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Autore: Marti_Stark    02/01/2011    1 recensioni
(Dalla storia):
Cara vicky, ho paura del mio riflesso.
Nel bagno, tra le vetrine, nella superficie bianca e lucida della cucina. In un negozio, in una porta a vetro, sul finestrino dell’auto. La mia immagine mi segue. Quello sguardo sopra quegli zigomi così appuntiti, quel volto sorretto da quelle clavicole così sporgenti … quella carnagione così pallida. Non sono mie. Non sono io. Mi hanno rubata, dove sono?
Dove sono tra tutti questi specchi ?
I miei occhi, i capelli. Sono opachi.
Una bellezza così androgina e perfettamente a metà tra un baratro.
Cara Vicky mio specchio prediletto, salvami. Scrivimi e fammi capire che non sono sola in questo delirio.
Tua , Giorgia.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cara Vicky.

Buonasera! Allora premetto che questa non è una mia storia ma del mio amico Jek che voleva pubblicarla e che quindi mi ha chiesto di postarla qui. Quindi a ogni recensione risponderà lui, io mi limiterò solo a pubblicarla. 

Buona lettura!


Babi gli si avvicinò da dietro portando con se la lieve fragranza di tabacco e disinfettante che la accompagnavano fin da quando si erano conosciuti.
Ricordava bene lo sguardo ambrato e caldo come whisky della giovane infermiera contrastante con le fredde pareti di un verde smunto dell’ospedale, ricordava la primavera palpitante ed impaziente di sbocciare sotto la brina ancora ghiacciata di metà Marzo, ricordava il cortile interno arredato con poltrone rosate in vimini sul quale Giorgia si abbandonava spesso con un grosso tomo sulle gambe ignara del suo osservatore.
Giorgia dalle nivee guance, dai capelli cenere e gli occhi verde-ocra. Giorgia dalle labbra a bocciolo e le mani grandi ed affusolate. Giorgia dalla pelle diafana, dal naso leggermente all’insù e dalle gambe lunghe. Giorgia che odiava quel posto, che amava i suoi libri. Che passava nottate in lacrime accovacciata nell’abbraccio dell’infermiera, quella Giorgia racontatagli per filo e per segno in ogni minimo dettaglio e umore, giorno dopo giorno, vedendola appassire ed avvizzirsi in una spira d’odio e nulla intessuta dalla stessa, fino a spegnersi. Quella stessa Giorgia che ora giaceva inerme in una bara in mogano dalle rifiniture dorate e mille fiori e nastri ad adornarla quasi per dissimulare la soffocante perdita.
Un giglio vicino alla foto scelta e racchiusa in una cornice ad ovale semplice.
“Un altro piccolo angelo , un altro piccolo fiore piegato al mondo”
Sussurrò Babi al suo orecchio. Con il suo lavoro era la logora testimone delle controversie che affollano la mente dell’uomo, fino a ridurlo nulla più che un semi inerto mucchio di ossa e legamenti.
Lacrime che nemmeno lui si era accorto di produrre gli colavano lungo le guance seguendogli i contorni del viso fino a spiccare un volo dal mento al pavimento. Si chiese chi era il prete per decantare la bellezza d’animo e lodare la persona che giaceva immobile lì, al cospetto di tutti. Con che diritto , narrava quale splendida ragazza fosse senza nemmeno averla mai vista sorridere, senza aver udito la sua voce sottile e melodiosa. Come poteva dispiacersi dei mali che aveva subito? Vi era forse lui ad assisterla giorno dopo giorno? Era forse quel prete di paese ad ascoltare con angoscia all’ora del crepuscolo le descrizioni di Babi sulla sua salute , i verdetti dei medici che la piccola infermiera era riuscita a strappare dalla bocca di Giorgia?
No. Ovvio che no. Gli pareva dissacrasse , buttasse calunnie e riempisse di fango quel corpicino che sotto lo sguardo della ristretta cerchia di parenti e amici palesava la sua piccolezza, una fragilità capace di strappare al cuore un sussulto.
Dio. Quel qualcosa che (ne era certo) non esisteva e a cui tutti in quel momento pregavano perché si prendesse carico del suo spirito, e lo beasse nelle dolcezze del paradiso. L’anima, quella concezione forse solo creata dall’uomo che si ha di una persona una volta che esala l’ultimo respiro, per illudersi che questa non sia veramente terminata in un battito cardiaco ed un irrigidirsi di muscoli.
La immaginava come un filo ceruleo fluttuante, che piano si innalzava in un bagliore etereo al disopra dei loro capi chini in preghiera, per allontanarsi sempre più, fino a dissolversi nel cielo limpido di settembre. Dio se esisteva non era riuscito a preservarla da viva , perché mai avrebbe dovuto accoglierla da morta.
Non vi era mai stato nessun Dio a guidarla nelle decisioni, nessuno che l’assolvesse dall’unico peccato mai commesso: un’ingenua e spregiudicata fanciullezza che nonostante gli avvenimenti che irrotti nella vita la accompagnò dal primo all’ultimo minuto.
“Let us die young or let us live forever” Recitava il suo epitaffio.
La frase che compiuti diciotto anni era decisa ad incidersi indelebile con un tatuaggio nero e semplice attorno la caviglia.
“Lasciaci morire giovani o lasciaci vivere per sempre.”
“Sei morta giovane ma vivrai per sempre”.
Pensò, rabbrividendo a quella parola.
Morta. Un concetto tanto effimero quanto brutale nel suo suono , nel significato e in tutte le conseguenze che comporta.
“Non vi sarà mai scritta quella frase sulla tua pelle, non avrai mai diciotto anni. Per sempre piccola, per sempre una minuta immagine di te immobile in un vestito panna inamidato dentro una bara aperta.
Il mondo non vedrà mai lo sbocciare di un angelo, saresti stata una donna bellissima.”
Decise di non voler sostare ulteriormente in quella chiesa umida ed odorante di incenso, dalle luci fioche e velate che inebetivano i presenti.
Lanciò un ultimo sguardo sfuggevole alla bara, determinato ad annebbiare subito la memoria di quell’immagine cianotica.
Percorse la breve navata ed uscì senza inchinarsi all’altare, provocando qualche mormorio ed un’esitazione nel mezzo dell’omelia che il prete biascicava con poca enfasi.
Spinse il portone pesante premendo le dita sul legno scuro ed un’ondata di luce lo accecò stordendolo ulteriormente. Massaggiandosi le tempie trasse una boccata d’aria .
Limpida. Pulita. Settembrina.
Il calore del sole si era affievolito confronto i mesi estivi, ma ancora permetteva ai fiorentini di passeggiare senza giacca o sciarpe, calpestando foglie gialle e rossastre godendo degli ultimi cieli limpidi senza nuvole cariche di acquazzoni o venti gelidi e pungenti.
La stagione in cui, quasi due anni prima tra rami spogli e bacche rosse aveva incontrato Giorgia.
Il mese dell’amore, il mese delle castagne arrostite , il mese degli occhi verdi che si fondevano con il crepuscolo porpora che andava morendo dietro terrazzo Bardini.
L’odore di terra bagnata, le tracce d’erba a sporcare i jeans, piccoli frammenti di sterpaglia secca intrappolata casualmente tra i capelli.
Ancora un altro settembre, un settembre non più lo stesso.
Prese a tirarsi distrattamente un filo ribelle che pendeva dall’imbastitura del leggero pullover color cachi, lottando con le dita fino a che la sottile cordicella non cedette rovinando delicatamente sul piazzale.

Avvertiva la presenza di lei a qualche metro, raggomitolata infondo alla breve scalinata di ciottoli in terracotta con una Marlboro touch stretta tra l’indice e il medio, probabilmente sporca all’estremità del rosso acceso di un rossetto che suggeriva tutt’altro che castità.
Voce perennemente in falsetto e mimica facciale eloquente, così l’aveva immaginata.
Si chiese come potesse provare tanto disprezzo per una persona incrociata di sfuggitanon più di tre volte, come una sconosciuta sia potuta penetrare indirettamente così affondo nella sua esistenza fino a sconvolgerla e sradicarne le fondamenta più cementate. Quella ragazza da gli occhi di un turchese agghiacciante stava cercando sfuggevolmente i suoi, così simili, eppure colmi di colori d’emozioni differenti se pur affini in una inequivocabile gamma di tragicità comune.
Una desolata landa cristallina dilaniata da venti carichi d’odio, dall’odore di un’inesprimibile rammarico generato dall’ingannevole alleata solitudine.
Ecco Vicky. Un groviglio di capelli, ossa e gambe.
Una mappa molto vaga di emozioni animava pallidamente quel viso efebico ognuna delle rare volte che i loro cammini si erano sovrapposti, quasi che la personalità della giovane fosse sedata da un fardello maggiore che costantemente incombeva su di lei. Così si era disegnata Vicky nella sua mente, come se vi fosse una spada di Damocle tanto indicibile quanto impalpabile, celata da una cortina d’odio che si materializzava nello sguardo d’ella ogni qual volta qualcuno superasse la linea oltre il quale iniziava una creatura troppo deforme e pusillanime per mostrarsi al mondo.
Era convinto della presenza di un grosso macigno dietro lo sguardo truce e il fare schietto che la mora riservava ad ogni essere umano (in particolare a lui); ma d’altronde quel genere di persone, come lei, come Giorgia, era quasi scontato avessero una parte taciuta che tormentava loro continuamente, sino all’ossessione. Quello che Giorgia diceva si era rivelato superfluo in confronto al non detto, che lui non era riuscito a cogliere, che aveva sfiorato ma di cui aveva preferito ignorare l’esistenza. Un nodo si strinse alla gola, uno di quelli capaci di provocare vertigini improvvise e far salire lacrime al solo pensiero di come le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. Era la storia della sua vita, anzi, la storia dell’umanità: il rimpianto di come sarebbe potuto essere altrimenti. Viviamo ponendoci aspettative spesso troppo elevate , e qual’ora le manchiamo una piccola parte di noi continua ad inacidirsi al pensiero di non aver tagliato quel traguardo, mettendo in secondo piano ciò che la vita comunque è riuscita a donarci, disprezzando il profumo di una esistenza ugualmente rosea.

Sapeva di non risiedere tra le grazie della fanciulla che ora accendeva un’altra sigaretta con il mozzicone della prima. D’altronde il sentimento era reciproco.
L’uno rifletteva la colpa strisciante dell’altra, sempre che di colpa da attribuire si volesse parlare. Ammesso che vi fosse una vera colpa e quindi un imputato da giustiziare. L’uno il giudice accusatore dell’altro ma arbitrario verso se stesso, deciso a non assolvere ma a condannare. Il perdono non esiste. È una dimensione beffarda ed ipocrita nel quale ci si rifugia quando le possibilità di fare retromarcia sono nulle. Una clausola morale capace di assolvere verbalmente, ma un patetico edulcorante di una colpa viva e vegeta. I vigliacchi si rifugiano nel perdono altrui, per non sentire ripetere da qualcun altro la costante postilla di aver torto, e mettere così a tacere la propria coscienza sporca.
Entrambi estranei ma accumunati da un filo cremisi capace di legarli indissolubilmente. Quel filo, l’allegorica rappresentazione di un evento che per sempre cambierà le vite dell’uno e dell’altra, che sordido si presenterà a bussare ai ricordi una notte di metà novembre, o sarà capace di far tremare le ginocchia ogni qual volta la mente sfiorerà l’immagine di quel volto candido : di Giorgia.


  
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