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Autore: Nicole Bawer    23/12/2010    0 recensioni
E chi l'ha detto, vecchio, che non ci sia un'incredibile euforia, nell'ebbrezza dell'oscurità?
Io non credo nel male, o nel bene. Non credo nella trappola delle parole. Sai a cosa credo? Al brivido di quel giorno. Il giorno in cui ho scoperto di essere diverso. Lo vedi? Il mio spirito. Non è. Misero.
Silente diceva che Tom Riddle non avesse mai conosciuto gioia, o qualsivoglia emozione umana. Silente si sbagliava.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Purificationem - steam

PROLOGO

 

Buio perfetto come si conviene ad un prologo. Ci sarebbero voluti i riflettori, ma le cose hanno spesso il fottuto vizio di non funzionare come si deve.

Il riflettore non c'è, ci accontentiamo di una di quelle lampadine appese a qualche filo della corrente scoperto. Lampeggia un po' quella lampadina, a lei sarebbe venuta una bella crisi epilettica, in altre circostanze. Ma non adesso.

Lo spettacolo deve continuare. No, iniziare, e il suo prologo è l'ultima parte che lei reciterà.

Non ancheggia, quando cammina sotto la luce: sono le sue ossa a scivolare tra di loro, quasi usurate e appiattite, ma lei se la ride, in fondo.

La luce è sua.

“Ciao.

“Se questo film avesse un regista sarebbe fottutamente sfigato a scegliere me per cominciare la storia, sì” tira su col naso, lì nel freddo, fa un mezzo sorriso con gli occhi che per un attimo roteano in basso, le sopracciglia aggrottate quasi naturalmente.

“Però sono qui, pare”fissa davanti a sé. Eppure nessuna telecamera. Ma se ci fosse vi avrebbe centrato lo sguardo addosso.

“Voglio che sappiate che al momento sono morta e che darei centinaia di galeoni, perché voi tutti foste al posto mio” gli occhi si alzano, il bianco attorno all'iride è quasi minaccioso.

“Voglio che sappiate” dice con lentezza e sorride.

“Voglio che sappiate che io ero la sua donna. E puttana. E madre. La sua qualcosa. Voglio che sappiate, che insieme saremmo stati capaci per davvero di sterminare ognuno di voi. E se questo non vi sta troppo bene, filate pure fuori dalle palle” l'angolo destro del ghigno ha quasi uno scatto stizzito verso l'alto, per un solo secondo, come il sopracciglio.

“Voglio che sappiate”

La luce lampeggia appena, come un singhiozzo.

“Che questa storia servirà solo a farvi sapere che ho un posto per ciascuno di voi qui all'inferno. Questa qui non sarà una bella storia e probabilmente non vi piacerà. E adesso, gente, con permesso, mi levo dai piedi”

Buio.


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STEAM

Tre oggetti: il tacco basso di una scarpa di vernice nera, lucida. Un soldatino di piombo con la lancia spuntata. La pagina di un vocabolario di latino: la lettera “m”, la prima parola è motus.

Soppeso quegli oggetti, con un piccolo, brontolante gorgoglio mentale di soddisfazione.

Prendo il tacco tra le dita: insospettabilmente leggero, liscio.

Nel 1942 succedevano molte cose, nel mondo: ventisei stati sottoscrivevano la Carta Atlantica, Rooswelt scriveva lettere a Churchill per aprire un secondo fronte in Francia, gli Americani bombardavano Tokyo, i Tedeschi strepitavano parole incomprensibili, negli USA giravano “I Married a Witch” con un’attrice Babbana.

E a me non importava un bel niente di tutto questo.

Perché sapevo queste cose, allora? Per quella ronzante e incessante radiolina di legno decrepita, sulla scrivania della direttrice. E ultimamente capitava fin troppo spesso di andarci, dalla direttrice.

Diciamo da quando avevo quindici anni e lo stacco d’età con gli altri ragazzi dell’orfanotrofio era cresciuto abbastanza, da permettere di affibbiarmi qualche compito di maggiore responsabilità. E odiavo tutto questo.

Lo odiavo. E non potevo farci un accidenti.

Detestavo quest’asfissiante, monocromatico polverone, che non riusciva a toccare nulla. Che attraversava ogni cosa, come un fantasma, senza toccarla davvero, ma creando un groviglio elettrico sopra la mia testa, nella mia testa, attraverso i miei occhi.

Grovigli di luci. Giostre. Lampadine. Insegne. Faretti delle auto. Un movimento che col passare degli anni scivolava a sempre maggiore velocità, girando su se stesso, sfocato, come attraverso gli occhi di un ubriaco. Il mio solo desiderio era trovare un maledetto interruttore.

E spegnere.

 

SPENTO

BOLLETTE:

No, non sperateci davvero: non mi metterò neppure a spiegarle le conseguenze di tutto quel consumo. Né tantomeno ne pagherei le spese.

 

Quello che era allora nella mia testa comprende spiegazioni troppo vaghe, troppo tormentate e, a dirla tutta, non dicono un bel niente.

L’estate di quell’anno, come ogni anno, mi avevano rispedito all’orfanotrofio dove ero nato.

Per certi versi, qualcuno avrebbe potuto pensare che da quelle parti la guerra non fosse arrivata. L’ordine delle cose non era cambiato: quel posto era ancora solido e in piedi su quei suoi mattoncini rossicci, accanto c’era ancora una piccola gelateria che ci vendeva palline di gelato mezzo sciolte, ogni settimana, o le scatolette a cioccolato e vaniglia per il dessert della mensa.

Era mantenuto pulito, come sempre, quel posto, le stanze erano decorose e in ordine, i ragazzini erano chiassosi, si continuava a organizzare gite non troppo elaborate, ma piuttosto frequenti.

La differenza c’era stata tre anni prima, quando per ottenere un ulteriore finanziamento, la direttrice aveva a malincuore, reso misto l’orfanotrofio. Ora i ragazzini erano di più, la direttrice si era comprata qualche camicetta. Ogni tanto gliele si poteva vedere addosso, talvolta con qualche modifica che riduceva sempre più l’indumento: da camicia, a giacchetta, a gilet, fino a scomparire – il sospetto diffuso era che fosse riuscita a confezionarsi della biancheria con quei tessuti.

Quanto a me. Avrei frequentato a settembre il quinto anno della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.

Casa: Serpeverde.

Ottimi voti, favore degli insegnanti, popolarità e un significativo gruppo segreto di gente che, come me, cerca disperatamente l’interruttore.

Anzi, no. Non come me.

Con loro è più facile fare il politico, che l’intellettuale. I miei veri pensieri, li ho sempre accuratamente conservati. L’incomprensione m’infastidisce, non avrebbe senso incorrervi.

Essere prefetto a scuola era un conto, ma ritrovarmi a occuparmi di Babbani che evitavo accuratamente di toccare, era piuttosto ironico. Ecco: ironico.

E a proposito di ironia: dovrei farmeli passare gli istinti cleptomani, prima che diventino evidenti.

Sorrido, a quel pensiero. Chiudo il cassetto.

La mia camera è doppia, il Babbano nella mia stanza si chiama come me. Il che è a sua volta ironico. Ma in modo terribile.

Così non ci penso: lo chiamo per cognome.

Phinny. Mi alzo, raccogliendo un libro dal letto, scendo quella rampa e mezza di scale scricchiolanti, fino alla piccola sala adattata un po’ a salotto, un po’ a biblioteca, che sta al primo piano, tra ingresso e mensa.

Mi siedo sul divano, rovescio il polso per aprire il libro. Pozioni. Camuffato con la magia in “Robin Hood”, Incantesimi era “Oliver Twist”,  Storia della Magia era “Delitto e Castigo”.

Pozioni, tomo I del settimo anno di Tilde Melania Mallory. Studiavo i libri degli anni successivi, il mio livello lo richiedeva, secondo Lumacorno.

E il mio livello, in effetti, non doveva essere malaccio se riuscivo ad eludere la traccia e compiere qualche piccola magia. E perché negarmi quel bel paio di esperimenti interessanti, lì all’orfanotrofio. In un certo senso li si poteva considerare compiti per le vacanze, no?

Ero a metà del libro, avevo sperimentato diciannove pozioni, tutto, ovviamente, mentre Phinny andava a spiare le ragazzine più piccole di lui che si facevano la doccia.

Ragazzo disgustoso, Phinny. E chi non lo era lì dentro?

Lì nella saletta c’erano un paio di finestre piuttosto grandi, aperte puntualmente la mattina, a lasciar passare il particolare freddo tipico di quell’ora. Fuori c’erano alcuni orfani, quelli che ancora studiavano lì nell’orfanotrofio e si erano alzati presto per andare a lezione. Nell’ora di buca si ficcavano sempre fuori, col gelo, con la pioggia e quant’altro. Qualcuno provava a fumare di nascosto: quell’anno ne erano stati scoperti tre, eppure gli altri continuavano, imperterriti. Neppure ne erano capaci, a dire il vero. Ad ogni modo facevano abbastanza confusione, lì fuori, da disturbarmi.

Giro appena la testa e vedo uno di loro, con la coda dell’occhio.

Toby Catcher ha buttato il mozzicone che si è spento per la quarta volta di seguito con un “’Fanculo”.

Gli altri se la ridono, gli danno qualche pacca, dicono qualcosa che non capisco, ma il tono è udibile.

Un interruttore. Un maledetto interruttore.

Inspiro.

Le Pozioni di questa sezione del volume, si collocano su un ulteriore livello di difficoltà, in quanto nel novero degli ingredienti non troveremo esclusivamente occorrente di carattere naturale, o – come abbiamo visto nella sezione precedente – di distillati e amalgami. Troveremo, invece pozioni composte da altri sieri precedentemente studiati, la cui conoscenza…

“Ehi Catcher, Phinny ti ha fatto un ritratto per terra con un bastone, guarda che somiglianza”

“Oh, andate al diavolo!”

Risate.

La cui conoscenza, inspiro, nervoso, la cui conoscenza è essenziale per accedere a questo livello. Si presentano, pertanto, di seguito, esercizi teorici, che…

“Complimentati con me, ti ho disegnato anche quelle tue orecchie da topo!”

“Razza di stronzo!”

Ancora risate. Tosse.

Che non permettono la composizione di un filtro vero e proprio, ma che ci danno un’idea preliminare della preparazione che affronteremo.

Nel caso della Pozione…

Uno dei ragazzi fischia, dopo una breve pausa.

“Lester, guarda qui.”

Tira su col naso.

“E tu che lo incoraggi! Che bravo, perché non te ne vai a rompere le palle in una scuola d’arte, Phinny?”

“Dammi il mozzicone che hai spento, ché lo incastro qui all’altezza della bocca”

Un altro scoppio di risate, ancora più burrascoso.

Gli effetti restringenti delle tre pozioni al capitolo ottavo della sezione precedente, influiscono in un siero, solo se combinati con... Un dannato interruttore. Le dita sono serrate sulle pagine del volume, come uncini.

“Quanto sei idiota Tom!”

Dietro la finestra. Senza che io abbia formulato mezzo incantesimo, Tom Phinny solleva il bastone con cui stava disegnando sul terriccio. Un rumore.

Altri. Tonfi profondi. Il vetro dietro di me è macchiato. E’ una lunga striscia di sangue, con qualche grumo di qualcosa di indefinito.

Silenzio.

Le mie labbra sono dischiuse a lasciarmi respirare, o forse solo in un’espressione di pacato stupore. Un piccolo salto dentro di me, poi un sorriso.

Oh eccolo lì, finalmente: l’interruttore.

  
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