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Autore: Exelle    26/12/2010    3 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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Capitolo 8
*Fletchermania!


Le gocce dai colori turchesi, rosa e di uno strano violetto primula, macchiavano il pavimento, gocciolando dal leggero vestito di Luna Lovegood, decisamente inadatto per un giorno di novembre. E ancora più inadatto per vagare silenziosa tra i gelidi corridoi di Hogwarts poco prima del coprifuoco.
Indifferente al richiamo dei due annoiati e rassegnati Prefetti Corvonero, - “Lovegood, per l’ennesima volta, non usc…”-, Luna era corsa via, lontana dalla sua Sala Comune, sotto lo sguardo severo del Pennuto Inquisitore.
L’obbiettivo?
L’ufficio di Severus Piton.
O meglio, il suo proprietario; per quanto Luna ammirasse la nuova sistemazione del suo nuovo 'amico',
- termine quanto mai improprio per descrivere il loro rapporto-, non poteva non dire di essere decisa a cercarlo solo per la sua elegante e ariosa sistemazione. No.
Non era turbata per l’aggressione di Malfoy. Anzi, l’aveva seppellita nei recessi della sua mente come unico collegamento in relazione alla sparizione del disegno di Alan. Avrebbe dovuto mettersi al lavoro e farne un altro, ma ogni volta che prendeva la penna in mano la mano iniziava a tremarle.
Non sarebbe mai riuscita a farne uno uguale, qualunque suo tentativo sarebbe stato solo una pallida copia.
Forse aveva solo di chiedere consiglio al suo scontroso, ombroso e poco socievole insegnante.
Così eccola qui, Luna Lovegood, saltellate e più Loony che mai, alla ricerca di una parola schietta per ritrovare la sua ispirazione perduta…

Da brava autrice versatile ed egocentrica quale sono, concediamoci qualche attimo nel presente della storia, seguendo la giovane eroina, crogiolandoci nelle descrizioni e nell‘immediatezza del dialogo…
(Scusate le mie ingerenze nel testo, ma ultimamente ho un sacco di problemi e avere delle digressionisenza senso e scopo nel bel mezzo della storia è un po’ una terapia).


Luna corre per i corridoi. La strada la conosce; già la prima volta che è venuta in quest’ala del castello ha esplorato tutti i percorsi possibili per raggiungere la torre dell’insegnante di Pozioni. Conosce gli arazzi, le finestre e le statue. Riconosce i personaggi nei quadri e loro riconoscono lei. Alcuni la salutano con inchini, altri con risate e applausi. Alcune dame imbellettate, nascondono le loro smorfie di orrore dietro ai ventagli, alla vista dei capelli di Luna. Quei capelli gocciolanti, simili a piante marine.
Luna sembra un anemone girovago, ma la cosa le è indifferente. Non s’interessa a sciocchezze come il decoro, lei.
Sale una scala, rapida e scattante. Fa gli scalini due a due. Ogni quattro scalini una giravolta, ogni giravolta un applauso.
Gli occhi bulbosi non esplorano i soffitti invasi dall’oscurità, né le armature cigolanti sui piedistalli di marmo. Luna corre per Hogwarts, ma è da un’altra parte. I suoi piedi percorrono una strada ignota alla sua mente, occupata a riflettere su cose che lei ritiene più importanti e fondamentali.
Pensi a Malfoy, Luna? O al sorriso triste di Alan? O al modo in cui le figure sulle vetrate piangono quanto piove?
Forse ci sbagliamo, perché ora Luna non pensa.  Fa quello che le sensazioni le dettano. Ora può, non c’è nessuno, a parte le figure bidimensionali sulle pareti, a giudicarla…
Ha delle scarpe Babbane. Sono un regalo, una rarità trovata da Øefus Fefferl, un collaboratore neozelandese di origine ebraico-norvegese di suo padre. Per lo più lavora sui servizi in arrivo dal Godswana, ma a noi questo non interessa.
Sono stivaletti grigio topo con le frange. Un accessorio alquanto improbabile con la veste nera simil-Piton che Luna si è pazientemente cucita…
Ecco, gli stivaletti finiscono in una losanga di luce, sufficiente ad illuminare anche il viso della loro proprietaria. E’ il solito viso di Luna Lovegood, risplendente di rivoli turchesi e lillà. Gli occhi bulbosi sono arrossati, le iridi argento alienate in reticoli carminio.
I capelli hanno smarrito il loro colore biondo pallido. Ora sono degni di un’acconciatura punk, se solo Luna avesse una vaga idea di acconciatura punk, o del punk in generale.
Sembra una banshee, per tenere il paragone sul mondo magico. Una banshee piccola, matta e per nulla paurosa. Altro che il Molliccio di Seamus Finnigan…
Smettiamo di seguire Luna che corre. Vederla da fuori è uno spettacolo assai divertente, ma inferiore, rispetto a quello che le gira adesso in testa.
Immaginiamo di solcare quelle ciocche turchesi e rosate e di addentrarci nel mare tempestoso dei suoi pensieri svitati…
Stump!
Ahia. Chi l’avrebbe previsto che scivolando nella mente di Luna Lovegood, saremmo letteralmente scivolati? Come Alice nella tana del Bianconiglio.
Come bambini dal ciglio di un dirupo.
Come curiosi poco rispettosi.
Siamo al buio. Non sappiamo quanto sia grande questa stanza, né se è davvero una stanza.
Curioso. Ci aspettavamo prati verdi e sole perenne, ma qui c’è solo una strana e pressante notte.
Avanziamo nel silenzio e scintille  blu cominciano a filtrare nel nero. Scintille insignificanti come porporina, nel nero puro che ci avvolge. Le scintille ci girano attorno, incuriosite dalla nostra presenza estranea. Solo quando si avvicinano le vediamo per ciò che sono.
Scarabei dalla corazza di opali e d’oro; impossibile trovarli su un qualunque libro, magico o Babbano che sia. Abitano solo nella testa di Luna Lovegood, con le loro alette nascoste e le dodici zampette affusolate.
Gli scarabei formano una scia luminosa. Seguiamoli.
Chiudete gli occhi e ascoltate. Da qualche parte c’è una donna che canta.
C’è anche una melodia, ripetitiva e tremendamente nostalgica. Non sembra prodotta da strumenti normali. Percussioni di un cuore che batte e corde di lacrime di gioia, mosse dal vento. Strumenti curiosi, anche per l’immaginazione di Luna Lovegood. Anche se non la vediamo, quella donna è intorno a noi e ci osserva come osserva sua figlia. Quella donna è la madre di Luna.
C’è una casa vicino al ruscello. Alcuni Plimpi pattinano tra le increspature, ma non possiamo fermarci, dobbiamo andare verso quella casa maestosa e sbilenca che ci nasconde il sole.
Non sappiamo di chi sia, né da dove sia apparsa, ma è lì.
Non sapremmo nemmeno dire da quale sogno sia uscita. Forse un incubo vittoriano, un sogno disperato e confuso. Un palazzo dei desideri caduto nell’oblio.
La cupola di vetro che protegge le serre sul retro è sfondata, e più ci avviciniamo al portico circolare e più i cocci che costeggiano il vialetto diventano grandi e aguzzi. Mancano molte tegole e alcune travi spuntano fuori, come frecce scagliate da giganti arrabbiati. Ci sono due alberi torti vicino all’alto cancello arrugginito e alle sue volute. Sui rami degli alberi,  sono legati nastri e campanelli e riposano alcuni uccelli del paradiso, avvolti dai loro colorati piumaggi.
Le finestre sono chiuse da assi inchiodate alla rifusa. Sul lato sinistro, un rampicante dai fiori arancioni e bianco-verdi cerca di prendere il possesso della facciata.
I camini respirano nuvole dense di porpora. Qualcuno ci abita quaggiù…
Saliamo gli scalini di pietra, protetti da due leoni dai musi sfregiati. Uno dei loro occhi di pietra ci guarda in tralice; sembra quasi che sappia che non siamo altro che spioni…
Bussiamo e il batacchio ci rimane in mano. Dopo tre secondi la porta si spalanca e lo sguardo crudele di Severus Piton ci osserva dallo spiraglio…

“Cosa diavolo vuoi Lovegood?”
Luna aprì la bocca e fece per rispondere, ma Piton la interruppe.
“Non dirmelo, limitati a sparire. Non ho proprio voglia di giocare a fare il pazzo con te.”
Severus Piton chiuse la porta, ma Luna mise il piede tra quella e lo stipite, bloccandola.
“Vattene via” borbottò acidamente l’insegnante, tentando di chiudere l’ingresso.
La Corvonero rimase immobile e silenziosa, anche quando la luna oltre la finestra si tolse la maschera di nubi e riempì il corridoio di luci argentina.
Se Severus fosse turbato nel vedere i segni della colluttazione con Malfoy ancora ben impressi sul viso di Luna, non lo dette a vedere.
Piton spinse ancora la porta, ma il piede della ragazzina era ancora lì. I casi erano due; o Luna era incredibilmente forte e lui era uno smilzo rachitico senza nerbo, o era all’opera una magia. Severus ritenne valida la seconda opzione. Non faceva bene all’orgoglio essere schiacciati da un‘adolescente…
Adolescente…
Lily.
Lily, maledizione.
Incredibile. Luna Lovegood aveva quasi la stessa età dell’apparizione di quel pomeriggio, e non poteva essere più diversa. Perché non gli era venuta in mente prima? Era una coincidenza così bizzarra…
-Ti poteva venire in mente se, invece di scappare, ti fossi fermato a vedere come stava…
Suggerì il Silente interiore dentro di lui, la voce della nuova coscienza datagli ‘in dotazione’ dopo l’abbandono del credo dell’Oscuro Signore.
Luna Lovegood…
Così indifesa e così infantile, lontana mille miglia da quella Lily sprezzante e sicura di sé. Non bella, non popolare. Insignificante nel grande schema degli eventi.
Luna Lovegood era irrilevante. Un sassolino strano, di un colore e una forma insolita raccolto in ricordo di un giorno al fiume. Quel sassolino che ci ritroviamo in tasca tornando a casa e che gettiamo via incuranti, chiedendoci ‘Perché diavolo l’ho raccolto? E’ inutile’.
Così come gli occhi verdi di Lily traboccavano di sentimenti e sensazioni, quelli arrossati di Luna, al contrario, rimanevano insondabili e vacui. Come mappe vuote, senza latitudini e meridiani, senza longitudini e paralleli. Specchiavano la realtà passivi, senza osare prendere parte nel gioco umano degli schieramenti.
L’inquieto insegnante avrebbe voluto scagliarle una Fattura e mandarla via, ma quella poca umanità che gli era rimasta sapeva che quell’allocca, era tutto quello che gli era rimasto, al momento. L’unica a cui rivolgere la parola che non fosse un alunno testa di legno o un’ansiosa Mc Granitt o un confuso Silente.
Severus Piton immaginò di spalancare la porta, afferrare il braccio di Luna e farla accomodare in uno dei divani sotto alle finestre. Tazze fumanti in mano, le avrebbe raccontato delle apparizioni che lo tormentavano e dei dubbi e del dolore che ogni volta - Lily- lo soffocava.
-Allora fallo!
Luna Lovegood era al momento la cosa più vicina ad un’anima affine che avesse, e proprio per quello, avrebbe dovuto sbattergli la porta in faccia.  
All’istante.
Scacciò l’immagine rassicurante di loro due intenti a scambiarsi confidenze e tornò, a fronteggiare quegli occhi insondabili, con l’implacabile rabbia che lo contraddistingueva. Non si sarebbe fatto sconvolgere da una bambinetta vittima di bullismo. Severus non aveva dubbi: Luna Lovegood era venuta a fare la spia su Malfoy e sull’incidente nel chiostro. Un comportamento davvero deplorevole.
Fare la spia è un comportamento molto poco nobile.
-Detto da te è davvero spassoso, Severus…
Incidente… Severus non si era nemmeno interessato più a quello dopo aver ascoltato le sprezzanti parole di Lily nella Torre Orologiaia.
Per dirla alla Ron Weasley, se ne era strafregato….
Aveva cose più importanti a cui pensare; i suoi valori e le sue colpe, per esempio. E quindi, correre all’istante nelle sue stanze ad auto rassicurarsi sulla propria integrità e sui suoi doveri, gli era sembrata la cosa più giusta da fare. Altro che i litigi adolescenziali della Lovegood!
Il bullismo infantile era una sciocchezza; quella ragazzina non si sarebbe certo allarmata per una cosa così…
-Tu invece, Severus? attaccò una vocina familiare -Tu sei diventato adulto egregiamente, vero? E ora se Sirius Black ti chiama Mocciosus ti fai solo una bella risata…
Severus Piton sbarrò gli occhi, rispondendo inconsciamente alla voce insolente:  
Ma io adulto lo sono diventato lo stesso, anche con tutto quello che ho passato’ riflettè.
-No, Severus. Tu sei diventato un Mangiamorte.
Lo sguardo di Severus ricadde su Luna, con una nota apprensiva nelle iridi nere.
Sì, sembrava proprio il tipo di soggetto che il Signore Oscuro poteva circuire…
“Non ho tempo per te Lovegood, ho molto da fare” affermò con un sorriso tirato.
Luna non cambiò espressione “Io volevo parlare con…”
“Io invece no. Quindi non farmelo ripetere oltre, è molto tardi.”
Luna ritrasse il piede e roteò gli occhi lattiginosi verso l’insegnante. Strinse i pugni e prese un bel respiro. Aveva ancora un po’ di domande, lei….
“Io devo parlare con lei!” esclamò in un tono secco e pratico, molto poco Lovegood. “E volevo  un disegno, che Malfoy mi ha ha raccolto e volevo chiederle…”
‘Tipico vittimismo infantile’ pensò Severus.
“Lovegood, non diventerai mai grande se non impari a tener testa ai tuoi compagni! Era solo il signor Malfoy, santo cielo!”
“Il signor Malfoy e i suoi oranghi, ma non è questo il punto. So tenergli testa da sola, grazie. A me interessa riavere il disegno” gli occhi di Luna roteavano minacciosi e le dita tremavano leggermente.
“Allora vattelo a riprendere, sciocca ragazzina. Non venire a piangere da me perché ti rubano le cose” borbottò acido l’insegnante, cercando di chiuderle la porta in faccia.
Inutile; Luna lo bloccò con un braccio.
Luna schioccò le dita e si morse il labbro. I tratti del suo viso si distorsero in una smorfia furente e schietta, diametralmente opposta a quella di sognatrice regalatale dalla natura.
Una smorfia troppo normale, troppo umana, per lei.
“Io non piango, ma Malfoy è uno studente della sua casa e mi chiedevo se lei avrebbe potuto aiutarmi. Tengo in particolare a quel disegno.”
Le sopracciglia di Piton si alzarono, per poi riabbassarsi minacciose.
“Non ne so niente, Lovegood. Torna alla tua Sala Comune. I tuoi problemi non sono affari miei.”
-Invece sì…
Luna sembrò zittirsi poi, nell’abituale tono soave mormorò:
“Lei era all‘Orologio…”
Piton distolse lo sguardo dagli occhi venati di rosso di Lunatica. Dannazione, ora avrebbe fatto la figura dell’infido. Cosa che di per sé non gli dispiaceva, almeno non con Potter e i suoi amichetti, ma che con quella stramba diventava qualcosa di più che un leggero senso di colpa.
“Lei è un egoista…” sussurrò Luna in un tono dolce, come una cucchiata di miele.
Severus Piton, dimenticandosi buone maniere, self-control e tutte quelle cavolate che si vantava di aver imparato durante quei trent’anni di vita -sprecati-, afferrò, deciso ma non troppo duramente, le ciocche tricolore di Luna Lovegood, allontanandola nel corridoio.
La porta della Torre si chiuse con un rumore secco e Luna, in un gesto non da lei, sbatté un pallido pugno sul legno lucido. Odiava gli adulti che fanno i bambini.
Severus Piton rimase immobile dietro la porta di legno spesso, trattenendo il respiro.
Quando sentì i passetti allontanarsi, girò la chiave nella serratura.
Aveva la testa vuota. O meglio, completamente svuotata da tutti quei pensieri che solitamente l’affollavano, minacciosi e indagatori.
Pensieri scrupolosi, ora accantonati in favore della bionda platinata e delle sue lamentele.
Si avvicinò al Pensatoio, barcollando. Era stufo di quella vita, dieci anni diviso in aule, lezioni, semestri. Dieci mesi all’anno gomito a gomito con persone vuote, uscite da schemi esistenziali insignificanti e che si rifiutava di comprendere. Non voleva finire la sua vita in quella routine, sconvolta ogni tanto dai piani ignoti di Silente o dalle deboli pazzie  di una ragazzina.
Severus rivoleva se stesso. Rivoleva la sua Lily.


Il passato, un ricordo.

Lily Evans dondolava le scarpe da bambola che portava, seduta sule alte panchine di pietra del chiostro.
La luce rossastra ricolorava i capelli della ragazza, rendendoli più scarlatti che mai. Il pomeriggio stava morendo e i castelli di nubi si tingevano di viola cupo.
Ottobre. Autunno. Decisamente la stagione preferita di Lily.
Alcuni studenti a gruppetti o in solitaria si affrettavano a rientrare nel castello, diretti verso la Sala Grande e le sue promesse di cibo sfizioso.
Era già ora di cena, riflettè Lily con rammarico.
Lanciò una fugace occhiata all’orologio che dominava il cortile squadrato. Le lancette, alternate a falci di luce rossa, segnavano le otto e mezza.
Lily s’incupì. Stava aspettando da tre ore, sola, nel chiostro sempre più buio.
Maledetto…
Lily Evans non sapeva se ridere o piangere per la sua stupidità. Come aveva potuto essere così sciocca?
Aveva davvero pensato che lui avrebbe avuto il coraggio, o quantomeno la decenza di presentarsi?
Dopotutto lui le aveva posto l’invito, ma a quanto pare il signorino aveva cose più importanti da fare, senza dover prendersi la briga di disdire gli impegni precedenti.
Lily stava per alzarsi e marciare risoluta in Sala Comune, quando lacrime bollenti le scesero sulle guance, finendo sul colletto della camicia che indossava.
Una camicia con i volant…
Se Severus gliel’avesse vista addosso non le avrebbe più rivolto la parola.
Chissà dov’era andato a nascondersi, pensò tristemente Lily, asciugandosi le lacrime con il polsino della camicia.
In Biblioteca? O nella sua Sala Comune?
Era dal giorno prima che non si vedevano; più precisamente dal mattino in corridoio, quando Lily gli aveva raccontato, con palese entusiasmo, con chi sarebbe vista il giorno successivo.
E anche se era stato solo per un misero istante, Lily aveva colto lo sguardo di rabbia che era balenato negli occhi offesi di Severus.
Poi, senza una parola, il ragazzo aveva afferrato le sue cose e se ne era andato. Aveva iniziato ad evitarla. Lily l’aveva appena intravisto quella mattina a colazione, poco prima che Mary McDonald la trascinasse in bagno con le altre, nel tentativo di estirparle quella novità a cui Lily teneva come un gioiello.
Aveva fatto una cosa sbagliata a dirlo a Sev. Lui lo detestava. Ma Lily non aveva resistito alla tentazione di ferirlo un po’. Erano quattro anni che girava per quella scuola con Severus come unico vero amico. Un amico che pian piano, aveva cominciato ad apparirle come una zavorra.
Lily sapeva di essere ingiusta, ma più il tempo passava e più si rendeva conto di quanto fosse sola e al margine della vita che gli altri ragazzi si costruivano a Hogwarts.
Hogwarts era molto diversa dalle estati a Daffodils Court Road.
Quando aveva provato a contare gli amici che si era fatta a scuola, era rimasta a contemplare i pugni chiusi per mezz’ora, sforzandosi di ricordare qualcuno con cui avesse scambiato più di un ciao o una conversazione sui compiti.
Lily Evans sapeva di avere del potenziale. Se ne era accorta quell’estate, quando distrattamente aveva lanciato un’occhiata nello specchio in bagno e quando, per scherzo e all’insaputa di Petunia, aveva provato uno dei suoi abiti.
Si era accorta di essere graziosa, di essere bella.
C’era solo un problema. Severus Piton.
Non che a Lily dispiacesse. Era il suo migliore amico, ma quella possessività, quelle domande mascherate da attenzioni premurose che le rivolgeva quando la vedeva un po’ troppo distratta o interessata a qualcosa che non fosse la loro amicizia, la soffocavano.
E più il tempo passava e più lei si sentiva schiacciata, vincolata in un legame che le pesava sempre di più.
Non era colpa sua se Sev era … Mocciosus.
Era stufa di fare la ragazza caritatevole dall’animo buono. Stanca di starsene in disparte, chiusa dietro libri e mutismo, condizionata da un’unica persona. Avrebbe dedicato i successivi tre anni ad Hogwarts mettendo al primo posto se stessa e la sua felicità.
Non voleva recidere il legame con Severus, solo allentarlo un po’.
Ma ora, nel cortile quasi buio, sentiva tutta la meschinità di quella decisione. Il suo desiderio di una normale vita sociale da studentessa le si era rivoltato contro, e ora ne pagava le conseguenze. Aveva passato due mesi strani, sopportando pazientemente l’interesse e i discorsi delle altre ragazze Grifondoro, stupite dalla sua improvvisa voglia di socializzare. E, a dispetto di tutto le aveva conquistate.
Un sorriso, una parola gentile… Lily Evans si era meravigliata della semplicità con cui si stringevano i rapporti.
Ma ora non c’era nessuna delle sue amiche a tenerle compagnia. Nessuno che venisse a cercarla o si preoccupasse per il suo appuntamento mancato.
Lily rimpianse di essere stata così sciocca e così superficiale. Doveva trovare Sev e scusarsi, anche se si sentiva imperdonabile. Afferrò la borsa e saltò giù dalla panchina, avviandosi verso il portone.
“Evans!”
Lily si girò imbestialita. Erano quattro ore che aspettava, con che coraggio...
Poi lo vide in viso e l’espressione imbestialita che le contraeva i lineamenti si allentò.
Non era lui, per sua fortuna.
“Potter” sibilò rigidamente Lily, alzando il viso con superbia. Sperava con tutto il cuore che il ragazzo non notasse i suoi occhi lucidi.
Perché Sirius aveva mandato il suo amico?
“Sirius non è potuto venire, mi dispiace.”
“L’avevo intuito” rispose Lily con falsata allegria. “Grazie di avermi avvisato in tempo, avevo temuto di perdere l’intero pomeriggio…”
Potter alzò le mani in segno di resa.
“Evans, non essere arrabbiata con me, te ne prego. Ho saputo solo poco fa che Sirius non era venuto…”
“Ah, davvero? E da chi l’hai saputo?”
“Bhè… Da lui…”
Lily alzò uno sguardo esasperato al cielo, cercando di trattenere i lucciconi che stavano per debordare.
‘Non davanti a Potter, non davanti al suo amico…’ pensò Lily.
“… Evans non ti chiederò di scusarlo. Ti capisco, fai bene ad essere arrabbiata.”
“No” sbottò Lily abbassando il capo.
“No… cosa?” domandò incuriosito il ragazzo.
“Tu non capisci” rispose lei scuotendo lentamente la testa, la bocca impastata. Come era difficile parlare con la bocca occlusa dal pianto!
“Ti hanno mai dato buca Perfetto Potter? Non credo proprio. Ti sei mai sentito preso in giro? Certo che no.”
James Potter fissò accigliato quella ragazza impertinente, poi d’un tratto sorrise. Un sorriso più malinconico che beffardo.
“Hai ragione Evans. Ma so arrabbiarmi e addirittura intristirmi quando vedo che il Boccino preferisce finire tra le grinfie del bolide che…”
Lo sguardo del ragazzo cadde verso un punto lontano del chiostro, incuriosito da un movimento. Poi tornò a fissare Lily che lo studiava con evidente curiosità, dimentica delle lacrime.
Inaspettatamente, Lily scoppiò a ridere.
“Che metafora è?”
Potter sorrise con sincero piacere: “Sono un giocatore di Quidditch, Evans, non un poeta.”
Lily sorrise a sua volta e quando lui le tese la mano, non poté fare a meno di afferrarla.
“James.”
“Lily.”
Rimasero a fissarsi ancora per un po’ di minuti. Lily sentiva la sua mano piccola piccola, intrappolata in quella grande ed elegante di lui. Le ombre si addensavano intorno a loro e dalla Sala Grande cominciarono le risate e il grattare delle sedie. Ora di cena.
“Vuoi uscire con me, Lily Evans?”
Dall’angolo buio in cui era nascosto, il giovane Severus Piton sentì il suo viso in fiamme. Pregando con tutto il cuore che la sua Lily, mandasse al diavolo quel subdolo Potter, strinse le mani. Avrebbe voluto correre in mezzo al cortile e atterrare su Potter, rempirlo di pugni e offrire la sua testa a Lumacorno per qualche distillato di perenne dolore. Ma il giovane Severus Piton era un infido e un codardo, incapace di lottare per la ragazza che occupava il primo, il secondo e il terzo posto nella graduatoria dei suoi affetti.
Era solo capace di pensare alla sua Lily come ad un accessorio, come ad un’inestimabile proprietà. Non le perdonava di averlo abbandonato o quantomeno evitato, per starsene con quattro oche Grifondoro. Odiava vedere la sua amica cercare di integrarsi ed essere socievole con qualcuno che non fosse lui.
E l’aveva odiata in quelle ore, in cui da brava idiota sentimentale, se ne era rimasta ad aspettare il principino Sirius Black.
Sciocca, sciocca Lily!
Era stata mal consigliata da quelle che lei ora chiamava amiche. Da quella McDonald che voleva vederla fallire là dove lei non era nemmeno riuscita ad arrivare…
Non stupiva che l’invito di Black fosse solo una presa in giro nei confronti di quella rossa secchiona.
Severus conosceva la cricca di Potter. Avrebbe lasciato che Lily si scottasse un’altra volta, solo una.
E poi, forse, si sarebbe deciso a intervenire.


Il presente, Londra. Black Friar’s Bridge.

La pioggia fine tagliava il cielo a sbarre, imprigionando i passanti in immaginarie prigioni.
Mundungus Fletcher si strinse nel pastrano, cercando di isolare il suo corpo fradicio e tarchiato dalle gelide folate di vento che gli sollevavano i lembi del cappotto.
Con uno sbuffo di somma fatica, pescò il pacchetto di sigarette Babbane in una delle tasche e tremando come un’anima in preda alle convulsioni tento dì accenderla con l‘affarino di plastica che il negoziante gli aveva rifilato assieme al pacchetto.
‘Fottuto Brillafiamma. Fottuto!’ pensò il nostro, mentre in preda alla rabbia cominciava a scuotere l’accessorino di plastica e metallo che il tabaccaio all’angolo di Chester Street gli aveva venduto, assieme a quella ridicola scatolina con il cammello.
Davvero strani i sigari Babbani. L’aveva sempre detto; non erano veri uomini a fumare quelle misere striscette simili a paglia arrotolata in carta velina.
Chiodi di bara, ecco cos’erano. Buoni solo a fotterti i polmoni.
Un sigaro, un bel sigaro Wizarpower importato dall’Ecuador, ecco quello che Dung desiderava.
Eppure, quella mattina, aveva dovuto adeguarsi. Doveva rendersi simile a loro se voleva portare a termine la  missione -il compito ingrato- che Silente gli aveva affidato.
Ma passare da Babbano, doveva essere più difficile di quanto avesse supposto.
Un paio di passanti armati di ombrelli lo fissarono insospettiti. Forse si chiedevano come mai quell’uomo piccolo, sudicio e dall’aria puzzolente, non si rassegnasse all’idea di gettare quell’accendino scarico che agitava nell’aria sotto la pioggia, con grottesca disperazione.
Mungundus si arrese. Il suo ‘Brillafiamma’, finì nelle acque torbide del Tamigi. Afferrò la bacchetta, e ben imbacuccato e girato verso la balaustra, si accese finalmente una sigaretta.
Passarono altri dieci piovosi minuti e tre autobus rossi.
Una donna biondiccia, un po’ in carne e con un abbacinante rossetto fucsia, guardò verso di lui, che ricambiò con la sua miglior espressione seducente.
La donna, schifata, passò oltre, nascondendosi dietro al suo ombrello giallo, trapuntato di api.
‘Sciocca Babbana’ pensò Mungundus, masticando il filtro fradicio della sigaretta.
Passarono altri quindici minuti e due sigarette. Il traffico sul ponte cominciò a scemare, la pioggia a inspessirsi. Mungundus divenne più fradicio di uno straccio per le pulizie; sconsolato, si appoggiò al lampione di ghisa.
“Ehi.”
Qualcuno gli strinse una spalla. Dung sentì che il suo pastrano si strizzava come un asciugamano. Un asciugamano molto umido e molto bagnato.
“Boris?” domandò Dung, voltandosi di scatto, la sigaretta tra le mani.
“No amico, niente Boris Karloff. Hai una paglia?” chiese il ragazzo.
‘Ragazzo’ era una parola un po’ riduttiva per definire l’individuo che aveva davanti.
Alto almeno due metri, la testa rasata e magro abbastanza da lasciar intravedere il profilo dei muscoli sotto, -incredibile con quel freddo-, la t-shirt strappata.
Dung notò che anche i pantaloni che portava sembravano lacerati. Si chiese in che animale fosse incappato quel disgraziato per ridursi così. Doveva aver tentato di rimettere assieme gli squarci con delle spille da pannolino.
Dung corrugò la fronte, incapace di comprendere la strana richiesta.
“Amico, non ho paglia con me. N‘spiace” borbottò in tono scontroso, tanto per tagliare corto.
“A-ha. Allora perché ne hai una con te, nanerottolo?” ringhiò il pelato.
Dung chinò la testa e studiò la sua persona. Non capiva cosa diavolo volesse lo sconosciuto.
“Senti amico, non so…”
Il pelato lo afferrò per il colletto e lo sollevò senza sforzo per almeno venti centimetri.
Dung sentì che un paio di cose gli scivolavano fuori dalle tasche, mentre il gigante rachitico cominciava a scuoterlo.
“Non sono tuo amico, buffone irlandese! Anche se ti ho chiesto una paglia, non hai il diritto di chiamarmi amico!”
Dung, scoprì i denti spezzati in una smorfia incerta.
“…Veramente… Sono di Norfolk…”
“Non mi interessa, cazzo!” sbraitò testa rapata, scuotendolo più forte.
“Fai il buffone con me, eh? Fai il buffone, nanerottolo? Lavori in un circo, bamboccio di Norfolk?” gridò il pelato sputacchiando saliva sulla faccia e sul bavero di Mundungus, già lerci per conto loro.
Dung, fece un altro tiro dalla sigaretta, espirando pazientemente. Non era la prima volta che qualcuno faceva lo sbruffone con lui. Durante la sua… carriera, aveva avuto più di un simile imprevisto da gestire.
Il rapato non era peggio di tanti altri, tanto più che era sicuramente un diavolo di Babbano.
“Ti conviene mettermi giù…” sussurrò Mundungus con un’espressione affabile.
“E perché, amico?” domandò il rapato incattivito.
“Perché sono un mago, un grande, potentissimo mago…”
“Che?!”
Testa rapata lo guardò in tralice e un‘espressione beatamente vuota. Dung poteva vedere i neuroni del suo cervello tentare di connettersi sbattendo tra di loro a ritmo folle.
Dieci secondi dopo, Mundungus Fletcher volava oltre la balaustra del Black Friar’s Bridge, precipitando nelle tumultuose acque del Tamigi.
Il suo urlo venne coperto dalla sirena di una delle chiatte che affollavano i lati del fiume.



Mundungus aprì lentamente le palpebre, gli occhi brucianti. Sembrava che qualcuno avesse cercato di schiacciarli i bulbi oculari nelle orbite. Cercò di alzarsi, ma il suo corpo reagì con scosse di disapprovazione. Non era ancora pronto a sorreggersi sulle gambe da solo. La sensazione di essere uno straccio, umido e pesante, si acuì.
“Hello, Herr Fletcher” disse una voce squillante davanti a lui.
Dung alzò leggermente il capo in direzione del suono e la donna bionda del ponte, lo intercettò con un sorriso di un rosa violento.
“Zerkinski…” fiatò Mundungus, riconoscendo il luccichio familiare degli occhi, che sul ponte gli era sfuggito.
“Herr Fletcher” ripeté la donna. Si accese un sigaro pasciuto, schioccando le lunghe unghie rosse: “Temevo che il volo improvviso ti avesse ucciso, grande mago.”
La donna sbuffò fumo giallognolo in direzione di Dung con un’espressione imbronciata:  “Mi duole ammettere che così non è.”
“La mia scaltrezza mi ha salvato ancora” biascicò Dung con un sorriso storto.
La mascella gemette sofferente, scricchiolando in modo preoccupante.
Gli occhi luccicanti della bionda fissarono rabbiosi il sacco informe e puzzolente chiamato Mundungus, il quale fece in tempo a notare la mazza da golf con cui la donna aveva sostituito l’ombrello.
Un ferro 13, in puro stile Zerkinski.
“Allora, Dungy- Boy. Che ti porta qui al Black Friar’s?”
“Qui non siamo certo al Black Friar’s, non più” sibilò Dung occhieggiando l’ambiente attorno dal pavimento dove era accasciato. Una stanza vuota, eccetto per un tavolo storto e traballante e i tre materassi sporchi appoggiati alle pareti, rivestiti di pannelli di legno che un tempo, dovevano valere un sacco di soldi. Il soffitto basso faceva pensare ad una cantina, la porta a zanzariera, al capanno di un cacciatore squattrinato.
“Benvenuto sulla Liebe Fraulein! , Fletcher.”
“Credevo che Alastor te l’avesse affondata…. Parecchio tempo fa….” abbaiò Dung.
“Ci ha provato, in effetti” sbuffò la donna facendo dondolare la mazza da golf minacciosamente “Ma ho avuto la fortuna di riuscire a recuperarla, ringraziando la mia buona stella… che anche in questo momento, brilla decisamente più della tua, Fletcher.”
“Se sei così fortunato Zerkinski, perché stai dentro il corpo di una donna? Essere un ciccione ti ha rotto?”
“Sottile ed elegante come al solito, caro il mio Fletcher. No, non mi sono rotto di essere un ciccione, semplicemente la mia situazione mi impedisce di aggirarmi per la City con il mio aspetto.”
“Capisco. Eri stufo di essere un ciccione” replicò Mundungus sornione.
“Perché continui a studiare la sorte Fletcher? Sii più gentile, o finirò quello che il giovane punk ha iniziato sul ponte.”
Mundungus alzò i palmi delle mani davanti a sé: “Pace Zer. Chiedo venia.”
“Allora cosa vuoi?”
“Una cosa. Per… un amico. Un caro amico.”
“Deve essere proprio un amico molto caro se osi ripresentarti davanti a me, con l’unica consolazione di farmi vedere quanto più in basso sei caduto, Fletcher” sibilò la bionda schioccando vistosamente le labbra.
“Un biglietto. Il Biglietto.”
“Got! Per la Tube o per il treno? Vai a King’s Cross, lì li trovi entrambi” sbottò la donna soffiando una nuvola di fumo verso il volto di Dung, steso a terra.
Dung scosse la testa, intorpidito dalla stanchezza, dalla noia e del dolore.
“Sai di cosa sto parlando.”
Zerkinski inclinò la testa e la vaporosa chioma bionda ondeggiante, pensieroso.
“Sì, so di cosa stai parlando. Non ce lo più.”
“Come? A chi l’hai venduto sciocco?!” esclamò Mundungus, scattando in piedi “Sei pazzo? Non ha prezzo!”
“Se non ha prezzo, come speravi di comprarlo tu, Herr Fletcher?”
Mundungus si morse la lingua. Aveva sperato che Zerkinski gli rivelasse dove lo teneva, così da soffiarglielo con facilità. Ma a quanto pareva, il ciccione oltre all’aspetto aveva cambiato pure cervello.
“Ho capito che volevi quel fottuto affare non appena hai posato i tuoi sudici piedi sul mio ponte, Herr Fletcher. Peccato. Eravamo Freund una volta, ma sono disposto a sacrificare la nostra amicizia per proteggere l’identità dei miei clienti, perciò, non aspettarti pietà alcuna.”
Dung estrasse la bacchetta: “A chi l’hai venduto, barattolo di lardo?”
“Non è con le tue classiche buone maniere che otterrai la risposta, Dungy, sappilo.”
La biondona cominciò a far roteare il ferro da golf, così veloce che le sferzate d’aria colpivano sul volto Dung, facendogli drizzare i peli delle sopracciglia.
“A chi l’hai venduto pezzo di stupido?” biascicò Mundungus.
La bionda sorrise, poi posizionò il sigaro ancora acceso dietro l’orecchio e afferrò la mazza con entrambe le mani.
Dung, troppo concentrato a fissare le labbra a cuore e rivestite di rossetto sgargiante di Zerkinski descrivere in un muto labiale il nome dell’acquirente, non vide arrivare il colpo.
Dieci denti, fra cui due in oro e tre placcati in argento, schizzarono assieme ad un fiotto di sangue denso e scuro dalla bocca di Dung, macchiando uno dei materassi lerci. Lui fiondò a terra, urlando per quel dolore così troppo Babbano.
Halò, Herr Flechter. Cura la tua Sehnsucht!
 Le ultime parole che Mundungus udì, prima di scivolare nel Babbano oblio del dolore, furono tre. Wir mir Benzin!



*Una nota: Il titolo del capitolo è un gioco di parole sull'evento più importante della WWE-World Wrestling Entertaiment e va quindi pronunciato a quel modo.


  
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