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Autore: Akuma    22/12/2010    2 recensioni
« Su la mano, chi non si è mai chiesto come ci si senta ad essere onnipotenti?
Non onnipotenti come il Padre Eterno, quella è roba superata! No, io parlo dell’illimitata facoltà di disporre di denaro e persone a proprio piacimento, di viaggi, di auto di lusso, di cibo prelibato, di donne mozzafiato.
Andiamo, chi non si è mai posto la questione?
Beh, a tutti coloro che almeno una volta hanno sognato tutto ciò, io posso rispondere senza troppa difficoltà.
E senza arroganza o presunzione, gente, semplicemente perché io sono Ryoma Hino, forse la rockstar più quotata di tutti i tempi dopo Angus Young.
Lui era stato eletto “individuo di bassa statura più importante del mondo”, io mi sono guadagnato il titolo di “persona dai capelli ossigenati più influente del pianeta”.
Persino Eminem è stato costretto a capitolare al mio cospetto.
Sono praticamente un mito, quindi fate largo, sarò io a rispondervi! »
Genere: Comico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Juan Diaz, Luis Napoleon, Ramon Victorino, Ryoma Hino
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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10TH TRACK - Someone That You're With
Hands” non si rivelò essere il programmino toccata e fuga che mi aspettavo.
Non si trattò affatto una seccante trasferta, né di una messa in scena filantropica: furono i tre giorni più lunghi della mia vita.
Un’atmosfera di arida desolazione m’investì non appena misi il naso fuori dal portellone dell’aereo.
Faceva particolarmente caldo, tuttavia i raggi del sole non erano caldi e vigorosi come in California, ma torridi e crudeli come non mai e non davano vita ad una flora lussureggiante e prospera, bensì misera e monocromatica.
Raggiungemmo in breve tempo l’albergo in cui avremmo dovuto alloggiare: un grazioso cinque stelle del luogo, che più o meno equivaleva ad un due stelle scarso di Los Angeles. In poche parole, a nessun magnate sarebbe saltato in testa di aprire il proprio Hilton in un luogo del genere, per cui non era nulla a cui noi superstar eravamo abituate, anche se, dopotutto, faceva parte del gioco: rifugiarci in un albergo con delle mega suites e tv satellitare nella Jacuzzi di certo non avrebbe granché giovato alla pubblicità progresso.
I nostri agenti erano stati bene attenti a non sgarrare per non dare modo alle malelingue sovversive e no global di spararci addosso raffiche d’insulti sui loro blog fomentatori di manifestazioni moleste, il cui unico risultato era sempre stato quello di sprecare chili e chili di carta per produrre inutili cartelloni dagli slogan contestatori, invece che salvare la foresta dell’Amazzonia.
Ad ogni modo bastò un breve tragitto, sfrecciando tra le strade disastrate della città, e fui scaraventato d’un tratto sul molo in cui gli occhi di Trish mi avevano scandagliato il cervello. La stessa vertiginosa sensazione di vuoto.
Allora mi accorsi quanto eravamo noi quelli fortunati, quanto eravamo realmente sull’Olimpo. E quanto qualche dose di modestia in più non ci avrebbe certo fatto male. Che invece di farci massaggi da centinaia di dollari o di lamentarci perché il nostro sushi non era fresco come appena pescato, avremmo fatto bene a rimanere lì, rimboccarci le maniche e aiutare a scavare sotto le macerie.
Mi sentii tutt’un tratto in colpa per qualcosa che non avevo commesso.
O forse sì, credo si chiami indolenza.
Il vivere nel lusso è un privilegio per pochi e forse chi ci ha fatto dono di tutto ciò ha sbagliato i suoi calcoli, dal momento che noi beneficiari di cotanti vantaggi ci limitavamo a stare in panciolle sul nostro triclinio a mangiare uva e bere vino, imboccati, serviti e riveriti, senza avere la minima considerazione di coloro che da sempre la coltivano e la pestano, quest’uva.
Corpi scheletrici e denutrizione andavano di pari passo, così come campi coltivati a nient’altro che aria e mani che a malapena riescono a reggere una zappa improvvisata, tenuta in piedi con un pezzo di corda muffita.
Durante l’intera permanenza laggiù, ogni individuo che mi rivolgeva lo sguardo non suscitava in me pietà, ma rabbia.
Rabbia, perché viviamo in un mondo sbagliato, nel quale in tre giorni noi sciocche celebrità ci aspettavamo di apportare un massiccio contributo agli sfollati, sebbene in realtà ciò che serviva era molto più che una stupida trovata pubblicitaria per guadagnare punti e click sul sito web di Maxim.
Rabbia, perché al termine del servizio fotografico e del paio d’ore di rito nei luoghi più colpiti dalla tragedia, ce ne tornavamo nel nostro hotel, protetti dalle mura delle nostre stanze a farci un long drink con l’ombrellino.
Il che metteva addosso ancora più squallore.
I più piccoli ci tendevano le braccia con innocente entusiasmo, gli adulti credo ci odiassero. Perché sapevano. Sapevano perfettamente tutto ciò.
E il mondo intero faceva finta di niente, o meglio, dava a vedere di fare del bene, sottolineando invece un abisso incolmabile tra le due realtà.
Che rimanga tra noi: allora, forse, i moderni rivoluzionari non avevano tutti i torti.
 
Il vaso traboccò inaspettatamente.
E non c’entrò nulla la miseria che avevo visto fino ad allora, la distruzione e la sofferenza causate dal terremoto, il dolore delle persone ferite o menomate. La causa fu Ramon.
Successe tutto così in fretta che mi ci vollero dei giorni per riuscire a riprendermi e a rimettere insieme le idee, per riuscire a metabolizzare una visione talmente da incubo.
C’è che puoi passare un weekend in Burundi a sfamare i bambini per far contenti i giornalisti, c’è che possono sbatterti in faccia decine di diapositive di vittime di guerre e genocidi, c’è che puoi essere il testimonial per eccellenza per la ricerca contro una qualsiasi straziante malattia, ma quando è una persona che ami a soffrire, una parte di te, quando è tuo fratello che vedi cosparso di lacrime e vomito, allora non c’è stupida evocazione che tenga.
E non lo dimentichi con una sbronza o un paio di cocktail con l’ombrellino, ti segna e basta.
Te lo porti dentro finché campi, ti si attorciglia alle budella, togliendoti il respiro. Ti uccide.
Erano da poco passate le tre di notte, io generalmente non soffrivo d’insonnia, ma quella sera non ero ancora riuscito a chiudere occhio. Va da sé che ero piuttosto nervoso.
L’unica persona che aveva la capacità di domare ogni mia delirante pulsione era sempre stato Victorino, sin da quando avevamo sette anni.
Di certo non mi sarebbe mai saltato in mente di andare a rompergli le scatole in piena notte, se non avessi udito il suono della tv accesa provenire dalla stanza attigua alla mia. Quando bussai mi venne chiesto chi fossi da una voce che non riconobbi e ci vollero diversi lunghi istanti prima che qualcuno mi aprisse.
- Ah, lascia, lascia! Ryoma è un amico!- esordì Ramon, raggiungendo sulla porta un individuo di cui non ricordo nemmeno più la faccia - Il migliore!-
Mi bastò dare un’occhiata oltre le loro spalle e l’intera mia coscienza sparì, avvolta in una spirale di collera nera come l’occhio di un uragano violento e impietoso.
- Che cazzo state facendo?- furono le ultime parole che uscirono dalla mia bocca con un tono regolare.
- Vieni a farti un giro, bellezza!- m’invitò uno dei presenti, ancora seduto sul divano di pelle nera, tutto intento a pulirsi il naso dalla cocaina che si era appena sniffato.
Sul tavolino in vetro, all’apice di un disgustoso cliché, giacevano quattro strisce di cui ancora i fortunati presenti dovevano godere, insieme a una Black AMEX e a un paio di biglietti da 100 arrotolati. [4]
Se non si fosse trattato di Ramon, mi sarei congedato con un diplomatico “no, grazie”, avrei alzato i tacchi ed avrei lasciato quelle quattro scimmie drogate a godersi il loro speed.
Ciò che mi frenò e che mi indusse ad agire in modo totalmente fuori controllo era proprio il fatto che c’era di mezzo lui.
In un baleno realizzai che la magrezza inverosimile, l’aria emaciata e il suo fare così insolito negli ultimi tempi non erano dati da un lavoro importante che lo aveva impegnato più del normale o da una qualsivoglia ragione sensata, ma dall’essere diventato il PR di successo dei più svariati coca party. E, dal momento che operava anche in trasferta, c’era da inchinarsi allo stacanovismo.
Mi avvicinai a Victorino e lo spinsi indietro con un’aggressività inaudita.
Lui inciampò. Cadde, batté la testa e rimase intontito per qualche istante.
- Che diavolo ti salta in testa?!- intervenne uno degli altri, saltandomi al collo - Sei impazzito?!-
Ora. Precisiamo che sin dai tempi della scuola che faticavo a frequentare la mia stazza aveva sempre scoraggiato le pretese di vittoria di chiunque durante una rissa contro il sottoscritto, figurarsi quanto poco sforzo rappresentò per me l’afferrare uno per uno i gentili ospiti di Ramon, colpirli più o meno brutalmente, minacciarli e sbatterli fuori dalla sua stanza.
- Che cazzo state facendo?!- ripetei, questa volta sbraitando come un demonio - Da quanto va avanti questa storia?!-
Afferrai Victorino per il bavero della camicia blu e lo costrinsi a rialzarsi. Ancora confuso, il mio migliore amico, il mio compagno fraterno, la mia spalla di sempre mi guardò con occhi vuoti. Probabilmente aveva appena dato su, giusto qualche istante prima del mio ingresso.
Dall’craving all’overdose il passo era breve. [5]
- Da quanto?!- ribadii, scuotendolo. Avevo paura che si trattasse ormai di un periodo piuttosto lungo, tutto il tempo necessario per guadagnarsi sgradevoli effetti collaterali come allucinazioni, convulsioni, tachicardia, ipertermia, infarto, paralisi muscolare, blocco respiratorio. Oh. E morte.
Risentito, Ramon mi mostrò i suoi occhi ostili. Per la prima volta in tutta la sua vita.
- Da un tempo che neanche t’immagini!-
La sua esclamazione mi suonò tanto come un rimprovero, un’accusa nemmeno troppo velata, come a dirmi che se non me n’ero mai accorto era colpa mia. Che lui era diventato un tossicomane ed io non ci avevo mai fatto caso, troppo occupato a badare a me e alle mie sciocche avventure saltate fuori da un telefilm demenziale per adolescenti.
Il che forse era vero, ma c’era da dire che avevo troppa stima di lui per farmi anche solo passare per l’anticamera del cervello l’ipotesi che il mio migliore amico abusasse di coca.
Poi Ramon si portò di nuovo una mano alla testa e un’altra al torace, piegandosi in due dal dolore di un crampo improvviso.
Rigettò quasi immediatamente, cadendo sulle ginocchia stremato dagli spasmi e dalle contrazioni. Probabilmente il colpo ricevuto doveva avergli mandato in tilt l’equilibrio fisico già precario. Inoltre, ho dimenticato di citare la nausea tra gli effetti collaterali.
Mentre il mio colossale, sacro idolo di pietra si sgretolava davanti ai miei stessi occhi, io rimasi in piedi a guardarlo sdegnato, distante, infuriato, schifato. Deluso.
Realizzai, immerso in quel silenzio surreale rotto solo dall’ansare nervoso di Ramon, che il vociare che avevo udito sino a qualche istante prima non proveniva dalla tv, ma dagli allegri compagni di sniffata.
Lo tirai su di peso, il battito del cuore accelerato, la fronte bollente e sudata.
- Per cosa?! Per farti schizzare la dopamina in giro per il cervello?! Per fotterti le sinapsi?!- non mi trattenni, non ebbi pietà, lo colpii con un manrovescio talmente forte da farlo capitombolare a terra - Cristo, Ramon, sei andato fuori di testa?!-
Sarò stato anche un rozzo cafone volgare e senza etichetta, che si portava a letto una donna dietro l’altra e a volte anche due insieme, senza volerne più sapere nulla il giorno dopo, che dava del tu ai personaggi più illustri, che al ristorante più chic si spaparanzava tra sedia e tavola, che non lasciava mai la mancia e litigava con tutti, ma certe cose le sapevo bene.
Certi rischi, certi pericoli li conoscevo.
Il nostro mondo è pieno di quella merda, prima o poi tutti la provano. Quello che fa la differenza è non caderci.
Ho sempre odiato obbedire alla più misera regola, io, il re del mondo, figurarsi se mi facevo schiavizzare da una schifosissima droga!
Io l’adrenalina ce l’ho nel sangue, ce l’ho sempre avuta. E non ho mai avuto bisogno di nient’altro.
Per questo motivo vedere Victorino ridotto in quello stato mi rivoltò lo stomaco.
- Per sopravvivere!- esclamò d’un tratto lui, in tutta risposta.
Mi spiazzò, persi le parole.
- Non venirmi a fare la paternale sui danni collaterali al cervello e tutto questo mucchio di stronzate a basso costo!- aggiunse poi, tirando su col naso e sostenendosi la testa con una mano.
Pallido più che mai, mi lanciò un’occhiata inferocita senza darmi il tempo di controbattere.
- Tu non sai nemmeno cosa significhi, una vita come la mia! Tu te ne vai in giro per il mondo a folleggiare con la tua diavolo di chitarra, a farti trecento donne alla volta, osannato e celebrato senza il minimo sforzo! Sei libero, Ryoma!- più lui andava avanti con la sua triste arringa, più io ridimensionavo me stesso - Io invece divento qualcun altro ogni volta che mi viene consegnato un copione, sono stato centinaia di persone, centinaia di storie! Fino a entrare con ogni fibra in ogni singola vita, fino a perdere il controllo! Poi vengo trascinato qui, dove ti sbattono in faccia il dolore degli altri senza chiederti il premesso! Tu hai filtro, ce l’hai? E’ per questo che non riesci a piangere quando vedi un neonato morto?-
Mi colpì talmente a fondo che non fui in grado di sbattere le palpebre per diversi istanti. Le sue parole senza senso, in realtà significavano molto più di un milione dei miei pugni.
- Oggi ho visto una donna tenere tra le braccia il cadavere del marito.- paradossalmente rise, scuotendo il capo bruno - Un’infinità di anni passati insieme, ogni mattina svegliarsi l’uno accanto all’altra a dirsi buongiorno, avranno avuto almeno dieci figli, era l’amore della sua vita. E un attimo per cancellare tutto. Cosa resta dell’amore, in tutto questo? Delle cose in cui credi?!-
Non ci credevo, non potevo. Non ritenevo ammissibile che Victorino soffrisse per queste ragioni.
- Sei impazzito?! E’ per questo che hai così bisogno di strafarti?-
Non era possibile che non mi fossi mai accorto di nulla.
- Sei convinto che tutti siano invincibili come te, vero? Degli eroi, dei campioni!- si rialzò, asciugandosi la bocca - Hah! Guarda un po’ giù dal tuo piedistallo di cartone, non sai quanto sarai sorpreso di trovarci tutti noi!-
Non capivo, non avrei mai capito.
Ero solo accecato dall’ira, la stessa ira che più di una volta avevo rivolto contro me stesso.
Mi maledissi, perché con tutta l’onnipotenza che millantavo di avere, non ero riuscito a salvare il mio migliore amico.
 


 
[4] La Black AMEX è l’American Express Nera in titanio, la cosiddetta “carta di credito per pochi”, ovvero coloro che spendono almeno 250.000 dollari l’anno e sono disposti a pagare un abbonamento annuo di 2.500 dollari (tutte info attendibilissime! xD).
 
[5] Craving - dall' inglese crave = "bramare, desiderare fortemente" - è l’irresistibile bisogno di assumere droga che, se non soddisfatto, può provocare sofferenza psicologica e fisica, ansia, insonnia, aggressività e altri sintomi depressivi (lo disse WikipediaH! xD).
   
 
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