“Non
c’è bisogno di litigare”,
esordì il
neonato. “Sono disposto a cederla”.
“Bene”,
ringhiai, allargando le braccia
davanti ad Alice.
Aspettai
che se ne andasse.
Non
lo fece. Dopo un po’ disse: “Che
aspetti a ucciderla?”. Era pronto ad attaccare.
“Non
lo farò”, gridai.
Confuso,
il vampiro si drizzò dalla
posizione di attacco. “Che senso ha? Ha visto cosa siamo! Oh,
beh, scansati, lo
farò io. Ho ancora sete”.
Avanzai
verso di lui e ringhiai.
Mi
attaccò troppo di fretta per essere
letale quanto voleva.
Scansai
il suo attacco prevedibile e lo
lanciai, con un calcio, il più lontano possibile. Presi
Alice in spalla e la
portai nella foresta.
Il
vampiro ci avrebbe raggiunti in
breve.
Sapevo
di non avere speranze. Non avevo
mai lottato nella mia vita da vampiro, e il neonato non mi era apparso
trascinato dall’istinto come avrebbe dovuto essere. Inoltre,
lui era forte,
saturo del suo stesso sangue, mentre io avevo esaurito le mie riserve
per
resistere alla compagnia di Alice e al sangue di Simmons sparso per
terra.
Così
presi la decisione drastica.
Contemplai
Alice. Era bellissima, gli
occhi azzurri, i capelli corti neri, la pelle di un bianco diafano.
“Perdonami”,
sussurrai.
Le
mie labbra.
Il
suo collo.
Contatto.
I
miei denti.
La
sua carne.
Urlò.
“Alice?
Alice, guardami”.
Obbedì.
“Ti
amo”, riuscii a dire, carezzandole
la guancia. Posai le mie labbra sulle sue in un leggero bacio.
“Dimenticherai
tutto”.
Incisi
in fretta il suo nome sulla
corteccia di un albero, a caratteri eleganti. ‘Alice’.
E basta.
Mi
voltai; il neonato era ormai lì. Mi
posi contro di lui.
Pronto
a diventare cenere.
POV
Alice
Il
dolore stava cessando. Spariva dalle
estremità del mio corpo e si convogliava nel mio cuore che,
infine, si fermò.
Non
ero morta.
In
me, solo la vaga consapevolezza di esistere
e di dover usare il femminile quando pensavo a me. Conoscevo la mia
lingua, il
nome degli oggetti attorno a me; sapevo che ne esistevano altri con
nomi
diversi. Nient’altro. Neanche il mio volto.
Intuii
cos’ero quando il rumore di un
battito umido di cuore di un puma mi fece bruciare la gola. Ne ebbi la
certezza
quando balzai sul suo collo – un balzo di quaranta metri,
incredibile – e vi
infilai i miei denti.
Una
vampira.
Un
mucchio di cenere sotto un albero. Mi
fece star male, ma non sapevo perché.
Sul
tronco dell’albero era inciso un
nome di una semplicità sconcertante. Alice.
Era il mio? Non ne ero certa. In ogni caso, lo sarebbe stato da quel
momento.
Mi
bloccai. Vidi – ma non è esatto dire
che vidi, perché
l’immagine non era
davanti a me e ne ero consapevole – un volto. Bellissimo.
Nella mia testa, un
volto maschile, un uomo biondo dalla pelle pallida e gli occhi scuri,
quasi
neri. L’immagine si allargò: l’uomo era
in un bar. Philadelphia, seppi,
anche se non ero mai stato in quel luogo – o
sì? Non ricordavo – e non sapevo dove fosse
Philadelphia rispetto a me. Forse
c’ero già. Non sapevo dov’ero.
Va
bene. Inspirai a fondo.
Un
nome, un mucchio di cenere. E un
volto: sapevo cosa cercare.
-FINE-
...ah,
già… buon 2011! :)