Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 13
Atto 13, scena 1
Ormai era ora di mettersi in branda anche
per Marco ed Ace, nonostante la voglia di lasciare in sospeso la ricerca della
piccola e dolce causa della loro rivalità fosse ben poca. La ragazza era
rimasta sul ponte, osservandoli silenziosamente dal pennone della nave con
occhi traboccanti di sofferenza, senza nemmeno osare rispondere alla buonanotte che il moro le
aveva mandato a gran voce, con consumati e più svariati tentativi di
convincerla ad uscire allo scoperto.
Marco si era ben riguardato dal riferire
all’altro Ace la posizione di Momo, accompagnandolo, senza mai fiatare, di
nuovo nella sottocoperta, in direzione dei loro alloggi. Fu proprio questo
silenzio ad insospettire Ace che, percependo
nella sua espressione neutra una nota di consapevolezza, non poté fare altro
che dare voce ai suoi presentimenti, piantandosi improvvisamente in mezzo al
corridoio con le mani sui fianchi, scrutando l’altro con un sopracciglio
alzato.
Non servirono parole per comunicare la
domanda sottintesa, ma eloquentemente espressa, del moro.
Marco rispose al suo sguardo con
un’occhiata stanca, prima di continuare per la propria strada come se nulla
fosse.
“Non so dove sia.” Disse laconico,
meritandosi da parte dell’altro uno sbuffo che sapeva di amaro e sarcastico.
Non passò comunque molto, prima che se lo
ritrovasse affianco.
“Amico mio, sarò pure astinente,…” disse attirando su di sé una fuggevole
occhiata del biondo “…, ma non scemo.”
Quella dichiarazione fece nascere un
sorrisino sulle labbra della Fenice.
“Già, a volte dimentico che qualcosa in
quella zucca rimane, oltre alla cenere.” Ironizzò, aspettandosi una risposa
acida dall’altro, ma ottenne soltanto un sospiro ed un Ace decisamente poco
propenso ad un battibecco. Durante le ultime settimane erano state molte le
occasioni che gli avevano visti schermirsi con battutine e controbattute di
ogni sorta, e forse fu per quello che Marco si stupì, abbandonando la propria e
saltuaria sfrontatezza per ricadere nel serio.
“Non ci perdonerà facilmente, eh?”
“Tu che dici?”
Ace scoccò una breve occhiataccia
all’altro, sentendosi preso in giro.
“Dico che più va avanti questa storia, più
mi sembra di non capirci nulla.” Disse con tono aspro, lasciando di stucco
Marco, che si fermò, spalancando gli occhi azzurri davanti al fratello,
occupato a rimuginare a testa bassa su quello che aveva appena sputato dallo
stomaco, dandogli le spalle mentre si poggiava le mani sui fianchi.
“Pensi di essere il solo a pensarci?
Guarda che anche io ho ragionato su quello che è successo un mese fa.” Disse a
denti stretti.
A quelle parole la Fenice poté finalmente
ben intuire quello a cui si riferiva il fratello, poiché i suoi pensieri erano
gli stessi, da quando il padre aveva sentenziato di cambiare rotta verso Inari Fountain.
“Momo non ricorda ancora niente. O almeno
non ci rende partecipi…” fece una pausa mordendosi
quasi la lingua nel correggersi “…a parte Satch.”
Marco sbuffò, incrociando le braccia al
petto “Non puoi incolparla per essere diventata amica di Satch…”
“Non parlare come se la cosa non
infastidisse pure te.” Lo imbeccò, zittendolo.
Il biondo si ritrovò a dare ragione
all’altro, più di una volta aveva dovuto compiere uno sforzo più forte del
dovuto per non prendere da parte Satch ed implorarlo
a suon qualche calcio in testa di limitare le sue boccate d’aria fresca in
compagnia della paradisea.
“Abbiamo un mese di tempo, Ace. Non
cominciare a fare storie.”
Un ringhio sommesso irruppe lieve dalla
gola del moro “Fosse solo per questo.”
Marco stette ad osservare attentamente
l’altro, non capendo bene il senso di quell’ultima frase. Cos’altro poteva
infastidire il suo educato e irruente fratellino tanto da fargli spasimare in
quel modo, quasi impercettibile ad occhio che non fosse stato acuito dai sensi
sovrannaturali di una Fenice, le mani e i muscoli visibilmente tesi a fior di
pelle?
“A volte, durante le ultime settimane…” cominciò Pugno di fuoco con tono strascicato e
forzato “… ho ripensato alle parole di Shanks, … alla
vita delle paradisee, alle loro capacità … è stato semplice sentirselo spiegare
allora dal Rosso, ma…”
Una mano gli scattò con fare istintivo
poco sopra gli addominali appoggiandosi a mo’ di artiglio dove si sarebbe
dovuto trovare lo stomaco.
“Più ci penso, più sento che … “
“Manca qualcosa.” Terminò per lui la
Fenice.
Ace annuì, incrociando il suo sguardo
color brace con quello cristallino dell’altro. Marco rispose pienamente a
quell’occhiata significativa: lui ed Ace avevano intuito la stessa cosa.
“Ti ricordi cosa successe, dopo quella
sera di bevute?” domandò il moro.
“Sì, papà rimase solo con il Rosso per
circa una mezzoretta.”
“Ma quello che si sono detti lui e il
Rosso, non ce lo ha mai riferito.”
Nel silenzio che seguì, Marco si poggiò di
schiena alla parete del corridoio a gambe accavallate e braccia incrociate.
“Anche tu pensi abbia a che fare con Inari Fountain?” chiese il biondo, abbassando le palpebre con
fare pensoso.
Un altro ringhio.
“E come faccio a pensarlo, se non so
nemmeno che tipo di isola è?!”
Quelle parole lasciarono letteralmente di
sasso il comandante della prima flotta.
“Come?” chiese incredulo.
“Ho chiesto a tutti della Moby, e sembrano
avere le bocche cucite!!Mi snobbano non appena ne faccio parola!!” esclamò,
strofinandosi nervosamente la fronte, alzandosi lievemente il cappello per
passarsi una mano tra i capelli corvini.
“Insomma, cosa c’è ad Inari Fuontain?!” terminò spazientito mentre si parava proprio di
fronte al biondo con sguardo che non ammetteva né repliche né ritirate
strategiche di alcun tipo.
Marco era indeciso se ridere o meno: non
poteva credere che, a distanza di anni, l’intera ciurma ricordasse ancora
l’ordine, che aveva dato non appena finita la sua piccola disavventura sulla
temibile isola dei Ciliegi Cicalini, di non fare mai più parola né del padrone
dell’isola né dei suoi abitanti.
Cavolo, ed Ace, essendo entrato nella
famiglia molto tempo dopo quel fatto, non aveva mai avuto modo di sentirla
nominare!
Si lasciò sfuggire una risata appena
accennata, giusto per non offendere troppo il fratellino.
“Colpa mia Ace, sulla Moby non si parla di
Inari Fuontain a causa mia.” Disse incitandolo con un
gesto della mano a accostarsi a lui.
L’altro inarcò un sopracciglio, accogliendo
in pieno l’invito.
“Allora?” lo incitò spazientito,
provocando un’altra risata del biondo.
“Bene cominciamo dal principio…”
disse il biondo alzando la testa verso l’alto con improvviso fare assorto “…Inari Fuontain è l’inferno.”
A quelle parole, Ace quasi capitombolò a
terra per la sorpresa. Che razza di inizio era quello?
“Cos-?!”
“E io mi ci sono allenato per 6 mesi,
prima che tu entrassi nella ciurma.”
Ace registrò le informazioni ottenute con
un certo sforzo, era tardi dopotutto, e gli ingranaggi del suo cervello avevano
dato l’ultimo sprazzo di energia per esporre i propri pensieri a Marco.
“Sei mesi?!” sbottò infine, ricevendo un
cenno affermativo da parte del biondo.
“Perché diavolaccio ti sei allenato per
sei mesi su un’isola? Cos’è, un campo di addestramento da far invidia alla
Marina?!”
“Tutt’altro…”
ridacchiò amaramente alle parole del fratello.
Un campo di addestramento sarebbe stato
più morbido e meno sfiancante, si ritrovò a pensare.
“È un’isola famosa per i sui impianti
termali e le feste serali.” Spiegò quasi facendosi venire il voltastomaco al
ricordo di come anche lui, all’epoca molto più giovane ed ingenuo, si era
lasciato fuorviare da quella subdola descrizione.
“E allora qual è il problema?” chiese
sinceramente confuso Ace
“Il padrone dell’isola…”
spiegò in un sospiro “… è stato il mio incubo notte e giorno.”
Il volto di Ace era ormai un punto
interrogativo vivente, non si sforzava neanche più a porre domande
“Ti basti sapere…”
disse la Fenice, tirandosi su dall’appoggio ormai scomodo delle pareti in legno
“… che una volta entrato su quell’isola, devi lottare per uscirne.”
“Ehi!” Lo richiamò Ace intercettandogli
una spalla per fermarlo, parandoglisi di fronte con
voce tagliente
“Non troncare il discorso a metà! Cosa
centra questo con Momo?” chiese perentorio.
Marco lottò contro il groppone che gli si
era formato in gola per rispondergli degnamente: non amava parlare del suo
soggiorno su quella maledettissima isola primaverile-estiva,
ogni volta che ci ripensava sentiva la spina dorsale tremargli come se dietro
di sé avvertisse, in un angolo buio della nave, ancora occhi gialli e ghignanti
studiarlo, attendendo solo il momento propizio.
“Amaterasu Ryogan.” Disse infine chiudendo gli occhi “Il padrone
dell’isola. È un patito delle razze del Nuovo Mondo. Conosce ogni singola
specie o essere vagamente interessanti che sorvoli o abiti quelle acque.”
Non aspettò che Ace facesse un’altra
domanda, ben intuendo il suo .
“… e
se le Paradisee non sono conosciute nella Grande Rotta…
è molto probabile che vengano da lì.”
Atto
13, scena 2
“Senti
Arch…” sibilò a denti stretti Viola, guardando
fisso negli occhi il compagno di viaggio, parato davanti a Morgan per
proteggerlo dall’imminente attacco d’ira dell’altra “Non mi ripeterò una seconda volta: spostatevi. ORA.”
Dietro il biondo il bambino orientale
tremava come una foglia, impaurito dallo sguardo feroce che l’altra stava poco
a poco assumendo. Pregò che il signor Arch riuscisse
a calmare un’altra volta quella furia dai capelli argentati, o si sarebbero
ritrovati per l’ennesima volta a dormire al freddo.
“No, se prima non ti calmi.” Ribattè monotono il ragazzo, apparentemente calmo e gelido
come dimostravano i suoi occhi dal taglio sottile.
Viola strinse i pugni più forte di prima,
sorda alle ammonizioni dell’altro, puntando poi con convinto intento omicida
gli occhi nocciola sull’uomo seduto poco distante dal loro tavolo.
Era una locanda semplice quella in cui si
trovavano, senza troppe pretese, con una clientela varia, più o meno
tranquilla, pareti in pietra grezza e un solo camino a riscaldare l’ambiente
che minacciava di congelarsi come l’aria di fuori. Un’isola invernale.
“Mi.
ha. palpato. il. culo.” Scandì pericolosamente, facendo sbiancare di netto
sia Morgan, che si annotò mentalmente di non palpare mai e poi mai il sedere ad
una donna, sia i pochi che, vedendoli in piedi a fronteggiarsi in quel modo,
avevano ascoltato il tono infuriato della ragazza dai capelli argentati.
Arch si accigliò lievemente, vedendola
accennare un passo in avanti.
“Non fare casini Viola. L’ultima volta ci
abbiamo quasi rimesso le penne.”
“Ma
mi ha palpato il culo!!!” sbottò indignata, facendo zittire mezza locanda,
non essendosi premurata di tenere basso il tono di voce.
Arch sentiva gli sguardi di tutti puntarsi su
di lui. Non andava bene. Per niente. Si preannunciava un’altra notte
all’insegna di denti battuti tra loro per il freddo.
“E che cosa vorresti fargli, sentiamo.”
Tentò di salvare la situazione incrociando le braccia al petto, sfiorando
appena con la punta delle dita i manici dei suoi pugnali nascosti sotto la
giacca, in prossimità del costato.
“Gli
strappo una ad una le dita sudice che si ritrova e gliele faccio ingoiare.”
Fu la risposta schietta e velenosa che fece trattenere il fiato all’intera
sala.
Il colpevole in questione, di fronte a
quella discussione di cui aveva capito, nonostante il rhum gli annebbiasse un
poco il cervello, era il malaugurato protagonista, fece una cosa che, se avesse
saputo chi era quella bella gnocca a cui aveva
saggiato le forme, sarebbe equivalsa ad un suicidio in piena regola.
Tracannando nel frattempo ancora un po’ di
liquore dalla bottiglia, si avvicinò ai tre, ignorando volutamente i gesti
disperati del bambino che gli intimavano di non fare un altro passo.
“Cosha c’è amico… hic…” sghignazzò,
poggiandosi pesantemente con un braccio sulle spalle del biondo, che barcollò
pericolosamente “… la tua bella non ha… hic… gradito il mio complimento?” Si scolò un altro sorso
veloce, umettandosi quel tanto che gli serviva le labbra.
“Ha proprio un bel sedere sai? Hiiic. Sarebbe un vero e proprio reato no-..”
Arch si spostò appena in tempo per non venire
anche lui colpito dal pianoforte verticale appena lanciato da Viola,
premurandosi di scattare ed allontanare Morgan dal centro della sala.
“Niente camera nemmeno stanotte, vero
signor Arch?” chiese sconsolato il bambino guardando
la tempesta di neve che aveva cominciato a soffiare brutalmente contro i vetri
della finestra appannati della locanda.
“Temo di no.” Rispose il biondo rimettendosi
in piedi.
“Ehi tu! Fatina bionda!”
A quell’esclamazione diretta verso di sé
il ragazzo si paralizzò, avvertendo alle proprie spalle la presenza di almeno
un paio di energumeni arrabbiati per il trattamento che stava subendo il loro
compagno di bevute. Sbuffò. Perché tutte le volte che Viola faceva casino ci
andava di mezzo lui? Non facevano prima ad andare ad aiutarlo?
La razza di suo padre era veramente
ipocrita.
Azzardò un’occhiatina frustrata
all’indietro, constatando di aver avuto un’altra volta ragione, per suo enorme
sfortuna.
Contò ben tre paia di braccia muscolose e
una mazza. Non male. Di solito gli andava peggio.
“Cosa pensi di fare?”
“La tua amichetta sta pestando Miguel come
un sacco da boxe.”
“Allora?!”
Arch rimase zitto, scoccando una significativa
occhiata a Morgan che, annuendo, si affrettò ad uscire, non senza un certo
rammarico, dalla locanda, addentrandosi nel freddo della notte con le braccia
strette al petto.
“Ehi! Parlo con te facc-”
Una mano callosa gli artigliò una spalla,
costringendolo con uno strattone a voltarsi e fronteggiare quell’ennesima
seccatura. Il suo occhio sinistro si aprì, scintillando solitario di una luce
color amaranto che gli bruciava dolorosamente e lentamente il nervo ottico.
A quella vista i tre uomini ebbero un
attimo di ripensamento indietreggiando, ma solo per un istante. Quello che
brandiva la mazza si scagliò in direzione del giovane, colpendo però il vuoto.
“Pizzicato
d’Ape ”
Fu la sola cosa che riuscì a sentire
venirgli sussurrato all’orecchio, prima di venire trafitto al fianco destro da
qualcosa di corto ed affilato. Intravide una lama corta venire estratta con
velocità dalla propria carne, scintillando sinistra di un colore rossastro,
prima di cadere a terra dolorante.
“Bastardo!” gli ringhiò contro uno degli
altri due, indietreggiando tuttavia confuso.
Il biondo pulì con noncuranza la lama sul
gilet che indossava e sospirò estraendo anche l’altro pugnale, preparandosi
all’attacco ormai imminente.
Avrebbero finito con lo scappare via anche
da quell’isola, poco ma sicuro.
Ed infatti eccoli lì, sotto la neve e con
un misero albero dalla chioma conica a ripararli, neanche tanto bene, dal vento
gelido.
“La prossima volta dammi retta.” Ruppe il silenzio Arch,
stringendosi nelle spalle più che poteva. Non era come una paradisea lui, e le
sue fiamme non gli fornivano protezione dalle intemperie, ma questo,
ovviamente, non importava più di tanto a Viola, bella calda attorniata dalle
sue fiamme rosso vivo.
“Non
usare quel tono con me Arch.” Lo imbeccò, raggomitolandosi con una lieve
smorfia sulla neve “Ha avuto quel che si meritava.” Concluse, lanciando un’occhiata
incuriosita a Morgan, perso con il viso tra le mani in chissà quali pensieri,
mentre osservava con interesse alle reazioni di Arch
ad ogni spiffero di vento.
“Ti rendi conto c-che siamo dei fuggiaschi
per la quinta volta di fila?” provò
inutilmente a controbattere senza far tremare le mascelle.
“Chi
se ne frega. ” rispose Viola sbuffando di nascosto. Sapeva di essere la
causa dei mali dell’altro, ma non l’avrebbe mai ammesso. L’unica a poterle
estorcere una confessione simile era Allegra e nessun’altro.
“Ma non lo riscaldi?”
La ragazza cadde quasi di faccia sulla
neve nel sentire quelle parole provenire dalla bocca di Morgan. Come? Cosa? Aveva sentito bene? Lei riscaldare Arch?! Cosa aveva bevuto in
quella bettola?!
“E
come di grazia?” chiese con un tono di avvertimento ed un sopracciglio
argentato inarcato.
“Con il corpo.” Fu la semplice ed
innocente ribattuta del bambino.
“Non
ci metto nulla a romperti l’osso del collo, marmocchio.”
Ed altrettanto semplice e dura fu la
risposta di Viola.
“S-scusa.”
Borbottò incavando con vergogna la testa tra le spalle.
“Tu piuttosto…”
riprese la ragazza, dimentica di come Arch stesse
assumendo via via un colorito sempre più bluastro “…
non hai freddo?”
“Veramente io…”
Il suono sordo del corpo del biondo che
cadeva sulla neve acquistò tutta la loro attenzione.
“Merda.”
“Signor Arch!”
scattò il bambino terrorizzato, accostandosi con apprensione al corpo
accasciato del ragazzo.
“Signorina Viola non può fare
un’eccezione? Morirà di freddo di questo passo.” Implorò una volta valutato dal
colore violaceo delle labbra e delle dita la gravità della situazione.
“Ma
se tu stai benissimo.”
“Ma io…!” fece
per replicare prima che un mugolio sofferente da parte del biondo lo
interrompesse.
Di colpo il viso infantile di Morgan si
corrucciò, assumendo quello che Viola definì un’espressione matura e ferma
nelle decisioni appena prese.
La ragazza guardò con stupore malcelato il
bambino dai capelli neri togliersi la magliettina e riporla accanto all’albero,
per poi scoccarle uno sguardo apprensivo.
“S-signorina…
n-non si spaventi p-p-per favore.”
Fu tutto quello che ottenne come
spiegazione, prima di vedere i tratti del fanciullo ingrossarsi e scurirsi al
tempo stesso, assumendo un colore tendente al castano, per poi improvvisamente
spaccarsi nei pressi degli occhi e del naso, alzandosi con degli scricchiolii
secchi sempre più verso il basso, sul collo, sul petto, sulle braccia. Viola vide
le mani piccole di Morgan allungarsi e incurvarsi con i piedi ad assumere la
stessa trasformazione, mentre dalle mascelle, improvvisamente allungatesi,
spuntavano delle zanne piccole e quasi arrotondate.
La cosa peggiore fu quando dalla schiena
del bambino si allungò velocemente in qualcosa di molto simile ad una coda. Una
coda lunga circa quanto il corpo e affusolata alla punta.
Davanti a lei era comparso un lucertolone
con delle grosse scaglie lignee e tutto preso a raggomitolarsi il più possibile
ad Arch.
“Grande
Spirito…” escalmò
incredula Viola, paralizzandosi sulla neve.
“Cosa…?Come…?”
Gli occhi neri della lucertola si
abbassarono con vergogna, emettendo dalle profondità della lunga gola un suono
sofferente, prima di diventare qualcosa di più comprensibile.
“Sono così da un po’.” Ammise la voce di
Morgan, balbettando“N-non volevo dirvelo p-perché avevo paura mi m-m-mandaste
via… co-come la ma-mamma.”
Un cumulo di neve gli arrivò dritto in
faccia e subito dopo si ritrovò Viola addosso con le mani ad allargargli le
mascelle per scrutarci dentro.
“Caccia
fuori il marmocchio, lucertolone!” esclamò convinta la ragazza.
“M-m-ma
signorina! Sono io!”
Atto
13, scena 3, Marineford, il giorno dopo, ore 9,30 del
mattino
Monkey D. Garp odiava
dare rapporto. La considerava di per sé una pratica, oltre che
controproducente, essenzialmente atta a stringergli il collo, come se quelli
dei piani alti si premurassero di ricordargli, con una saltuaria scrollatina di
guinzaglio, chi tra di loro comandasse.
L’eroe dal Pugno di ferro non avrebbe mai
ammesso, ma lui detestava dover chinare sempre la testa come un cucciolotto obbediente.
Chi
non l’avrebbe fatto?
Era un essere umano anche lui dopotutto e
la libertà, anche nel più sottomesso dei purosangue viziati di cui si attorniavano
pomposamente i Nobili, era un richiamo che difficilmente poteva essere
soppresso del tutto. Se poi alla sua indole decisamente poco accondiscendente e
molto più incline a colpi di testa, distruttivi il più delle volte, si
aggiungeva anche una certa esperienza nel mondo dei Protettori della Giustizia era naturale che le sue azioni
dessero l’impressione di una scalpitante voglia di liberarsi da quelle catene
per poter finalmente dare lui stesso una scrollatina al mondo.
A cominciare da Akainu.
Oh, lui sì che avrebbe meritato una bella
lezione. Più giovane di lui di ben vent’anni e già a presiedere la carica che
lui aveva, con grande disappunto di Sengoku, più
volte rifiutato. In tutta la sua carriera non aveva mai visto un marine più
spregiudicato e ottuso. Cieco e sordo ad ogni parola o qualsivoglia cosa che
osasse mettere in dubbio la malata idea di giustizia.
Per la barba assurda di Sengoku, quello non era un ammiraglio, ma un mastino
lasciato a guinzaglio sciolto!
Neanche l’avesse fatto apposta, in quel
momento l’occhio li cadde proprio sulla porta rossiccia e intarsiata della
stanza privata del suddetto ammiraglio Rosso, dove non mancava mai di chiudersi
ermeticamente dopo ogni missione.
Senza uscirne per delle ore.
Al solo pensiero il naso del vice
ammiraglio si storse indignato e sbuffando dalle narici dilatate due nuvolette
di fumo.
Un alloggio personale, bah, ai suoi tempi
a un marine non sarebbe servito che un po’ di paglia ed un misero tetto
gocciolante sulla testa per sentirsi a casa. E lui aveva persino chiesto ed
ottenuto un alloggio personale.
Ah, queste epoche … - pensò rammaricato,
scuotendo la testa mentre continuava ad allontanarsi, ma le cose non andarono
come previsto.
“C-c’è nessuno…?”
Si gelò sul posto, sbarrando gli occhi
rotondi.
Era stato un sussurro femminile quello che
aveva udito o la vecchiaia aveva cominciato finalmente a corrodergli il
cervello?
“Qualcun-o mi sente…?”
Realizzando di non esserselo immaginato,
si girò di scatto, irrigidendosi istintivamente con i pugni ben chiusi, ma non
trovò nulla ad attenderlo dietro di sé.
Un’enorme punto interrogativo gli si formò
sulla testa. Garp inclinò la testa confuso, non
capendo lui stesso in che situazione si trovasse.
“Ma…” grugnì,
grattandosi la testa brizzolata con una mano e quasi scattò un’altra volta
sull’attenti, quando un rumore continuato di una mano sbattuta su del legno
iniziasse a rimbombare nel corridoio.
“Aiuto..!” fece nuovamente la voce
femminea, cominciando una litania che si protrasse finché non ne ebbe individuato
l’origine.
Monkey D. Garp avrebbe
immaginato di tutto, persino uno spettro.
Nella sua carriera d’altronde ne aveva
viste tante di cose strane: asini che volavano, piante mangia-nuvole
e molte altre ancora.
Ma scoprire che nella camera privata dell’ammiraglio
Cane Rosso c’era una donna, o almeno così aveva potuto intuire dalla voce, che
implorava flebilmente di essere aiutata, era l’ultima cosa che si sarebbe mai
aspettato.
Ancora accompagnato da qui lamenti
estranei ripetuti, il vice ammiraglio si accostò meglio all’uscio.
“Ehm…”
“Mi faccia uscire…
!” sbottò di nuovo quella voce , incrinandosi pericolosamente verso qualcosa di
simile al pianto “La prego… ! Mi faccia uscire… !”
“Ehi ehi
ehi!” disse portando avanti le mani come ad
intimarle di calmarsi, non pensando al fatto che lei non potesse vederlo.
“Calma! Diamine, non riesco a pensare!”
Per lui fu un sollievo sentire le
suppliche continuate di quella voce cessare di botto.
Sospirò, mettendosi una mano su un fianco
e l’altra sulla testa, a stuzzicargli la testa con qualche grattata.
“Bene… prima di tutto… ” disse chiudendo gli occhi con fare pensoso,
riaprendoli poi di scatto, dirigendoli verso la superficie liscia e
pomposamente cesellata della porta.
“… con chi parlo?” domandò infine.
“Con me.”
Garp cadde quasi sul pavimento. Incredibile-
pensò, mentre si manteneva a stento in equilibrio, massaggiandosi le tempie –
questa è di certo la cosa più assurda che mi sia mai capitata.
Fare un interrogatorio ad una porta… bah.
“E come si chiama lei?”
“Clarina…
Sassonia.” Fu la nuova risposta della
voce.
Bhe, era un passo avanti. “E che ci fa in
quella stanza?” ricominciò incrociando le braccia al petto, pronto a ricevere
qualsiasi tipo di spiegazione assurda.
“Non lo so..!” disse la donna, ponderando
stranamente su ogni singola parola, quasi facendola uscire con sforzo studiato.
“Voglio uscire…!” sussurrò di nuovo con tono
disperato.
“Ma lui no vuole…!
Sono mesi che sono qui…!”
A
quelle parole i muscoli di Garp si contrassero,
irrigidendosi più di quanto non lo fossero già, e i suoi occhi stralunarono
increduli.
Lui?! Aveva sentito proprio LUI??!!
Si impose la calma. Non doveva arrivare a
conclusioni affrettate. Una parola non condannava una persona e lui non poteva
certo collegarla alla prima che gli veniva in mente.
Si accigliò duramente, sondando con
sospetto quella porta quasi a volerla oltrepassare con lo guardo e vedere
finalmente il volto di chi gli stava facendo sorgere un grande atroce dubbio.
“Di chi sta parlando?” domandò a denti
stretti.
“L-lui… lui ha detto… di chiamarsi S-sa..”
balbettò con cautela la donna oltre l’uscio, lasciandolo su un letto di chiodi
per la tensione.
“Saka-zuki.”
Una decina di vene si ingrossò sulle
enormi braccia del marine, minacciando di strappare il tessuto pregiato della
divisa, mentre le mandibole possenti digrignavano furiose.
Rinchiudere una persona in un alloggio di Marineford???!!!
“GNNNNNNGHHHFFFF!!!” ringhiò trattenendosi
a fatica dall’urlare ai quattro venti il nome del superiore. No, era
troppo. In meno di un nanosecondo la
mente di Garp prese una decisione. Al diavolo i
gradi. Al diavolo il protocollo. Ed al diavolo le manie d’onnipotenza di quel
pomposo e scellerato del suo superiore.
“La preg-…!”
“SI SPOSTI…”
disse caricando all’indietro un braccio per poi abbatterlo impietoso contro
l’ostacolo che la divideva dalla prigioniera.
In men che non
si dica un polverone di schegge rosse e segatura si alzò per quel breve tratto
di corridoio, oscurando la vista stessa del marine, tanto era fitta. Non si
preoccupò di aver esagerato nel caricare un colpo, come suo solito e senza
ripensamenti mise piede nella stanza.
Gli cadde la mascella e dovette
sputacchiare un po’ per via della polvere che gli si depositò sulla lingua a
causa del suo gesto. Per tutte le strambe isole della Rotta Maggiore, non aveva
mai visto una cosa tanto malata.
In quella stanza non c’era un solo
oggetto, angolo, suppellettile che non fosse rosso. Rosso sul soffitto, sulle
pareti, sui mobili, sul pavimento. Neanche quella testa bacata di Shanks, che quell’orrendo colore se lo portava in testa, avrebbe
saputo pareggiare una pazzia simile.
Era… era assurdo.
Non riuscì realizzare altro, poiché un
improvviso peso gli pressò delicatamente il petto, permettendogli di prestare
attenzione a qualcosa che non fosse il colore della camera.
Una cascata ondeggiante di capelli biondi
era riversa sulla seta tesa della sua giacca, tremando e tirando con le proprie
mani quanto più materiale riusciva a raccogliere.
Dall’alto della propria statura, Monkey D. Garp riconobbe nel
corpo alto e ricoperto da un semplice lembo di coperta, attorcigliata a mo’ di
tunica, una donna di non più di una trentina di anni, spaventata e certamente
sull’orlo di un pianto liberatorio alla vista della fine del proprio lungo ed
indimenticabile incubo.
Le poggiò le mani tozze sulle spalle nude,
scostandola un po’ da sé, e quello che vide fu certamente il volto di una delle
più belle e regali donne che avesse mai visto. Due gemme cobalto posate a
regola d’arte su un volto ovale e perfetto, come tutto il resto, specie le
labbra rosee e piene come quelle infantili di una bambina. Deglutì
inconsciamente di fronte a tanta perfezione e capì immediatamente il motivo per
il quale Akainu si chiudeva ad ogni rientro in quella
stanza.
Di certo non per riposare.
Un paio di gocce salate stillarono fuori
da quelle gemme sottili e profonde come l’acqua dell’oceano, scendendo lungo le
guance.
C’era un’altra cosa che Garp non avrebbe mai e poi mai imparato ad affrontare:
ossia le lacrime di una donna.
“La preg- ..!” sighiozzò questa portandosi le mani alla bocca, attutendo
di poco le proprie parole.
“Mi
porti via da qui…! Mi porti dai miei figli!”
Garp decise che avrebbe fatto rapporto molto più tardi.
Atto
13, scena 4, una delle isole della Rotta Maggiore
“Insomma sei diventato così dopo aver
mangiato un frutto.” Ricapitolò brevemente Arch,
innalzando velocemente la vela maestra
del Cutter. Il tessuto sottile della piccola imbarcazione si gonfiò
immediatamente sotto la frenetica spinta dei venti invernali dell’isola e ben
presto all’orizzonte i tre viaggiatori poterono assistere, con loro grande
sollievo, alla vista di un gremire feroce di gente radunatosi sulla riva,
allontanarsi sempre di più man mano che la corrente li trascinava via.
“Uhm.” Annuì in risposta Morgan poggiando
le mani sulle ginocchia, stando seduto per terra. “Aveva un sapore
orribile.”aggiunse poi cacciando fuori la lingua al solo pensiero del gusto
amarognolo che gli aveva percorso la gola quella volta.
Finalmente lontani. Arch
poté mettersi seduto al timone, senza mai però perdere di vista il bambino,
quasi si aspettasse che si ritramutasse da un momento
all’altro. Inutile dire che Morgan si sentì a disagio, scrutato dagli occhi
freddi e come sempre inespressivi dell’altro.
“Che tipo di frutto era?” fu la rapida e
semplice domanda del biondo, sempre attento ai gesti del bambino.
Il piccolo ci pensò un po’ su.
“Giallo.” Disse infine “Era come un
grappolo d’uva enorme e lungo, ma non aveva il raspo.”
“Uva?” chiese improvvisamente il ragazzo,
lasciando un po’ confuso l’altro.
Arch scosse la testa, scusandosi per averlo
interrotto.
“Lascia stare.” Disse, virando di 30 a
gradi in modo tale da far coincidere il verso giusto del loro Log Pose con
quello della rotta intrapresa dall’imbarcazione.
Da lì in poi non parlarono per tutto il
viaggio.
Morgan dopo un po’ decise di schiacciare
un pisolino, non avendo dormito granchè la scorsa
notte, ma Arch non smise di pensare un solo istante.
Doveva la vita a quel bambino. Lo
ammetteva e gli sarebbe stato eternamente grato, ma quello che aveva capito
avrebbe fatto meglio a non tenerselo per sé. Viola era andata a sua volta a
dormire per via delle sue abitudini di paradisea, ed era stato un bene.
Di certo non avrebbe reagito bene alla
notizia e Morgan avrebbe fatto meglio a non essere nei paraggi per allora.
Sospirò.
La ricerca di Allegra e sua madre si stava
complicando più del previsto.
Atto
13, scena 5, Moby Dick, giorno.
“Tesoro, non pensi di dover andare a
dormire?” fece preoccupata Penelope, districandole delicatamente da dietro i
capelli, ormai spenti, con una spazzola a setole. Erano entrambe sedute sul
letto di Momo, uno dei tanti dell’infermeria che per decoro le infermiere della
Moby non cedevano mai a nessuno.
La ragazza strizzò gli occhi, ben consapevole
di quanto il suo viso, solcato da un paio di occhiaie più profonde del solito,
angosciasse l’infermiera dai capelli biondi.
Scosse la testa, sentendo il pettine
venire delicatamente posato sul comodino poco lì affianco. Come al solito non
poteva parlare in pieno giorno, ma questo non impedì a Penelope di capire.
La donna sospirò, capendo bene come si
dovesse sentire. In una notte aveva scoperto di essere contesa da due capitani
della nave ed aveva quasi rischiato di mandare a fuoco la Moby per un momento
di rabbia.
La scorsa notte aveva ascoltato le sue
spiegazioni dalla prima all’ultima parola, senza fiatare, affiancata
dall’immancabile ed autoritaria presenza di Betty accanto alla porta.
“Capisco.” Le disse, passandole le lunghe
e smaltate dita tra i capelli, sperando in cuor suo di tranquillizzarla con
quel misero gesto di solidarietà, ma ottenne solo il secco fruscio delle pagine
di anatomia che venivano sfogliate.
Betty le aveva dato un ottimo passatempo,
mettendo sotto il naso della paradisea uno dei suoi primi libri di medicina, ma
vedere la ragazza immergersi così ostinatamente in quella lettura la rendeva
inquieta.
Si alzò sconsolata dal letto, uscendo
dalla stanza senza mai togliere gli occhi dalla figura ricurva della ragazza,
nemmeno quando l’ultimo spiraglio che si creò nel richiudere l’uscio si fu
annullato del tutto, lasciandola da sola nel corridoio.
Cominciò a dirigersi verso la mensa con la
cartelletta in mano, ripensando con sguardo assente a quello che le aveva
confessato Momo la scorsa notte.
Le aveva confessato di non aver ancora
ricordato. Per quanto si sforzasse di capire chi fossero i visi che le
giravano, offuscati e deformati da chissà cosa,
nella mente, tutto sembrava privo di significato.
Forse il capitano avrebbe dovuto dirle
quello che erano riusciti a scoprire sulle sue origini, anche grazie alle
confessioni del Rosso.
Già perché non dirle niente? Non sarebbe
stato più semplice?
Penelope corrugò la fronte. Non era una
cosa che succedeva spesso, ma qualcosa non le tornava. Il capitano non aveva
mai dato segno di voler rivelare alla ragazza la sua identità, seppure in
minima parte.
Allora perché?
“Buongiorno Penelope!”
Si voltò e a risponderle fu il largo e
solare sorriso di Satch, in piedi dietro di lei con la
solita ed impeccabile divisa bianca a doppio petto ed il ciuffo imbrillantinato
pettinato all’indietro. Le venne naturale sciogliersi in uno dei propri sorrisi
angelici.
“Buongiorno a lei, comandante Satch.”
Per un attimo il comandante dal pizzetto
tentennò, colpito da quell’espressione candida che l’infermiera gli aveva
rivolto, ma si costrinse a riprendersi il più in fretta possibile, tornando
alla propria consueta compostezza.
“Come sta il nostro scricciolo?” chiese
accennando con un piccolo movimento della testa la porta dell’infermeria.
Si pentì immediatamente nel vedere il bel
volto di Penelope indurirsi in un’espressione preoccupata.
“Non bene.” Sospirò con rammarico la
donna, facendo per compiere un passo che venne ben presto imitato dall’altro
“Non vuole nemmeno dormire.” Ammise provocando in Satch
lo stesso moto di preoccupazione.
Non era normale che la ragazza non
dormisse. Il suo corpo non era abituato e chissà quale stress mentale avrebbe
aggiunto quello fisico. La spina dorsale gli tremolò appena nel ricordare la
corda bruciacchiata dalle fiamme di Momo che Marco ed Ace gli avevano mostrato,
chiedendogli se lui ne sapesse qualcosa.
Anche lui era rimasto sorpreso da quel
nuovo risvolto, ma non poteva dirsi totalmente sorpreso di quello che era
successo. In fondo il suo istinto, come sempre benedetto, lo aveva più volte
avvertito di non far arrabbiare lo scricciolo. E in quel momento aveva capito
il perché.
“Sono preoccupata, comandante Satch.” Lo riscosse
la voce sottile e tirata dell’infermiera, che si portò una mano al viso,
posandola delicatamente sulla guancia “C’è qualcosa che la turba.”
Parecchie cose direi…-
pensò satch, lanciando un’occhiata all’indietro,
sperando che la ragazza stesse bene, o almeno, prossima a lasciarsi abbracciare
da Morfeo.
Avrebbe voluto farle visita, ma in quel
momento era di maggiore importanza fare un’altra cosa.
“Penelope…”
“Sì?” si voltò l’infermiera incontrando
ancora una volta il sorrisone sereno dell’altro.
“Per caso hai visto Jaws?”
Atto
13, scena 6
Momo leggeva.
Leggeva con foga quei fiumi infiniti di
parole senza mai vederne la fine.
Davanti a lei frasi e frasi descrivevano
il corpo umano con meticolosità quasi maniacale, analizzando viscere, vene,
tessuti muscolari o semplicemente epidermici con una crudezza che il suo
stomaco aveva imparato in pochissimo tempo a sopportare.
Per un attimo si chiese chi avesse scritto
una cosa simile, ma continuò la sua ricerca sfogliando e sfogliando ancora
quell’enorme volume, ignorando la propria curiosità.
Si soffermava sulle parole che le
sembravano più significative, sulle frasi, ma solo per scartarle ed andare
avanti, pregando di avere più fortuna nelle pagine successive.
Niente. Niente.
Tutto quello che leggeva per lei aveva
senso, come non lo aveva. La sua mente, oramai abituata alle analisi di quel
tipo, cercava di evitare la sensazione di stranezza che le immagini di persone
svestite della propria pelle le creava, soffocando in gola piccoli conati acidi
di nervosismo.
Per tutte le stelle…
perché sentiva che anche quello significava qualcosa?!
Arrivò all’ultima pagina.
L’ultima pagina.
I suoi occhi arrossati ondeggiarono sulle
ultime ed insignificanti parole del libro, prima che le sue mani lo lasciassero
scivolare con un tonfo sordo a terra.
Non ci trovava niente in quel volume.
Niente di quel modo di pensare, di analizzare di vedere le cose, come aveva
visto nelle intense e rugose pagine del libro, le apparteneva. Nulla.
Assolutamente nulla.
Perché quella sensazione? Perché,
nonostante la lingua, i vestiti e tutto il resto, sentiva che quel mondo non le
apparteneva?
Si era gettata a capofitto su quelle
pagine, spinta da un’urgenza incontrollata: capire chi era. Le era venuto
naturale dopo gli avvenimenti della scorsa notte.
Capire chi era significava capire se
stessa e, di conseguenza, sapere quello che voleva, poteva e doveva fare.
Chinò la testa in avanti, sperando forse
di alleggerire così le proprie spalle dall’enorme peso che le dava la
sensazione di pensare.
Davanti a lei soltanto il legno del
pavimento. Strizzò gli occhi: doveva ricordare.
Chi era Arch?
Un
ragazzo dai capelli biondi e occhi blu. Chi?
Chi
era Viola?
Una
figura lontana con una fiamma rossa in mano. Chi?
Perché un’isola diversa?
Quale
isola?
Perché il sospetto?
Gli
occhi freddi e distaccati del ragazzo. Perché?
BASTA!
L’urlo nella sua mente fu accompagnato da
un senso di pesantezza al petto, talmente forte da farle gocciolare la fronte e
boccheggiare alla ricerca disperata di aria.
Pensa a qualcos’altro…
– si impose, rovistando nella propria mente, ma più cercava, più le immagini di
quel giorno in cui aveva fatto cadere Arch in acqua
ritornavano prepotentemente in superficie – …pensa a
qualcos’altro !!
Un
bacio sulla mano. Una sensazione di bruciore al cuore.
NO!
Si alzò di scatto e, raccogliendo il libro
che aveva lasciato cadere, si diresse a passo svelto verso la porta.
Ritrovarsi a girovagare tra i corridoi
della Moby non l’aiutò più di tanto e, con la stanchezza ad intorpidirle le
ossa, anche il più piccolo gesto sembrava urlarle di stare ferma.
Poi un movimento sbagliato di un piede la
fece ciondolare pericolosamente in avanti, ma , stranamente, l’impatto con il
pavimento non arrivò.
“Tutto bene?”
Una domanda grugnita dietro di lei, e la
sensazione di una mano stretta al colletto della propria camicia, la fece
voltare scoprendo l’identità del proprio occasionale salvatore.
Deglutì.
Bene. Non sarebbe potuta andare peggio.
Avrebbe preferito Ace: almeno lui si sarebbe limitato a prenderla un po’ in
giro dopo averle evitato, un capitombolo del genere. Certo si sarebbe un poco
vergognata della goffaggine che si portava dietro, ma almeno la tensione si
sarebbe alleggerita un po’.
Jaws non era mai stato un tipo loquace, da
quel che ricordava.
Il comandante della terza flotta la poggiò
delicatamente a terra, senza neanche darle il tempo di annuire, per poi tornare
nella solita posizione a braccia conserte.
Tornata con i piedi per terra Momo ebbe
l’istinto di scappare via, di corsa anche, vedendo gli occhi corrucciati
dell’altro osservarla con insistenza.
Si irrigidì sul posto vedendolo chinarsi
accanto a lei, allungando una mano e le cadde la mascella quando quest’ultima riapparve nel suo campo visivo
con il libro di Betty in mano.
“Ti è caduto.” Disse semplicemente porgendole
il volume con la grossa mano bruna ad avvolgerne completamente la copertina.
Una lacrimuccia le affiorò automaticamente
nell’angolo dell’occhio sinistro, nel constatare intimorita quanto il grosso
libro che aveva trasportato apparisse piccolo nelle mani del comandante
Diamante.
Eppure le sue mani andarono lo stesso ad
accettare l’oggetto, forzando un sorriso a combattere contro la sua stessa
paura.
I duri lineamenti di Jaws
si ammorbidirono in un istante, sciogliendosi in un’espressione dispiaciuta e,
forse, fu proprio nell’accorgersene che Momo si rese conto di aver esagerato.
Abbassò lo sguardo di lato,
imbronciandosi.
Cosa gli aveva fatto Jaws?
Assolutamente nulla.
Non era colpa sua se la sue enorme stazza
le ricordava in modo spaventoso quella della figura che aveva tentato di
strangolarla.
“Lo portavi indietro?”
Spalancò gli occhi, tentennando confusa.
Indietro?
Indietro dove?
Forse si riferiva a Betty.
Racimolò quanto più coraggio trovò per
sostenere lo sguardo del gigante che, pur non avendo nulla a che vedere con la
mole del babbo, pareva scrutarla dall’alto con un cipiglio a dir poco
minaccioso.
Annuì. E, per tutte le stelle del
firmamento, quanto le costò non saltare via quando Jaws
si mosse sorpassandola, grugnendo un appena udibile:
“Seguimi.”
Atto
13, scena 7, Arioso delle conoscenze
Trattenni il fiato, spalancando la bocca
alla vista di quello spettacolo maestoso.
Quella dove Jaws
mi aveva portata era una stanza immensa, talmente tanto da poter, ad occhio e
croce, occupare si è no quattro decimi della Moby.
Davanti a me c’era una quantità
esorbitante di libri.
Libri.
Libri.
Libri.
Volumi su volumi che oscillavano in pile
dall’equilibrio precario, oppure, ben riposti su scaffali ben ordinati e
numerati.
Le mie narici percepirono l’odore
polveroso e pungente di carta antica, intorpidendomi la mente di una sensazione
simile all’euforia.
Era straordinario.
Gli occhi mi brillarono emozionati,
portandomi a farmi strada di un paio di passi tra gli scaffali che componevano
quella che, capii in pochi istanti, era la libreria della nave, accessibile, a
giudicare dalle dimensioni, anche al capitano.
Dimenticai di essere stanca e strinsi con
trepidazione il libro di anatomia di Betty.
Non che disprezzassi le letture che
l’infermiera mi affibbiava, ma vedere così tanti testi di dimensione e colore
diversa mi fece salire in petto una curiosità crescente.
Chissà cos’altro avrei trovato sotto
quelle copertine.
Avrei iniziato da quelli più piccoli,
continuando via via con quelli più complicati.
Arch.
Mi bloccai di colpo, sorpresa da quel mio
stesso pensiero che aveva fatto affiorare, spontaneo sulle mie labbra, un
sorriso.
Me le coprii con una mano.
Cos’era quella sensazione? Era come se …
desiderassi che vedesse quel posto.
La sensazione di essere sollevata di
scatto da terra mi strappò quasi un grido, che fortunatamente soffocai appena
in tempo con entrambe le mani.
Mi ritrovai appoggiata su qualcosa di
carnoso e liscio.
Jaws mi aveva poggiato sulla propria clavicola,
facendomi sedere poco sopra le grandi e pesanti spalle della sua armatura,
permettendomi in quel modo di sovrastare ben 3 ripiani colmi di volumi.
Lo guardai perplessa e lui rispose con un
gran sorriso. Era il primo che gli vedevo fare, dacché ero salita sulla nave.
Sorrisi di rimando constatando quanto
facesse tenerezza con quell’espressione. Sembrava proprio un’enorme
orsacchiotto.
Annuii, dando il via ad un pomeriggio
fatto di gesti e continue ricerche di libri interessanti.
Atto
13, scena 8
Marco chiuse il libro con un gesto della
mano, sorridendo di fronte la scena che gli si profilò sotto gli occhi, dall’alto
della sua postazione.
Era solito passare parecchio tempo in quel
posto, ricercando, in completa calma e solitudine, anche grazie la sua capacità
di volare che il Frutto gli conferiva, tomi dimenticati e di cui solo lui
sembrava conoscere l’esistenza. Quel
giorno aveva deciso di farci una capatina, sperando che qualche copertina
impolverata l’avrebbe aiutato a staccare un poco dalla routine in cui era
caduto a seguito della sua rivalità con Ace.
Speranza vana, dato che non appena
incontrava qualche carattere scolpito nero su bianco che contenesse una “M” di
troppo, tornava sempre a strofinarsi gli occhi esasperato, cercando di
cancellare inutilmente il ricordo di un paio di occhietti spaventati dalla sua
stessa presenza.
Accanto a lui, testimoni della sua infruttuosa
ricerca di pace interiore, stavano almeno una dozzina di volumetti di poco
conto, tutti presi ed abbandonati per un altro dopo nemmeno dieci pagine.
L’ultima
spiaggia era stata rifugiarsi sullo scaffale più alto della biblioteca, dove
nemmeno i libri arrivavano più.
Anche quello, purtroppo si era dimostrato
un fiasco completo ed aveva ricominciato ad analizzare uno per volta il
contenuto degli scritti da lui scelti.
Non si sarebbe mai lontanamente immaginato
di vedere Momo e Jaws entrare nella biblioteca e
cominciare a rovistare tra i libri in quel modo.
All’inizio c’era rimasto male, allargando
gli occhi stupito, poi, invece, aveva cominciato ad osservarli attentamente, accorgendosi
che, man mano che una quantità sempre crescente di libri si accumulava tra le
braccia forzute del comandante in terza, l’atteggiamento della Paradisea si
faceva più rilassato nei confronti dell’altro.
Bravo Jaws –
aveva pensato, felice di poter vedere l’espressione rilassata della ragazza,
prima di cogliere un piccolo particolare nel volto di quest’ultima.
Sbuffò, sentendosi immediatamente ricadere
nei sensi di colpi.
Non aveva dormito, anzi, non stava
dormendo.
Poi guardò meglio e sorrise.
Non avrebbe passato molto tempo a non
dormire, se le sue palpebre avevano già cominciato ad abbassarsi a quel ritmo.
Ebbe modo di palesare la sua presenza al
fratello solo quando Momo crollò letteralmente sulla spalla dell’altro,
stringendo al petto quello che sembrava rappresentare in copertina una sorta di
isola conica e completamente composta da verde.
Si lasciò ricadere con un colpo di anche
giù dall’altissimo mobile, atterrando con leggerezza per terra.
“È un bene che si sia addormentata.” Disse
avvicinandosi con le mani sui fianchi.
Jaws lo scrutò per un istante di troppo, prima
di voltarsi e grugnire un sommesso:
“Già.”
Marco fece scattare un sopracciglio al’insù:
conosceva Jaws da anni e sapeva riconoscere quando
qualcosa non andava.
“C’è qualcosa che vuoi dirmi?”
Susseguì un momento di silenzio, smorzato
di netto dalla voce roca dell gigante Diamante.
“Sì…” disse guardandolo
nuovamente dritto negli occhi “… datele un po’ di tempo.”
Un sorrisetto tese le labbra del biondo: Jaws sapeva essere veramente protettivo nei confronti di
chi si dimostrava più indifeso.
“Stiamo andando ad Inari Fountain.” Fece presente con un po’ di amaro ad invadergli
la gola “Non credo avremo molto tempo per stare con lei, se papà ha deciso di
farla allenare lì.”
Di nuovo silenzio.
“Non può decidere se non sa chi è.” Fu l’unico
e semplice argomento che Jaws gli presentò, spiazzandolo.
Aveva ragione, doveva ammetterlo.
Si passò una mano tra i capelli a ciuffo,
guardando la ragazza in questione venire poggiata con delicatezza forzata su
uno dei divanetti della biblioteca.
Sapere la propria identità era certamente
importante per Momo, ma lui, ripensando alle lacrime che le aveva visto versare
all’affiorare dei primi ricordi, aveva iniziato a temere il momento in cui la
sua mente avrebbe ritrovato la propria strada.
Si sarebbe allontanata. Lo sentiva.
Sarebbe partita e non sarebbe più tornata, Inari Fountain
o meno.
Questo, aggiunto alla piena coscienza che con
tutta probabilità non l’avrebbe rivista per un tempo indeterminato e
considerevolmente lungo, non appena approdati sull’odiata isola dei Ciliegi
Cicalini,gli faceva crescere l’urgenza di accelerare i tempi, e non era un bene.
Era stato delicato la scorsa sera sul
pennone della nave, più di quanto avrebbe voluto, ma sapeva di non potersi più
permettere di rimanere buono.
Persino Ace, che in quel momento stava
entrando dalla porta della stanza, esprimeva la sua stessa convinzione,
esternandolo in ogni singolo movimento del corpo, tenendo in mano una copia del
giornale mattutino.
Gli occhi color brace di Pugno di Fuoco
indugiarono un attimo sulla ragazza rannicchiata lì accanto, sciogliendosi poi
in un sorrisone malandrino che però non nascondeva perfettamente un certo
disappunto.
“Ma come? Mi assento un attimo e già vi
ritrovo a fare qualcosa di sconveniente alla mia ragaz-?”
l’occhiataccia che gli rifilarono gli altri due lo zittirono all’istante.
“Ok, tregua, ma solo per oggi.” Ammorbidì la
situazione aggiustandosi con fare nervoso il cappello, sbuffando contrariato.
“Qualche notizia interessante?” cambiò
argomento Marco, scoccando un’occhiata eloquente al giornale arrotolato nelle
mani del fratello.
Questo lo srotolò con espressione
dubbiosa.
“Due nuove taglie in prima pagina.” Sintetizzò
il comandante della seconda flotta tirando fuori dalle pagine del
quotidiano i due avvisi di cattura
allegati, passandoli agli altri due, mentre leggeva con fare assorto l’articolo.
“Sono stati avvistati poco lontano dalla Red Line, in prossimità dell’arcipelago Sabaody.
Catalogati dannosi per la popolazione civile a causa di episodi di violenza gratuita
in ben 5 isole della Grande Rotta che hanno avuto la sfortuna di ospitarli. Il
sindaco dell’ultima di queste, il signor Ignatius Crowder di Mercurian Island, ha dichiarato:
<<
Hanno assalito senza alcun motivo quattro dei nostri concittadini! Senza alcuna
ragione! Due di loro sono finiti in ospedale pugnalati a tradimento e uno con
ben 20 ossa fratturate! Hanno distrutto l’unica locanda del paese e poi se la
sono data a gambe levate!>>”
Marco fischiò ammirato di fronte la
descrizione che il sindaco dell’isola aveva fornito, ben sapendo che qualcosa nella
dichiarazione doveva essere stato per forza ingigantito più del dovuto.
“I due fuggitivi…” continuò Ace “… una
coppia di ragazzi, di cui ci è stato possibile rintracciare i nomi,con un
bambino appresso, si sono diretti, secondo le varie testimonianze, su una barca a vela estremamente veloce in
direzione Est, probabilmente verso la Red Line. La
Marina non rilascia dichiarazioni in proposito, ma sembra aver già disposto per
la loro immediata cattura. In allegato le taglie dei due delinquenti (l’immagine
del bambino non ci è stata pervenuta). Qualsiasi informazione alla redazione
del giornale sarà più che benvenuta. ”
“Insomma
hanno fatto un bel po’ di casino.” Riassunse Jaws
lanciando un’occhiata alle due taglie.
La prima immagine rappresentava un ragazzo
snello e dai lineamenti talmente delicati e femminei da risultare quasi
androgini. La posizione in cui era stato fotografato, di profilo con il resto
del corpo teso nell’atto di voltarsi dalla parte opposta dell’obbiettivo,
mentre si faceva strada con due pugnali bloccati tra due dita in mezzo ad un
putiferio fatto di schegge e energumeni con le gambe all’aria, gli aveva
bloccato i capelli biondi e lisci scompigliati a mezz’aria e l’occhio azzurro
in un’espressione contratta da uno sforzo incoerente, vista la facilità con la
quale aveva appena messo fuori uso i suoi avversari. A parte il vestiario,
composto essenzialmente da una camicia bianca, un gilet sbottonato ed un paio
di pantaloni, niente sembrava essere degno di nota.
Sotto l’immancabile dispaccio da ricercato
“DEAD or ALIVE”
faceva la sua bella figura il titolo:
ARCH
Angelo Infido
14.000.000
L’altra taglia, incredibilmente, ritraeva
una ragazza. Una bellezza, avrebbe aggiunto Ace, con una lunga chioma di
capelli ondulati, talmente chiari dal risultare quasi bianchi, e occhi color
nocciola, in quel momento assottigliati dallo sforzo che stava facendo per
sollevare sopra la propria testa nientemeno che una credenza in legno massiccio.
Una credenza!
“Tostissima la tipa.” Si sentì in dovere
di dire il moro.
“Pericolosa.” Aggiunse Marco immaginandosi
di doversi ritrovare alle prese on una donna in grado di un gesto simile.
Fenice o meno, venire colpito da una cosa del genere faceva comunque male! In
quel momento capiva la parte del “20 ossa rotte” che era apparsa nell’articolo.
Sotto tale foto, che la ritraeva con un copri
spalle bianco, un corpetto, forse troppo stretto per la misura del proprio
decolté, ed un pareo sgualcito, torreggiava il suo nuovo appellativo:
VIOLA
La Sollevapesi
25.000.000
“Appropriato.” Bofonchiò Jaws con le mani conserte al petto.
“Le taglie sono basse.” Ammise Marco
guardando ancora un po’ la foto della Sollevapesi . C’era
qualcosa di familiare …
“Secondo me faranno strada.” Si intromise
entusiasta Ace, afferrando a tradimento dalle dita di Marco la taglia della
ragazza.
“Specialmente lei.” Continuò indicandola
con il dito indice “Si vede che ha grinta da vendere.”
Marco si ritrovò tra le mani il giornale,
rileggendo la parte che indicava la loro rotta.
Sabaody…
Anche loro sarebbero passati da quelle
parti.
“Dite che gli incroceremo?” chiese Ace
ripiegando le due taglie, pronte per essere mostrate al resto della ciurma.
“Chissà.” Concluse la Fenice continuando a
rimuginare sulla sottile familiarità che il volto della Sollevapesi
gli aveva comunicato.
Ebbe un colpo di genio improvviso e si
voltò di scatto verso Momo, ancora addormentata.
Incredibile.
“Ace! Passami le taglie!”
Fine Atto Tredicesimo.
Sempre siano lodate le vacanze
natalizie, il PC e tutte quelle piccole grandi cose che mi permettono di
scrivere, seppur in ritardo. Donneee!!! Sono tornata!
Lo so, vi faccio sempre venire degli infarti e mi dispiace! Come promesso ecco
alcuni risvolti interessanti! Ihihi!
E come ancora promesso si continuano
le domande che creano la nostra piccola grande opera!!
1)
Chi sceglierà Momo? Marco o Ace? [second round!XD]
2)
Arch
e Viola arriveranno a Sabaody prima, con o dopo la
ciurma del Bianco? Se sì immaginatevi cosa succederebbe!
Popolo!
Si vota!
Vado a
nanna che è mezzanotte! Kisskis ragazze! Baciooooniiiii!!