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Autore: Ningyohime    26/12/2010    1 recensioni
2068. Rin Bourekay è un'anziana vedova di umili origini. Ormai settantacinquenne, vive lontana dalla città di Nagoya, in un luogo dove il tempo sembra essersi fermato all'anno 2009. Sola e stanca, narcolettica e malata, vive in una condizione di eremitismo spezzata dalle visite dei nipotini, Yami e Akira in particolare, che le sono molto affezionati. Un giorno, è costretta a fare un tuffo nel passato e a ricordare, profanando così le memorie della se stessa sedicenne. Ricorda e racconta, condivide quei vecchi momenti con i nipotini, parlando per la prima volta a qualcuno di un passato insabbiato...
Genere: Avventura, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Crawl on me

Sink into me

Die for me

Living dead girl


Dal calendario occidentale, anno 2068 – Febbraio



Nonna! Nonna!”

Furono due vocine, in coro, a ridestare Rin Bourekay dal breve sonno in cui era caduta un'altra volta (per la settima volta in due ore): le vocine dei suoi due nipoti. Yami e Akira, dell'età di sei e nove anni già compiuti, stavano scuotendo senza delicatezza la loro nonna ormai settantacinquenne, che era seduta sulla sua poltrona imbottita preferita, quella dai cuscini blu oltremare. Quando Rin aprì gli occhi, ebbe una sorta di sussulto e i bambini si distaccarono prontamente, come se avessero visto uno spettro o si fossero scottati. Si sedettero nuovamente per terra, a gambe incrociate, fissando l'anziana dal basso.

C-cosa?” Chiese la signora, stringendosi istintivamente nello scialle di lana azzurrino, fatto a maglia. Due occhi marroni, profondi, si fissarono sui due bambini, dopo aver osservato la stanza di cui non si ricordava. Era una sala dalle porte scorrevoli chiuse, il camino acceso in un angolo lontano dalla finestra chiusa che lasciava intravedere un'abbondante nevicata in corso, e un tavolino basso al centro. Tanti giocattoli di ogni tipo erano sparsi per terra, mentre i fumetti erano ordinati sugli scaffali di legno che si trovavano ben distanti dal camino. I grandi armadi erano socchiusi, lasciavano intravedere dei materassi bassi con sopra delle lenzuola pulite, delle coperte imbottite e dei cuscini dalle federe verdi. La poltrona era vicina al camino, quindi la donna poteva sentire chiaramente il calore proveniente da essa.

Ti sei addormentata, nonna.” Riferì Yami, una bambina dai capelli di un insolito biondo platino, con il tono di chi sembrava dire una cosa già detta e ripetuta ad oltranza: un tono stanco, che poco si addiceva ad una bambina decisamente vispa.

Di nuovo?” Chiese sorpresa l'anziana, mentre i bambini annuivano nello stesso istante con una certa fermezza, in contemporanea. Rin sospirò, stancamente, e scosse il capo. “La vostra nonna si sta spegnendo, piccoli.”

Spegnendo? Come un robot?” Chiese Akira, con una certa sorpresa nel tono di voce. Piegò il capo bruno di lato, leggermente, come a voler guardare la nonna da un'altra angolatura. Forse, così, avrebbe capito il senso di quelle parole.”

Può essere..” Rin fu vaga. Si mise più comoda sulla poltrona e appoggiò sui braccioli gli avambracci esili e ossuti, dalla pelle non più liscia. Anche il viso era segnato da molte rughe, incorniciato da capelli mossi e grigi quasi come acciaio, con delle ciocche candide.

Non capisco..” Commentò Akira, ancora più perplesso, riportando la testolina dritta.

Volete che vi racconti una storia?” Chiese Rin, a bruciapelo, senza un motivo apparente. Sembrava solo voler cambiare discorso, per qualche ragione ignota ai due bambini. In verità, forse, la cosa sarebbe stata più chiara solo dopo aver raccontato tutto. Del resto, erano due bambini: potevano anche crederle, ma nessun adulto avrebbe mai creduto loro. I bambini, del resto, sono un serbatoio illimitato di fantasia. Potrebbero inventare qualsiasi cosa.

Sììì! Una delle tue storie!” Yami si dimenticò totalmente delle parole enigmatiche di Rin, si mostrò entusiasta e batté le manine paffute un paio di volte, come a volerla incitare a modo suo. Akira, invece, non sembrava convinto. Annuì alle parole della sorellina, ma non aggiunse altro. Lui, del resto, era quello che parlava meno fra tutti i nipoti della Bourekay.

La nonnina annuì a sua volta, sorridendo ai due bambini ed iniziò a ricordare. Così, cominciò a raccontare pazientemente...




* * * * * * * * * * * *



Dal calendario occidentale, anno 2009 – Aprile



Era di giovedì, lo ricordo bene. Mi svegliai tardi, come mio solito. La sveglia suonò con quasi mezz'ora di ritardo e quando aprii gli occhi, non c'era nessuno nella mia stanza. I letti di vostra zia Satoko e vostra zia Mikan erano vuoti e sfatti. Ricordo ancora le grida di mia madre, che chiedeva di me alle mie sorelle, al piano di sotto. A dire il vero, ricordo anche meglio la faccia che feci io vedendo l'ora sulla sveglia: avevo lo specchietto vicino alla sveglia, potevo vedermi in faccia al contempo. La mia espressione mi ricordava molto quella del dipinto L'urlo, che avevo visto mesi prima ad una mostra con la scuola, durante la gita annuale: mi presi il volto fra le mani, gli occhi sgranati e la bocca spalancata.

Quasi caddi dal letto, quando mi alzai e corsi a prepararmi per andare a scuola. Ero in un ritardo mostruoso e lo sapevo bene. Sapevo anche che i miei mi avrebbero bestemmiato dietro, sentendo il soffitto rimbombare, dal momento che stavo correndo tra la stanza e il bagno e la cucina era proprio di sotto. Dopo nemmeno dieci minuti, avevo la divisa scolastica addosso, non mi ero truccata nemmeno un po' e avevo una scarpa in una mano, mentre nell'altra avevo lo spazzolino con cui mi stavo lavando i denti mentre correvo al piano di sotto.

RIN!” Tuonò mia madre, ai piedi della prima rampa di scale, guardandomi tra il furioso e l'allibito. “Perché diamine non ti svegli, quando suona la sveglia delle tue sorelle?!”

Non spiccicai parola finché non mi strappò di mano lo spazzolino e non mi ficcò in mano un bicchiere d'acqua. “Ma mamma, non è colpa mia!”

Oh, certo. Non è MAI colpa tua.” Borbottò lei, sarcastica, lanciandomi uno sguardo torvo mentre io saltellavo come un canguro, su un piede solo, mentre con una mano cercavo di infilarmi l'altra scarpa e con l'altra mano trattenevo fra le dita il bicchiere.

Bevvi l'acqua in pochi sorsi, giusto per sciacquarmi la bocca e ingoiare sia l'acqua che il dentifricio alla menta, così forte che mi fece lacrimare gli occhi. Qualche goccia cadde sulla giacchetta, ma non m'importava: ero in ritardo. Restituii il bicchiere vuoto a mia madre e, infilata la scarpa, presi la cartella con i libri di testo e corsi fuori di casa. Salutai mio padre con un “Ciao papi” e prima che potesse dirmi qualcosa, misi la cartella nel cestino posteriore della bicicletta di Mikan e salii sulla bicicletta.

Ricordo la corsa tra i passanti, ricordo i miei ripetuti 'PISTAAAAA!' e soprattutto, ricordo fin troppo bene che stavo andando addosso ad un muro mentre tenevo il manubrio della bicicletta con una mano, per pettinarmi i capelli con la spazzola che avevo trovato nel cestino anteriore della bicicletta. Non avevo trovato il tempo di pettinarmi e non potevo presentarmi certo a scuola con i capelli afro. Ok, non erano esattamente 'afro', ma sembrava che io avessi in testa più un cespuglio di rovi, che una semplice 'chioma' color caffè. Mi salvai per un pelo dall'impatto, girando l'angolo e buttando per terra la spazzola, tra le imprecazioni della gente e i miei 'scusate' mormorati a voce così bassa che potevo sentirmi solo io. La scuola era ad altri duecento metri, davanti a me c'era un rettilineo che sembrava infinito e, oltretutto, era deserto.

Pedalai fino a non sentirmi più i piedi, tanta era la forza che ci mettevo. Non che avessi moltissima forza, ero un giunchetto esile, dalla pelle scura, dalle forme minute e la forza di una formica. Non so nemmeno come feci a non cadere, quando frenai bruscamente, poco prima d'investire un ragazzino, in ritardo anche lui. Un momento dopo, parcheggiata la bici, sfrecciavo per i corridoi come se mi stesse inseguendo qualcuno. Uno, due piani di scale a piedi e un lungo corridoio dritto, deserto. In totale, in un minuto percorsi sei rampe di scale e i gradini erano alti, oltre che tanti. Mi sembrava di essermi fatta cinque piani di scale, non due, e maledii in tutte le lingue che conoscevo (cioè due) l'ascensore guasto. Quando aprii la porta della mia classe, a cui praticamente mi aggrappai per non cadere a causa delle gambe tremanti che stavano per cedere.. non vidi nessuno. La classe era vuota, in ordine, pulita.

Inizialmente non capii, sapevo solo che mi sentivo il cuore pronto ad esplodere e la milza che faceva male da impazzire. Ansimavo, avevo le mani sudate e un'espressione stravolta. O almeno, ero sicura di averla. Non vista, mi accasciai per terra, appoggiando la schiena allo stipite della porta, con le gambe distese di lato e la borsa a coprire buona parte delle gambe, scoperte dalla gonna abbastanza corta della divisa rossa.

Non sono.. anf.. in ritardo?” Mi chiesi, parlando con un filo di voce e una mano appoggiata per terra, per evitare che mi stendessi del tutto sul pavimento freddo. La scuola era aperta, ma mi sembrava vuota, o forse quel silenzio era così spettrale da non farmi capire che altra gente era lì. Mi venne in aiuto il caso. Quella che era stata la mia vicina di banco per anni uscì dal bagno delle ragazze, non lontano dall'aula, e mi si avvicinò a passo svelto, senza farsi sentire.

Ma allora c'è qualcuno!” Esclamò lei, fermandosi davanti a me. Alissya Moryoka mi si accucciò di fronte, una mano appoggiata per terra per mantenere l'equilibrio e un'altra, invece, ad aggiustare gli occhiali sul naso sottile e leggermente all'insù. Con quell'adorabile voce da anime per bambini, Alissya mi riscosse dai miei pensieri.

La guardai e a differenza di me, lei non era affatto stanca. I suoi occhi marrone scuro avevano un che d'irritato. Arricciava il nasino, di tanto in tanto: era nervosa. Si capiva da quel tic che conoscevo abbastanza bene. “Solo noi.”

E che diamine.” Alissya sbuffò e abbassò lo sguardo, rialzandosi lentamente in piedi. Mi tese una mano e io accettai il suo aiuto, rialzandomi con lei. Avevo smesso di ansimare, per quanto le gambe mi facessero ancora un po' male per gli sforzi fatti. Mi sentivo anche più lucida, potevo pensare un po' meglio.

Ma.. che ore sono?” Chiesi, tutto ad un tratto. Potevamo benissimo essere arrivate troppo presto. A dire il vero, non capii perché pensai a questo. Mikan e Satoko erano già andate a scuola, mia madre urlava perché avevo fatto tardi.. sembrava proprio l'orario di apertura della scuola. E infatti la scuola era aperta.

Le otto e mezza.”

Mboh. Magari saremmo dovute entrare dopo.” Borbottai, lasciando la sua mano per prendere la cartella da terra. Povera cartella, sballottata qua e là. Mi chiesi perché stavo pensando alla cartella e non alla mia corsa inutile.

Alissya annuì e si diede uno schiaffetto sulla fronte. “..oggi era l'apertura degli uffici, domani l'inizio delle lezioni!”

..ma io in segreteria non ho visto nessuno!”

Io e Alissya ci guardammo negli occhi per qualche istante, dubbiose e assorte. O almeno, lei lo era. Aveva le sopracciglia aggrottate, l'espressione di chi si sta bruciando il cervello a furia di pensare e le labbra serrate. Si picchiettava il labbro inferiore con l'indice. E poi, fece spallucce nello stesso momento in cui le feci io. “Mboh.” Lo dicemmo all'unisono, come due gemelle, e scoppiammo a ridere un attimo dopo, senza un reale motivo.

Le volevo molto bene, per quanto avessimo i nostri litigi e i nostri momenti 'no'. Avevo molti altri amici, a dire il vero. Lei non era l'unica e lo sapeva, eppure aveva qualcosa di speciale. Sapeva di passato. Con lei ero cresciuta, era da quando avevo undici anni che la conoscevo: cinque anni. Un'eternità che sembrava essere volata. Non avevamo gli stessi interessi, non ascoltavamo la stessa musica e non condividevamo i gusti di vestiti. Non ci piacevano nemmeno le stesse cose. Detta così, sembrava quasi che io e lei fossimo diventate amiche per sbaglio. Quanto si sbagliava, la gente che lo pensava! E quanto si sbagliava lei, a credere che la usassi e basta.

Che facciamo?” Chiesi, tutto ad un tratto, lisciandomi con la mano sinistra una piega della gonna. L'altra, prima ancora di rispondermi, mi prese quella mano e prese a trascinarmi lontano dalla classe vuota, verso le scale che portavano ai piani inferiori.

Semplice, ci prendiamo una bella cioccolata calda. C'è un bar nuovo qui vicino!”

Ma non ho soldi!”

E quando mai li hai?” Sembrava quasi volermi accusare e invece ridacchiò, un secondo dopo. “Li ho io”

Perfetto, allora.”

Dieci minuti dopo, eravamo fuori dalla scuola, davanti ad una saracinesca abbassata e un biglietto stropicciato, su cui si poteva leggere chiaramente un messaggio destinato a sconvolgere la povera Alissya. Quella era la saracinesca del bar in questione, dall'insegna di legno lucido su cui era scritto il nome del locale.

Chiuso per ferie.” Lessi, placidamente, scuotendo il capo. “Pare che dovremo fare a meno della cioccolata.”

Alissya cadde per terra, in ginocchio, ai piedi della saracinesca e si mise a graffiare questa con la mano destra, come un gatto che si rifà le unghie o un cane in cerca di coccole, che muove la zampa. Probabilmente più la seconda opzione, dato che aveva gli occhi lucidi da cane bastonato. “Datemi cioccolataaaaaaaaaaaaaaaaaaa!” Il suo sembrò quasi uno di quegli ululati dei coyote nel deserto. In verità, era solo in astinenza da cioccolato. Del resto, si sa che quello è come una droga, per determinati soggetti. Alissya era uno di quelli. Al latte, fondente, con le nocciola. In tavolette, in barrette, in praline, in crema, come bevanda. Non poteva, semplicemente, farne a meno.

Alycchi, attiri l'attenzione!”

Voglio la cioccolata!”

Non so come, ma riuscii a tirarla su. Già, non so come: era una ragazza più robusta di me, oltre che più alta. Io ero esile, lei tutt'altro, per quanto non fosse grassa o chissà cosa. “Andiamo a vedere in un altro bar, no?”

Ma..!”

Prendiamo pure le tavolette e..”

Riprese a trascinarmi prima ancora che io finissi la frase, sotto lo sguardo allibito dei passanti. Camminammo, camminammo, camminammo. I miei piedi imploravano pietà, ma io ero paziente di natura e così, sospirai. Non volevo alterarla ulteriormente, sapevo quanto lei sapesse essere permalosa. Lo sapevo troppo bene, dopo cinque anni d'amicizia. Sapevo quanto potesse essere infantile, sapevo quanto potesse essere buffa. Ancora una volta, mi riscosse dai miei pensieri.

Dovremmo quasi esserci. È vicino al porto, no?”

Sì, dovrebbe essere lì, ma.. che ore sono?” Chiesi per la seconda volta in due ore, titubante. Mi sentivo un po' irrequieta, senza capire il perché. Era una giornata normalissima, non avevo impegni di sorta. Non capivo perché mi sentivo così ossessionata dal tempo. Tic tac. Sentivo un continuo tic tac, nella mia mente. Un ticchettio simile a quello di una bomba ad orologeria. Era lieve, era lontano.

Le undici meno un quarto, perché?”

No, niente. Abbiamo camminato per così tanto?” Cercai di cambiare argomento e le sorrisi, decisa a non mostrare nulla. Era una sciocchezza, per me, quell'inquietudine martellante. La sentivo venire dal cuore, la sentivo stringerlo in una morsa inspiegabile. Mi sentivo, secondo dopo secondo, come se l'aria si stesse esaurendo. In quel momento, capii come ci si doveva sentire a metri e metri di profondità, vedendo la luce così vicina eppure così lontana, mentre il respiro si fa più faticoso.

Quella stessa inquietudine mi accompagnò nel bar dove entrammo io e Alissya, anche quando ci accomodammo su due divanetti uno di fronte all'altro, divisi da un tavolino basso. Era accogliente, come posto. Aveva la vista sul mare da un lato e sulla strada dall'altro. Era ben illuminato, profumava di pulito e di limone, in particolare. Potevamo sentire i gabbiani. Sentivamo solo i gabbiani, dal momento che eravamo le uniche clienti.

Alissya appoggiò la propria cartella tra la schiena e lo schienale del divanetto e lo stesso feci io, decisa a non vedere più qualcosa che ricordasse la scuola. A parte le divise, ovviamente. “Che hai?”

Uh?”

Ho chiesto che c'è che non va, Rin-chan.” Ripeté, seria, mentre un inserviente ci portava le tazze di cioccolata con la panna montata sopra, con sotto un piattino e vicino, una piccola ciotola contenente granella di nocciole. Lei ne prese una manciata e la fece cadere, a pioggia, sulla panna e la cioccolata. Poi prese il cucchiaino e l'immerse nella panna. “Sei strana.”

Trasalii. Se n'era accorta, dunque? Ero davvero un libro aperto? Scossi il capo, delicatamente. “No, stavo solo pensando.. sei sicura di avere abbastanza soldi? Non vorrei finire a lavare i piatti, sai com'è.”

Alissya si mostrò perplessa. Con il cucchiaino in bocca e un pezzetto del manico stretto fra i denti, mi guardava come avrebbe potuto guardare un extraterrestre. Ammesso che esistessero. “Era questo, quindi?”

Annuii e presi a mangiare anche io, anche se non avevo molta fame. Non volevo essere scortese, mi avevano insegnato a non esserlo, in sedici anni. Non sarei mai stata accettata, altrimenti. Non consumai avidamente come Alissya la mia cioccolata, la mia testa era altrove e non solo sulla cioccolata.. anche se non mangiavo dalla sera prima. Nell'aria, al posto del canto dei gabbiani, iniziò a sentirsi una melodia. Io la conoscevo a malapena, ma sapevo bene di chi fosse quella canzone che partiva dagli altoparlanti nel bar. Pensavo che Alissya avrebbe sbuffato. Era una di quelle che piaceva a me, e invece?

Alissya mosse lentamente il capo, a ritmo di musica. Aveva finito la cioccolata e stava aspettando l'arrivo di un altro inserviente, con i soldi già appoggiati sul tavolo. Canticchiò il ritornello, con quella sua intonazione da soprano che rendeva orecchiabile ogni cosa che cantava. Sarebbe diventata una cantante, da grande: Alissya lo sognava, ma io ne ero sicura. “Onna wa itsumo nannimo shira nakute, urunda hitomi de unazuite ru dake datte.”


Tre. Tic tac, tic tac, tic tac.


Quel 'tre', alle mie orecchie, sovrastò la musica. L'inserviente arrivava, vestito di bianco, lasciando della cioccolata sul tavolo e prendendo i vassoi. Alissya continuava a cantare, io avevo finito la cioccolata. Mi pulii le labbra con un fazzoletto, mentre mi alzavo in piedi, lentamente. Il ticchettio s'era fatto più forte, più frequente. “Omotte iru nara sore wa ookina machigai.”


Due. Tic tac, tic tac.


Ancora. Si alzò anche Alissya e prendemmo entrambe le nostre cartelle, pronte ad andarcene, sazie e con il 'bottino' in tavolette e praline di cioccolato, tutte in un sacchetto bianco di carta, per Alissya. Eppure, io sentivo la mia ansia aumentare, così come il ticchettio. Non sentivo nemmeno più la canzone, vedevo solo Alissya che muoveva le labbra, continuando a cantare quel ritornello. “Datte anata wa kono te no ue”


Uno. Tic tac.


Il ritornello finì lì, Alissya smise di cantare e si mise al mio fianco. Già faceva per allontanarsi, a dire il vero. Io rimasi lì, cercando di capire da dove proveniva quel 'tic tac'. Feci bene. Alissya si stava avvicinando troppo alle finestre, qualcosa mi diceva di urlare. Era la mia esasperazione? Era la mia ansia? Mi gettai addosso alla mia amica, prima che lei potesse dire nulla. Non so nemmeno che reazione ebbe. Saltai addosso a lei, con un brevissimo scatto di rincorsa. Sembravo un giocatore di rugby che placcava un altro giocatore, se non fosse stato per il terrore che mi pervadeva. Quel tic tac era ancora troppo vicino e sembrava davvero una qualche bomba ad orologeria. Ci fu un boato assordante, come il rombo di un tuono. Un 'ka-boom', di quelli che io avevo sentito solo negli anime, che fossero i nostri o quelli stupidi americani. Vetri infranti, urla, fiamme. Caddi sopra Alissya, per proteggerla con il mio esile corpo. Sentii dolore, dolore e ancora dolore. Qualcosa mi si era conficcato nella schiena. Svenni lì, dopo aver sentito di nuovo quella voce del countdown. Era una voce femminile, sadica.


Striscia su di me, affonda in me, muori per me, cadavere di donna vivente.






















  
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