PROLOGO
Buio
perfetto come si conviene ad un prologo. Ci sarebbero voluti i riflettori, ma
le cose hanno spesso il fottuto vizio di non funzionare come si deve.
Il
riflettore non c'è, ci accontentiamo di una di quelle lampadine appese a
qualche filo della corrente scoperto. Lampeggia un po' quella lampadina, a lei
sarebbe venuta una bella crisi epilettica, in altre circostanze. Ma non adesso.
Lo
spettacolo deve continuare. No, iniziare, e il suo prologo è l'ultima parte che
lei reciterà.
Non
ancheggia, quando cammina sotto la luce: sono le sue ossa a scivolare tra di
loro, quasi usurate e appiattite, ma lei se la ride, in fondo.
La
luce è sua.
“Ciao.
“Se
questo film avesse un regista sarebbe fottutamente sfigato a scegliere me per
cominciare la storia, sì” tira su col naso, lì nel freddo, fa un mezzo sorriso
con gli occhi che per un attimo roteano in basso, le sopracciglia aggrottate
quasi naturalmente.
“Però
sono qui, pare”fissa davanti a sé. Eppure nessuna telecamera. Ma se ci fosse vi
avrebbe centrato lo sguardo addosso.
“Voglio
che sappiate che al momento sono morta e che darei centinaia di galeoni, perché
voi tutti foste al posto mio” gli occhi si alzano, il bianco attorno all'iride
è quasi minaccioso.
“Voglio
che sappiate” dice con lentezza e sorride.
“Voglio
che sappiate che io ero la sua donna. E puttana. E madre. La sua qualcosa.
Voglio che sappiate, che insieme saremmo stati capaci per davvero di
sterminare ognuno di voi. E se questo non vi sta troppo bene, filate pure fuori
dalle palle” l'angolo destro del ghigno ha quasi uno scatto stizzito verso
l'alto, per un solo secondo, come il sopracciglio.
“Voglio
che sappiate”
La
luce lampeggia appena, come un singhiozzo.
“Che
questa storia servirà solo a farvi sapere che ho un posto per ciascuno di voi
qui all'inferno. Questa qui non sarà una bella storia e probabilmente non vi
piacerà. E adesso, gente, con permesso, mi levo dai piedi”
Buio.
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STEAM
Tre
oggetti: il tacco basso di una scarpa di vernice nera, lucida. Un soldatino di
piombo con la lancia spuntata. La pagina di un vocabolario di latino: la
lettera “m”, la prima parola è motus.
Soppeso
quegli oggetti, con un piccolo, brontolante gorgoglio mentale di soddisfazione.
Prendo
il tacco tra le dita: insospettabilmente leggero, liscio.
Nel
1942 succedevano molte cose, nel mondo: ventisei stati sottoscrivevano la Carta
Atlantica, Rooswelt scriveva lettere a Churchill per aprire un secondo fronte
in Francia, gli Americani bombardavano Tokyo, i Tedeschi strepitavano parole
incomprensibili, negli USA giravano “I Married a Witch” con un’attrice Babbana.
E
a me non importava un bel niente di tutto questo.
Perché
sapevo queste cose, allora? Per quella ronzante e incessante radiolina di legno
decrepita, sulla scrivania della direttrice. E ultimamente capitava fin troppo
spesso di andarci, dalla direttrice.
Diciamo
da quando avevo quindici anni e lo stacco d’età con gli altri ragazzi
dell’orfanotrofio era cresciuto abbastanza, da permettere di affibbiarmi
qualche compito di maggiore responsabilità. E odiavo tutto questo.
Lo
odiavo. E non potevo farci un accidenti.
Detestavo
quest’asfissiante, monocromatico polverone, che non riusciva a toccare nulla.
Che attraversava ogni cosa, come un fantasma, senza toccarla davvero, ma
creando un groviglio elettrico sopra la mia testa, nella mia testa, attraverso i miei occhi.
Grovigli
di luci. Giostre. Lampadine. Insegne. Faretti delle auto. Un movimento che col
passare degli anni scivolava a sempre maggiore velocità, girando su se stesso,
sfocato, come attraverso gli occhi di un ubriaco. Il mio solo desiderio era
trovare un maledetto interruttore.
E
spegnere.
SPENTO
BOLLETTE:
No,
non sperateci davvero: non mi metterò neppure a spiegarle le conseguenze di
tutto quel consumo. Né tantomeno ne pagherei le spese.
Quello
che era allora nella mia testa comprende spiegazioni troppo vaghe, troppo
tormentate e, a dirla tutta, non dicono un bel niente.
L’estate
di quell’anno, come ogni anno, mi avevano rispedito all’orfanotrofio dove ero
nato.
Per
certi versi, qualcuno avrebbe potuto pensare che da quelle parti la guerra non
fosse arrivata. L’ordine delle cose non era cambiato: quel posto era ancora
solido e in piedi su quei suoi mattoncini rossicci, accanto c’era ancora una
piccola gelateria che ci vendeva palline di gelato mezzo sciolte, ogni
settimana, o le scatolette a cioccolato e vaniglia per il dessert della mensa.
Era
mantenuto pulito, come sempre, quel posto, le stanze erano decorose e in
ordine, i ragazzini erano chiassosi, si continuava a organizzare gite non
troppo elaborate, ma piuttosto frequenti.
La
differenza c’era stata tre anni prima, quando per ottenere un ulteriore
finanziamento, la direttrice aveva a malincuore, reso misto l’orfanotrofio. Ora
i ragazzini erano di più, la direttrice si era comprata qualche camicetta. Ogni
tanto gliele si poteva vedere addosso, talvolta con qualche modifica che
riduceva sempre più l’indumento: da camicia, a giacchetta, a gilet, fino a
scomparire – il sospetto diffuso era che fosse riuscita a confezionarsi della
biancheria con quei tessuti.
Quanto
a me. Avrei frequentato a settembre il quinto anno della scuola di Magia e
Stregoneria di Hogwarts.
Casa:
Serpeverde.
Ottimi
voti, favore degli insegnanti, popolarità e un significativo gruppo segreto di
gente che, come me, cerca disperatamente l’interruttore.
Anzi,
no. Non come me.
Con
loro è più facile fare il politico, che l’intellettuale. I miei veri pensieri,
li ho sempre accuratamente conservati. L’incomprensione m’infastidisce, non
avrebbe senso incorrervi.
Essere
prefetto a scuola era un conto, ma ritrovarmi a occuparmi di Babbani che
evitavo accuratamente di toccare, era piuttosto ironico. Ecco: ironico.
E
a proposito di ironia: dovrei farmeli passare gli istinti cleptomani, prima che
diventino evidenti.
Sorrido,
a quel pensiero. Chiudo il cassetto.
La
mia camera è doppia, il Babbano nella mia stanza si chiama come me. Il che è a
sua volta ironico. Ma in modo terribile.
Così
non ci penso: lo chiamo per cognome.
Phinny.
Mi alzo, raccogliendo un libro dal letto, scendo quella rampa e mezza di scale
scricchiolanti, fino alla piccola sala adattata un po’ a salotto, un po’ a
biblioteca, che sta al primo piano, tra ingresso e mensa.
Mi
siedo sul divano, rovescio il polso per aprire il libro. Pozioni. Camuffato con
la magia in “Robin Hood”, Incantesimi era “Oliver Twist”, Storia della Magia era “Delitto e Castigo”.
Pozioni,
tomo I del settimo anno di Tilde Melania Mallory. Studiavo i libri degli anni
successivi, il mio livello lo richiedeva, secondo Lumacorno.
E
il mio livello, in effetti, non doveva essere malaccio se riuscivo ad eludere
la traccia e compiere qualche piccola
magia. E perché negarmi quel bel paio di esperimenti interessanti, lì
all’orfanotrofio. In un certo senso li si poteva considerare compiti per le
vacanze, no?
Ero
a metà del libro, avevo sperimentato diciannove pozioni, tutto, ovviamente,
mentre Phinny andava a spiare le ragazzine più piccole di lui che si facevano
la doccia.
Ragazzo
disgustoso, Phinny. E chi non lo era lì dentro?
Lì
nella saletta c’erano un paio di finestre piuttosto grandi, aperte puntualmente
la mattina, a lasciar passare il particolare freddo tipico di quell’ora. Fuori
c’erano alcuni orfani, quelli che ancora studiavano lì nell’orfanotrofio e si
erano alzati presto per andare a lezione. Nell’ora di buca si ficcavano sempre
fuori, col gelo, con la pioggia e quant’altro. Qualcuno provava a fumare di
nascosto: quell’anno ne erano stati scoperti tre, eppure gli altri
continuavano, imperterriti. Neppure ne erano capaci, a dire il vero. Ad ogni
modo facevano abbastanza confusione, lì fuori, da disturbarmi.
Giro
appena la testa e vedo uno di loro, con la coda dell’occhio.
Toby
Catcher ha buttato il mozzicone che si è spento per la quarta volta di seguito
con un “’Fanculo”.
Gli
altri se la ridono, gli danno qualche pacca, dicono qualcosa che non capisco,
ma il tono è udibile.
Un
interruttore. Un maledetto interruttore.
Inspiro.
Le Pozioni di
questa sezione del volume, si collocano su un ulteriore livello di difficoltà,
in quanto nel novero degli ingredienti non troveremo esclusivamente occorrente
di carattere naturale, o – come abbiamo visto nella sezione precedente – di
distillati e amalgami. Troveremo, invece pozioni composte da altri sieri
precedentemente studiati, la cui conoscenza…
“Ehi
Catcher, Phinny ti ha fatto un ritratto per terra con un bastone, guarda che
somiglianza”
“Oh,
andate al diavolo!”
Risate.
La cui conoscenza, inspiro, nervoso,
la cui conoscenza è essenziale per
accedere a questo livello. Si presentano, pertanto, di seguito, esercizi
teorici, che…
“Complimentati
con me, ti ho disegnato anche quelle tue orecchie da topo!”
“Razza
di stronzo!”
Ancora
risate. Tosse.
Che non permettono
la composizione di un filtro vero e proprio, ma che ci danno un’idea
preliminare della preparazione che affronteremo.
Nel caso della
Pozione…
Uno
dei ragazzi fischia, dopo una breve pausa.
“Lester,
guarda qui.”
Tira
su col naso.
“E
tu che lo incoraggi! Che bravo, perché non te ne vai a rompere le palle in una
scuola d’arte, Phinny?”
“Dammi
il mozzicone che hai spento, ché lo incastro qui all’altezza della bocca”
Un
altro scoppio di risate, ancora più burrascoso.
Gli effetti
restringenti delle tre pozioni al capitolo ottavo della sezione precedente,
influiscono in un siero, solo se combinati con... Un dannato
interruttore. Le dita sono serrate sulle pagine del volume, come uncini.
“Quanto
sei idiota Tom!”
Dietro
la finestra. Senza che io abbia formulato mezzo incantesimo, Tom Phinny solleva
il bastone con cui stava disegnando sul terriccio. Un rumore.
Altri.
Tonfi profondi. Il vetro dietro di me è macchiato. E’ una lunga striscia di
sangue, con qualche grumo di qualcosa di indefinito.
Silenzio.
Le
mie labbra sono dischiuse a lasciarmi respirare, o forse solo in un’espressione
di pacato stupore. Un piccolo salto dentro di me, poi un sorriso.
Oh
eccolo lì, finalmente: l’interruttore.