qualcos’altro !!

Un bacio sulla mano. Una sensazione di bruciore al cuore.

NO!

Si alzò di scatto e, raccogliendo il libro che aveva lasciato cadere, si diresse a passo svelto verso la porta.

Ritrovarsi a girovagare tra i corridoi della Moby non l’aiutò più di tanto e, con la stanchezza ad intorpidirle le ossa, anche il più piccolo gesto sembrava urlarle di stare ferma.

Poi un movimento sbagliato di un piede la fece ciondolare pericolosamente in avanti, ma , stranamente, l’impatto con il pavimento non arrivò.

“Tutto bene?”

Una domanda grugnita dietro di lei, e la sensazione di una mano stretta al colletto della propria camicia, la fece voltare scoprendo l’identità del proprio occasionale salvatore.

Deglutì.

Bene. Non sarebbe potuta andare peggio. Avrebbe preferito Ace: almeno lui si sarebbe limitato a prenderla un po’ in giro dopo averle evitato, un capitombolo del genere. Certo si sarebbe un poco vergognata della goffaggine che si portava dietro, ma almeno la tensione si sarebbe alleggerita un po’.

Jaws non era mai stato un tipo loquace, da quel che ricordava.

Il comandante della terza flotta la poggiò delicatamente a terra, senza neanche darle il tempo di annuire, per poi tornare nella solita posizione a braccia conserte.

Tornata con i piedi per terra Momo ebbe l’istinto di scappare via, di corsa anche, vedendo gli occhi corrucciati dell’altro osservarla con insistenza.

Si irrigidì sul posto vedendolo chinarsi accanto a lei, allungando una mano e le cadde la mascella quando  quest’ultima riapparve nel suo campo visivo con il libro di Betty in mano.

“Ti è caduto.” Disse semplicemente porgendole il volume con la grossa mano bruna ad avvolgerne completamente la copertina.

Una lacrimuccia le affiorò automaticamente nell’angolo dell’occhio sinistro, nel constatare intimorita quanto il grosso libro che aveva trasportato apparisse piccolo nelle mani del comandante Diamante.

Eppure le sue mani andarono lo stesso ad accettare l’oggetto, forzando un sorriso a combattere contro la sua stessa paura.

I duri lineamenti di Jaws si ammorbidirono in un istante, sciogliendosi in un’espressione dispiaciuta e, forse, fu proprio nell’accorgersene che Momo si rese conto di aver esagerato.

Abbassò lo sguardo di lato, imbronciandosi.

Cosa gli aveva fatto Jaws? Assolutamente nulla.

Non era colpa sua se la sue enorme stazza le ricordava in modo spaventoso quella della figura che aveva tentato di strangolarla.

“Lo portavi indietro?”

Spalancò gli occhi, tentennando confusa.

Indietro?

Indietro dove?

Forse si riferiva a Betty.

Racimolò quanto più coraggio trovò per sostenere lo sguardo del gigante che, pur non avendo nulla a che vedere con la mole del babbo, pareva scrutarla dall’alto con un cipiglio a dir poco minaccioso.

Annuì. E, per tutte le stelle del firmamento, quanto le costò non saltare via quando Jaws si mosse sorpassandola, grugnendo un appena udibile:

Seguimi.”

 

 Atto 13, scena 7, Arioso delle conoscenze

Trattenni il fiato, spalancando la bocca alla vista di quello spettacolo maestoso.

Quella dove Jaws mi aveva portata era una stanza immensa, talmente tanto da poter, ad occhio e croce, occupare si è no quattro decimi della Moby.

Davanti a me c’era una quantità esorbitante di libri.

Libri.

Libri.

Libri.

Volumi su volumi che oscillavano in pile dall’equilibrio precario, oppure, ben riposti su scaffali ben ordinati e numerati.

Le mie narici percepirono l’odore polveroso e pungente di carta antica, intorpidendomi la mente di una sensazione simile all’euforia.

Era straordinario.

Gli occhi mi brillarono emozionati, portandomi a farmi strada di un paio di passi tra gli scaffali che componevano quella che, capii in pochi istanti, era la libreria della nave, accessibile, a giudicare dalle dimensioni, anche al capitano.

Dimenticai di essere stanca e strinsi con trepidazione il libro di anatomia di Betty.

Non che disprezzassi le letture che l’infermiera mi affibbiava, ma vedere così tanti testi di dimensione e colore diversa mi fece salire in petto una curiosità crescente.

Chissà cos’altro avrei trovato sotto quelle copertine.

Avrei iniziato da quelli più piccoli, continuando via via con quelli più complicati.

Arch.

Mi bloccai di colpo, sorpresa da quel mio stesso pensiero che aveva fatto affiorare, spontaneo sulle mie labbra, un sorriso.

Me le coprii con una mano.

Cos’era quella sensazione? Era come se … desiderassi che vedesse quel posto.

La sensazione di essere sollevata di scatto da terra mi strappò quasi un grido, che fortunatamente soffocai appena in tempo con entrambe le mani.

Mi ritrovai appoggiata su qualcosa di carnoso e liscio.

Jaws mi aveva poggiato sulla propria clavicola, facendomi sedere poco sopra le grandi e pesanti spalle della sua armatura, permettendomi in quel modo di sovrastare ben 3 ripiani colmi di volumi.

Lo guardai perplessa e lui rispose con un gran sorriso. Era il primo che gli vedevo fare, dacché ero salita sulla nave.

Sorrisi di rimando constatando quanto facesse tenerezza con quell’espressione. Sembrava proprio un’enorme orsacchiotto.

Annuii, dando il via ad un pomeriggio fatto di gesti e continue ricerche di libri interessanti.

 

Atto 13, scena 8

Marco chiuse il libro con un gesto della mano, sorridendo di fronte la scena che gli si profilò sotto gli occhi, dall’alto della sua postazione.

Era solito passare parecchio tempo in quel posto, ricercando, in completa calma e solitudine, anche grazie la sua capacità di volare che il Frutto gli conferiva, tomi dimenticati e di cui solo lui sembrava  conoscere l’esistenza. Quel giorno aveva deciso di farci una capatina, sperando che qualche copertina impolverata l’avrebbe aiutato a staccare un poco dalla routine in cui era caduto a seguito della sua rivalità con Ace.

Speranza vana, dato che non appena incontrava qualche carattere scolpito nero su bianco che contenesse una “M” di troppo, tornava sempre a strofinarsi gli occhi esasperato, cercando di cancellare inutilmente il ricordo di un paio di occhietti spaventati dalla sua stessa presenza.

Accanto a lui, testimoni della sua infruttuosa ricerca di pace interiore, stavano almeno una dozzina di volumetti di poco conto, tutti presi ed abbandonati per un altro dopo nemmeno dieci pagine.

 L’ultima spiaggia era stata rifugiarsi sullo scaffale più alto della biblioteca, dove nemmeno i libri arrivavano più.

Anche quello, purtroppo si era dimostrato un fiasco completo ed aveva ricominciato ad analizzare uno per volta il contenuto degli scritti da lui scelti.

Non si sarebbe mai lontanamente immaginato di vedere Momo e Jaws entrare nella biblioteca e cominciare a rovistare tra i libri in quel modo.

All’inizio c’era rimasto male, allargando gli occhi stupito, poi, invece, aveva cominciato ad osservarli attentamente, accorgendosi che, man mano che una quantità sempre crescente di libri si accumulava tra le braccia forzute del comandante in terza, l’atteggiamento della Paradisea si faceva più rilassato nei confronti dell’altro.

Bravo Jaws – aveva pensato, felice di poter vedere l’espressione rilassata della ragazza, prima di cogliere un piccolo particolare nel volto di quest’ultima.

Sbuffò, sentendosi immediatamente ricadere nei sensi di colpi.

Non aveva dormito, anzi, non stava  dormendo.

Poi guardò meglio e sorrise.

Non avrebbe passato molto tempo a non dormire, se le sue palpebre avevano già cominciato ad abbassarsi a quel ritmo.

Ebbe modo di palesare la sua presenza al fratello solo quando Momo crollò letteralmente sulla spalla dell’altro, stringendo al petto quello che sembrava rappresentare in copertina una sorta di isola conica e completamente composta da verde.

Si lasciò ricadere con un colpo di anche giù dall’altissimo mobile, atterrando con leggerezza per terra.

“È un bene che si sia addormentata.” Disse avvicinandosi con le mani sui fianchi.

Jaws lo scrutò per un istante di troppo, prima di voltarsi e grugnire un sommesso:

“Già.”

Marco fece scattare un sopracciglio al’insù: conosceva Jaws da anni e sapeva riconoscere quando qualcosa non andava.

“C’è qualcosa che vuoi dirmi?”

Susseguì un momento di silenzio, smorzato di netto dalla voce roca dell gigante Diamante.

Sì…” disse guardandolo nuovamente dritto negli occhi “… datele un po’ di tempo.”

Un sorrisetto tese le labbra del biondo: Jaws sapeva essere veramente protettivo nei confronti di chi si dimostrava più indifeso.

“Stiamo andando ad Inari Fountain.” Fece presente con un po’ di amaro ad invadergli la gola “Non credo avremo molto tempo per stare con lei, se papà ha deciso di farla allenare lì.”

Di nuovo silenzio.

“Non può decidere se non sa chi è.” Fu l’unico e semplice argomento che Jaws gli presentò, spiazzandolo.

Aveva ragione, doveva ammetterlo.

Si passò una mano tra i capelli a ciuffo, guardando la ragazza in questione venire poggiata con delicatezza forzata su uno dei divanetti della biblioteca.

Sapere la propria identità era certamente importante per Momo, ma lui, ripensando alle lacrime che le aveva visto versare all’affiorare dei primi ricordi, aveva iniziato a temere il momento in cui la sua mente avrebbe ritrovato la propria strada.

Si sarebbe allontanata. Lo sentiva. Sarebbe partita e non sarebbe più tornata, Inari Fountain o meno.

Questo, aggiunto alla piena coscienza che con tutta probabilità non l’avrebbe rivista per un tempo indeterminato e considerevolmente lungo, non appena approdati sull’odiata isola dei Ciliegi Cicalini,gli faceva crescere l’urgenza di accelerare i tempi, e non era un bene.

Era stato delicato la scorsa sera sul pennone della nave, più di quanto avrebbe voluto, ma sapeva di non potersi più permettere di rimanere buono.

Persino Ace, che in quel momento stava entrando dalla porta della stanza, esprimeva la sua stessa convinzione, esternandolo in ogni singolo movimento del corpo, tenendo in mano una copia del giornale mattutino.

Gli occhi color brace di Pugno di Fuoco indugiarono un attimo sulla ragazza rannicchiata lì accanto, sciogliendosi poi in un sorrisone malandrino che però non nascondeva perfettamente un certo disappunto.

“Ma come? Mi assento un attimo e già vi ritrovo a fare qualcosa di sconveniente alla mia ragaz-?” l’occhiataccia che gli rifilarono gli altri due lo zittirono all’istante.

“Ok, tregua, ma solo per oggi.” Ammorbidì la situazione aggiustandosi con fare nervoso il cappello, sbuffando contrariato.

“Qualche notizia interessante?” cambiò argomento Marco, scoccando un’occhiata eloquente al giornale arrotolato nelle mani del fratello.

Questo lo srotolò con espressione dubbiosa.

“Due nuove taglie in prima pagina.” Sintetizzò il comandante della seconda flotta tirando fuori dalle pagine del quotidiano  i due avvisi di cattura allegati, passandoli agli altri due, mentre leggeva con fare assorto l’articolo.

 

Sono stati avvistati poco lontano dalla Red Line, in prossimità dell’arcipelago Sabaody. Catalogati dannosi per la popolazione civile a causa di episodi di violenza gratuita in ben 5 isole della Grande Rotta che hanno avuto la sfortuna di ospitarli. Il sindaco dell’ultima di queste, il signor Ignatius Crowder di Mercurian Island, ha dichiarato:

<< Hanno assalito senza alcun motivo quattro dei nostri concittadini! Senza alcuna ragione! Due di loro sono finiti in ospedale pugnalati a tradimento e uno con ben 20 ossa fratturate! Hanno distrutto l’unica locanda del paese e poi se la sono data a gambe levate!>>

 

Marco fischiò ammirato di fronte la descrizione che il sindaco dell’isola aveva fornito, ben sapendo che qualcosa nella dichiarazione doveva essere stato per forza ingigantito più del dovuto.

 

I due fuggitivi…” continuò Ace “… una coppia di ragazzi, di cui ci è stato possibile rintracciare i nomi,con un bambino appresso, si sono diretti, secondo le varie testimonianze, su  una barca a vela estremamente veloce in direzione Est, probabilmente verso la Red Line. La Marina non rilascia dichiarazioni in proposito, ma sembra aver già disposto per la loro immediata cattura. In allegato le taglie dei due delinquenti (l’immagine del bambino non ci è stata pervenuta). Qualsiasi informazione alla redazione del giornale sarà più che benvenuta.

 

 “Insomma hanno fatto un bel po’ di casino.” Riassunse Jaws lanciando un’occhiata alle due taglie.

La prima immagine rappresentava un ragazzo snello e dai lineamenti talmente delicati e femminei da risultare quasi androgini. La posizione in cui era stato fotografato, di profilo con il resto del corpo teso nell’atto di voltarsi dalla parte opposta dell’obbiettivo, mentre si faceva strada con due pugnali bloccati tra due dita in mezzo ad un putiferio fatto di schegge e energumeni con le gambe all’aria, gli aveva bloccato i capelli biondi e lisci scompigliati a mezz’aria e l’occhio azzurro in un’espressione contratta da uno sforzo incoerente, vista la facilità con la quale aveva appena messo fuori uso i suoi avversari. A parte il vestiario, composto essenzialmente da una camicia bianca, un gilet sbottonato ed un paio di pantaloni, niente sembrava essere degno di nota.

Sotto l’immancabile dispaccio da ricercato “DEAD or ALIVE” faceva la sua bella figura il titolo:

ARCH

 Angelo Infido

 14.000.000

 

L’altra taglia, incredibilmente, ritraeva una ragazza. Una bellezza, avrebbe aggiunto Ace, con una lunga chioma di capelli ondulati, talmente chiari dal risultare quasi bianchi, e occhi color nocciola, in quel momento assottigliati dallo sforzo che stava facendo per sollevare sopra la propria testa nientemeno che una credenza in legno massiccio.

Una credenza!

“Tostissima la tipa.” Si sentì in dovere di dire il moro.

“Pericolosa.” Aggiunse Marco immaginandosi di doversi ritrovare alle prese on una donna in grado di un gesto simile. Fenice o meno, venire colpito da una cosa del genere faceva comunque male! In quel momento capiva la parte del “20 ossa rotte” che era apparsa nell’articolo.

Sotto tale foto, che la ritraeva con un copri spalle bianco, un corpetto, forse troppo stretto per la misura del proprio decolté, ed un pareo sgualcito, torreggiava il suo nuovo appellativo:

VIOLA

La Sollevapesi

 25.000.000

“Appropriato.” Bofonchiò Jaws con le mani conserte al petto.  

“Le taglie sono basse.” Ammise Marco guardando ancora un po’ la foto della Sollevapesi . C’era qualcosa di familiare …

“Secondo me faranno strada.” Si intromise entusiasta Ace, afferrando a tradimento dalle dita di Marco la taglia della ragazza.

“Specialmente lei.” Continuò indicandola con il dito indice “Si vede che ha grinta da vendere.”

Marco si ritrovò tra le mani il giornale, rileggendo la parte che indicava la loro rotta.

Sabaody…

Anche loro sarebbero passati da quelle parti.

“Dite che gli incroceremo?” chiese Ace ripiegando le due taglie, pronte per essere mostrate al resto della ciurma.

“Chissà.” Concluse la Fenice continuando a rimuginare sulla sottile familiarità che il volto della Sollevapesi gli aveva comunicato.

Ebbe un colpo di genio improvviso e si voltò di scatto verso Momo, ancora addormentata.

Incredibile.

“Ace! Passami le taglie!”

 

Fine Atto Tredicesimo. 

Sempre siano lodate le vacanze natalizie, il PC e tutte quelle piccole grandi cose che mi permettono di scrivere, seppur in ritardo. Donneee!!! Sono tornata! Lo so, vi faccio sempre venire degli infarti e mi dispiace! Come promesso ecco alcuni risvolti interessanti! Ihihi!

E come ancora promesso si continuano le domande che creano la nostra piccola grande opera!!

 

1)      Chi sceglierà Momo? Marco o Ace? [second round!XD]

2)      Arch e Viola arriveranno a Sabaody prima, con o dopo la ciurma del Bianco? Se sì immaginatevi cosa succederebbe!  

Popolo! Si vota!

Vado a nanna che è mezzanotte! Kisskis ragazze! Baciooooniiiii!!

 

 

   
 
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