Cara Vicky.
Buonasera! Allora premetto che questa non è una mia storia ma del mio amico Jek che voleva pubblicarla e che quindi mi ha chiesto di postarla qui. Quindi a ogni recensione risponderà lui, io mi limiterò solo a pubblicarla.
Buona lettura!
Babi gli si
avvicinò da dietro
portando con se la lieve fragranza di tabacco e disinfettante che la
accompagnavano fin da quando si erano conosciuti.
Ricordava bene
lo sguardo ambrato e caldo come whisky della giovane infermiera
contrastante con le fredde pareti di un verde smunto
dell’ospedale,
ricordava la primavera palpitante ed impaziente di sbocciare sotto la
brina ancora ghiacciata di metà Marzo, ricordava il cortile
interno arredato con poltrone rosate in vimini sul quale Giorgia si
abbandonava spesso con un grosso tomo sulle gambe ignara del suo
osservatore.
Giorgia dalle nivee guance, dai capelli cenere e gli
occhi verde-ocra. Giorgia dalle labbra a bocciolo e le mani grandi ed
affusolate. Giorgia dalla pelle diafana, dal naso leggermente
all’insù e dalle gambe lunghe. Giorgia che odiava
quel posto, che amava i suoi libri. Che passava nottate in lacrime
accovacciata
nell’abbraccio dell’infermiera, quella Giorgia
racontatagli per
filo e per segno in ogni minimo dettaglio e umore, giorno dopo
giorno, vedendola appassire ed avvizzirsi in una spira d’odio
e
nulla intessuta dalla stessa, fino a spegnersi. Quella stessa Giorgia
che ora giaceva inerme in una bara in mogano dalle rifiniture dorate
e mille fiori e nastri ad adornarla quasi per dissimulare la
soffocante perdita.
Un giglio vicino alla foto scelta e
racchiusa in una cornice ad ovale semplice.
“Un altro piccolo
angelo , un altro piccolo fiore piegato al mondo”
Sussurrò
Babi al suo orecchio. Con il suo lavoro era la logora testimone delle
controversie che affollano la mente dell’uomo, fino a ridurlo
nulla
più che un semi inerto mucchio di ossa e legamenti.
Lacrime che
nemmeno lui si era accorto di produrre gli colavano lungo le guance
seguendogli i contorni del viso fino a spiccare un volo dal mento al
pavimento. Si chiese chi era il prete per decantare la bellezza
d’animo e lodare la persona che giaceva immobile
lì, al cospetto
di tutti. Con che diritto , narrava quale splendida ragazza fosse
senza nemmeno averla mai vista sorridere, senza aver udito la sua
voce sottile e melodiosa. Come poteva dispiacersi dei mali che aveva
subito? Vi era forse lui ad assisterla giorno dopo giorno? Era forse
quel prete di paese ad ascoltare con angoscia all’ora del
crepuscolo le descrizioni di Babi sulla sua salute , i verdetti dei
medici che la piccola infermiera era riuscita a strappare dalla bocca
di Giorgia?
No. Ovvio che no. Gli pareva dissacrasse , buttasse
calunnie e riempisse di fango quel corpicino che sotto lo sguardo
della ristretta cerchia di parenti e amici palesava la sua
piccolezza, una fragilità capace di strappare al cuore un
sussulto.
Dio. Quel qualcosa che (ne era certo) non esisteva e a cui tutti
in quel momento pregavano perché si prendesse carico del suo
spirito, e lo beasse nelle dolcezze del paradiso. L’anima,
quella
concezione forse solo creata dall’uomo che si ha di una
persona una
volta che esala l’ultimo respiro, per illudersi che questa
non sia
veramente terminata in un battito cardiaco ed un irrigidirsi di
muscoli.
La immaginava come un filo ceruleo fluttuante, che piano
si innalzava in un bagliore etereo al disopra dei loro capi chini in
preghiera, per allontanarsi sempre più, fino a dissolversi
nel cielo
limpido di settembre. Dio se esisteva non era riuscito a preservarla
da viva , perché mai avrebbe dovuto accoglierla da morta.
Non vi
era mai stato nessun Dio a guidarla nelle decisioni, nessuno che
l’assolvesse dall’unico peccato mai commesso:
un’ingenua e
spregiudicata fanciullezza che nonostante gli avvenimenti che irrotti
nella vita la accompagnò dal primo all’ultimo
minuto.
“Let
us die young or let us live forever” Recitava il suo
epitaffio.
La
frase che compiuti diciotto anni era decisa ad incidersi indelebile
con un tatuaggio nero e semplice attorno la caviglia.
“Lasciaci
morire giovani o lasciaci vivere per sempre.”
“Sei morta
giovane ma vivrai per sempre”.
Pensò, rabbrividendo a quella
parola.
Morta. Un concetto tanto effimero quanto brutale nel suo
suono , nel significato e in tutte le conseguenze che comporta.
“Non
vi sarà mai scritta quella frase sulla tua pelle, non avrai
mai
diciotto anni. Per sempre piccola, per sempre una minuta immagine di
te immobile in un vestito panna inamidato dentro una bara aperta.
Il
mondo non vedrà mai lo sbocciare di un angelo, saresti stata
una
donna bellissima.”
Decise di non voler sostare ulteriormente in
quella chiesa umida ed odorante di incenso, dalle luci fioche e
velate che inebetivano i presenti.
Lanciò un ultimo sguardo
sfuggevole alla bara, determinato ad annebbiare subito la memoria di
quell’immagine cianotica.
Percorse la breve navata ed uscì
senza inchinarsi all’altare, provocando qualche mormorio ed
un’esitazione nel mezzo dell’omelia che il prete
biascicava con
poca enfasi.
Spinse il portone pesante premendo le dita sul legno
scuro ed un’ondata di luce lo accecò stordendolo
ulteriormente.
Massaggiandosi le tempie trasse una boccata d’aria .
Limpida.
Pulita. Settembrina.
Il calore del sole si era affievolito
confronto i mesi estivi, ma ancora permetteva ai fiorentini di
passeggiare senza giacca o sciarpe, calpestando foglie gialle e
rossastre godendo degli ultimi cieli limpidi senza nuvole cariche di
acquazzoni o venti gelidi e pungenti.
La stagione in cui, quasi
due anni prima tra rami spogli e bacche rosse aveva incontrato
Giorgia.
Il mese dell’amore, il mese delle castagne arrostite ,
il mese degli occhi verdi che si fondevano con il crepuscolo porpora
che andava morendo dietro terrazzo Bardini.
L’odore di terra
bagnata, le tracce d’erba a sporcare i jeans, piccoli
frammenti di sterpaglia secca intrappolata casualmente tra i capelli.
Ancora
un altro settembre, un settembre non più lo stesso.
Prese a
tirarsi distrattamente un filo ribelle che pendeva
dall’imbastitura
del leggero pullover color cachi, lottando con le dita fino a che la
sottile cordicella non cedette rovinando delicatamente sul piazzale.
Avvertiva la presenza di lei a qualche metro, raggomitolata
infondo alla breve scalinata di ciottoli in terracotta con una
Marlboro touch stretta tra l’indice e il medio, probabilmente
sporca all’estremità del rosso acceso di un
rossetto che suggeriva
tutt’altro che castità.
Voce perennemente in falsetto e mimica
facciale eloquente, così l’aveva immaginata.
Si chiese come
potesse provare tanto disprezzo per una persona incrociata di
sfuggitanon più di tre volte, come una sconosciuta sia
potuta
penetrare indirettamente così affondo nella sua esistenza
fino a
sconvolgerla e sradicarne le fondamenta più cementate.
Quella
ragazza da gli occhi di un turchese agghiacciante stava cercando
sfuggevolmente i suoi, così simili, eppure colmi di colori
d’emozioni differenti se pur affini in una inequivocabile
gamma di
tragicità comune.
Una desolata landa cristallina dilaniata da
venti carichi d’odio, dall’odore di
un’inesprimibile rammarico
generato dall’ingannevole alleata solitudine.
Ecco Vicky. Un
groviglio di capelli, ossa e gambe.
Una mappa molto vaga di
emozioni animava pallidamente quel viso efebico ognuna delle rare
volte che i loro cammini si erano sovrapposti, quasi che la
personalità della giovane fosse sedata da un fardello
maggiore che
costantemente incombeva su di lei. Così si era disegnata
Vicky nella
sua mente, come se vi fosse una spada di Damocle tanto indicibile
quanto impalpabile, celata da una cortina d’odio che si
materializzava nello sguardo d’ella ogni qual volta qualcuno
superasse la linea oltre il quale iniziava una creatura troppo
deforme e pusillanime per mostrarsi al mondo.
Era convinto della
presenza di un grosso macigno dietro lo sguardo truce e il fare
schietto che la mora riservava ad ogni essere umano (in particolare a
lui); ma d’altronde quel genere di persone, come lei, come
Giorgia,
era quasi scontato avessero una parte taciuta che tormentava loro
continuamente, sino all’ossessione. Quello che Giorgia diceva
si
era rivelato superfluo in confronto al non detto, che lui non era
riuscito a cogliere, che aveva sfiorato ma di cui aveva preferito
ignorare l’esistenza. Un nodo si strinse alla gola, uno di
quelli
capaci di provocare vertigini improvvise e far salire lacrime al
solo pensiero di come le cose sarebbero potute andare in maniera
diversa. Era la storia della sua vita, anzi, la storia
dell’umanità:
il rimpianto di come sarebbe potuto essere altrimenti. Viviamo
ponendoci aspettative spesso troppo elevate , e qual’ora le
manchiamo una piccola parte di noi continua ad inacidirsi al pensiero
di non aver tagliato quel traguardo, mettendo in secondo piano
ciò
che la vita comunque è riuscita a donarci, disprezzando il
profumo
di una esistenza ugualmente rosea.
Sapeva di non risiedere tra
le grazie della fanciulla che ora accendeva un’altra
sigaretta con
il mozzicone della prima. D’altronde il sentimento era
reciproco.
L’uno rifletteva la colpa strisciante dell’altra,
sempre che
di colpa da attribuire si volesse parlare. Ammesso che vi fosse una
vera colpa e quindi un imputato da giustiziare. L’uno il
giudice
accusatore dell’altro ma arbitrario verso se stesso, deciso a
non
assolvere ma a condannare. Il perdono non esiste. È una
dimensione
beffarda ed ipocrita nel quale ci si rifugia quando le
possibilità
di fare retromarcia sono nulle. Una clausola morale capace di
assolvere verbalmente, ma un patetico edulcorante di una colpa viva e
vegeta. I vigliacchi si rifugiano nel perdono altrui, per non sentire
ripetere da qualcun altro la costante postilla di aver torto, e
mettere così a tacere la propria coscienza sporca.
Entrambi
estranei ma accumunati da un filo cremisi capace di legarli
indissolubilmente. Quel filo, l’allegorica rappresentazione
di un
evento che per sempre cambierà le vite dell’uno e
dell’altra,
che sordido si presenterà a bussare ai ricordi una notte di
metà
novembre, o sarà capace di far tremare le ginocchia ogni
qual volta
la mente sfiorerà l’immagine di quel volto candido
: di Giorgia.