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Autore: Exelle    06/01/2011    4 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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Capitolo Tredici
Mundungus Spiato


L’inizio del nuovo giorno fu, per Mungundus Fletcher, ben migliore del precedente.
Anziché svegliarsi nei puzzolenti Docks di Londra con le ossa doloranti, si svegliò nel suo puzzolente covo di Notturn Alley,
sopra la friggitoria Frogger&Worms- Specialità per palati disgustosamente forti.
Per un essere umano normale, la sua sistemazione sarebbe rientrata nella categoria stanza immonda o anticamera dell’inferno. Ma per Mundungus Fletcher, uomo dalle improbabili capacità, quella stanzetta dalle pareti scrostate, raggiungibile solo con una stretta scaletta esterna di ferro e ruggine, era semplicemente casa.
Almeno finché uno dei suoi creditori o uno di quelli che aveva truffato nel corso della sua furfante carriera, non si fossero presentati alla porta, minacciando di trascinarlo in gabbia o peggio.
Si rotolò ancora un po’ nel letto dalle lenzuola grigio topo. Odoravano di polvere e umidità.
Si appuntò mentalmente di cercare qualche incantesimo detergente, non tanto per la pulizia, ma per evitare che tra quelle federe si creasse l’ecosistema perfetto per qualche famigliola di scorpioni.
Dopo essersi stropicciato meticolosamente gli occhi, Dung contemplò a lungo il soffitto scarno, studiando una per una le macchie gialline che lo costellavano. Quale di quelle infide escrescenze aveva deciso di cominciare a far sgocciolare acqua nella sua  dimora?
Aveva appena individuato la colpevole che una tosse catarrosa cominciò a scuotergli il petto. Cercò di soffocare i versi battendosi un pugno sulla cassa toracica, finché non riuscì a tornare alla respirazione normale.
Maledetta umidità, maledetta vita sregolata e maledetto tabacco.
Per scaricare il nervosismo, caricò la pipa, l’accese con la bacchetta e cominciò a spandere anelli verdognoli nell’aria. Fuori dalla finestra o meglio, dalla patina di polvere e unto che la copriva, si vedevano solo le facciate delle case davanti, grigie e sporche. Alcune grondaie prive di vari sostegni, ondeggiavano pigre nel vento.
Difficile farsi un’idea di come fosse il tempo fuori guardando da lì.
Stiracchiandosi e imprecando, scalciò via le coperte. Con qualche contorcimento, si ritrovò in piedi sul pavimento di assi gibbose. Depose la pipa su uno dei due comò invasi da posaceneri, candele tozze, documenti falsi, insetti pigiati in vasi, passaporti e pergamene consunti, gioielli pacchiani, libri contabili fasulli e svariate tipologie di oggetti di dubbia provenienza.
Su tutti, torreggiava una confezione di plastica verde acido. Un paio di opere prima aveva contenuto una deliziosa minestra di cavolo che Dung aveva consumato nella solitudine della sua stanza, mentre compilava una lista mentale di cose da fare. Non era stato granché corretto, nei confronti di Arabella, mentirle su un ipotetico viaggio per avere della minestra, ma Dung era ben lungi dal porsi problemi morali di qualche tipo.
Doveva portare a termine il maledetto incarico di Silente e poi avrebbe potuto riprendere a farsi i fattacci suoi. Come se adesso non lo facessi, sogghignò Dung brevemente e guardandosi attorno furtivo. Albus forse lo stava ancora controllando…
Con muggiti che non sarebbero stati fuori posto in una stalla, s’infilò il pastrano abbandonato su una delle sedie con le gambe sbilenche e guanti dalle dita tagliate.
Recuperò la pipa infilandosela nel pastrano dopo averla spenta con uno sputo. Poi raccolse e indossò dei consunti stivaletti a punta e se ne uscì nella gelida mattina, lo stomaco gorgogliante.
Chiuse la sottile porta finestra del suo alloggio  con un doppio giro di chiave, saggiando più volte la maniglia di scarso ottone. Era tutt’altro che affidabile, quella porta.
Poco importava, sarebbe tornato nel giro di un attimo.
Per maggior sicurezza, la picchiettò la porta con la bacchetta, invocando un Incanto Sensore.
Chi l’avesse aperta, avrebbe avuto una bella sorpresa targata Fletcher.
Scese la scaletta cigolante, tenendosi il più possibile vicino al muro di mattoni. Gli era già capitato di scivolare per quell’infida struttura che somigliava più a una barzelletta di scala, piuttosto che all’accesso marmoreo all’attico, descritto dal tizio che gli aveva affittato quel cesso di stanza.
Quando giunse nel cortiletto interno dietro la friggitoria, trattenne il solito conato di vomito.
A quanto pareva, con l’inverno e il Natale fra poco più di un mese, avevano incrementato il numero di sporcizia e residui nei grandi bidoni ammaccati. La neve sporca di rossastro e le ossa appartenute a creature non identificabili sparse sul selciato, la dicevano lunga su che cosa si cucinasse in quel buco d’inferno.
E non avevano nemmeno acceso le friggitrici e il forno. Brr…
Mundungus si affrettò ad uscire da una delle porte che davano sui vicoli, richiudendola con l’abituale catenaccio. L’odore di morte e frittura scadente, fu rimpiazzato dal sentore della strada, umida e sporca. Difficile dire quale fosse il peggiore, ma Dung era un veterano per certe cose.
Mani in tasca e sguardo basso, scese per il vicolo dove parecchi ciottoli erano stati scalzati e mai sostituiti. Passò sotto le varie gallerie che si creavano quando le case grigie si univano in caseggiati unici sopra le strade, evitando di esporsi troppo alla vista dei malconci e divelti balconi di legno.
Non incontrò quasi nessuno. Dung ebbe il sospetto che fosse mattina presto.
La sua intuizione fu certa, quando vide di essere l’unico avventore alla tavola calda di Boff ‘Ossoduro’ Grantson, che se stava dietro al bancone, a pulire con uno straccio macchiato il ruvido piano di lavoro.
Il locale, a ben guardare, era oltre gli standard del quartiere e quelli a cui era abituato Dung.
Era quasi un miraggio fatto  di pulizia, ordine e calore, con tavolini dalle tovaglie appena lavate e sedie non spaiate.
A parte la polvere che il proprietario aveva il vizio di spazzare per terra, per poi accumularla negli angoli non proprio nascosti e il lampadario storto, sembrava quasi di essere in un posto per bene.
Dung si avvicinò con passo flemmatico verso il bancone, su cui batté le nocche segnate. Era come sempre abbagliato dalle piastrelle rosse e bianche che decoravano due delle pareti, su cui correvano mensole cariche di bottiglie di varia provenienza per poi diramarsi sul soffitto come passerelle.
“Desidera?” Boff si era avvicinato, abbandonando la sua attività di pulitore, anche se lo straccio continuò a lavorare da solo, lucidando alla bell‘meglio il banco.
Il gestore del locale, rifletté Dung, non rendeva la minima giustizia al suo soprannome. Non era affatto ossuto e non appariva certo un duro. Non era grasso, ma la pelle flaccida che gli pendeva dal viso, dal collo e dalle braccia, dava l’impressione di un poveretto sottoposto a una dieta rapida che l‘aveva sì svuotato del grasso, ma lasciandogli in regalo una coperta di carne pieghettata.
“Eddai Boff, sono dieci anni che vengo qua e hai il coraggio di darmi del lei?”
Boff lo guardò con gli occhi cisposi ridotti a fessure, sotto alle pieghe della fronte.
“Sei tu, Fletcher?”
Dung sbuffò. “Vengo tutte le mattine Boff…”
“Non è affatto vero. Sono un paio di giorni che il tuo brutto deretano non entra nel mio locale. Vuoi mandarmi in rovina?” replicò acidamente l’altro.
Mundungus si arrampicò con vari sforzi su uno degli sgabelli di ferro e pelle logora.
“Ho avuto da fare.”
“Zerkinski?” domandò l’uomo, cominciando a rovistare fra le bottiglie alle sue spalle.
Dung sentì la pelle del viso diventare bollente. “Chi…?”
“Il solito giro di chiacchiere” disse l’uomo schiaffando un basso bicchiere e una bottiglia panciuta di liquore al caffè e gin davanti al suo unico cliente, all’improvviso fortemente in imbarazzo.
“Dice che ti ha ammazzato. Bruciato assieme a quella sua chiatta, la Libano Flora o quel diavolo che è.”
Lieben Fraulein” gorgogliò Dung. “E quindi?”
“Quindi ti si credeva morto, Fletcher. Mi era spiaciuto saperlo, ormai eri solo tu che facevi girare l’economia di questo posto.” Boff guardò con evidente orgoglio le pareti che li circondavano. Forse si aspettava un complimento che il malconcio ladruncolo non fece. Dung si versò una generosa dose di liquore bruno nel bicchiere. La mano gli tremava e ne rovesciò un po’ sul bancone.
Lo straccio accorse a pulire in fretta e furia.
“Però sono vivo, no? Boff?”
Ossoduro Boff si strinse nelle spalle. “Appunto. Buon per te Fletcher, lo dicevo che quel ciccione mentiva.”
Boff sembrava sghignazzare sotto i baffi, ma a Dung non sembrò molto convinto dalla spiegazione. Era difficile stabilirlo con tutta quella pelle cascante che aveva sul viso. Mundungus riflettè.
Se Silente aveva trovato Zerkinski -e l’aveva trovato, recuperando i macilenti denti di Dung-, Ossoduro non ne era ancora a conoscenza. Quindi, se le cose stavano così, la notizia non aveva ancora raggiunto nessun orecchio indiscreto.
Mundungus non sapeva se esserne felice o meno. Al momento, faceva la figura del derelitto maltrattato ma se si veniva a sapere la verità, ne sarebbe uscito con un’immagine ben peggiore; quella di uno che non sapeva sbrigarsela a meno che, un ultracentenario infiocchettato non venisse a rendergli giustizia.
Al diavolo la dignità, pensò Dung ingollando un sorso del liquore dolciastro, me la  sono giocata quando ho smesso di lavarmi una volta al mese.
Ossoduro sembrò essere della stessa opinione. Con tono canzonatorio e fintamente ammirato, in modo tanto sottile che un ascoltatore casuale non ci avrebbe fatto caso, continuò a parlare.
“Come ha fatto a metterti K.O.? Se sei vivo, non credo dovrei nemmeno credergli a quel figlio di ratto!”
Dung affondò il muso nel bicchiere, vergognoso.
“Un duro scontro” borbottò. Il vetro del bicchiere si appannò.
Il locandiere lo guardò in tralice. “Ha dato davvero fuoco alla barca con te sopra? Avrei scommesso tre galeoni con Curtis Bazzico che non era vero. A quanto sento da te ho fatto bene…” disse lentamente, soppesando la sua eventuale complicazione in una scommessa di quel tipo.
Dung si versò un altro bicchiere, prima di riprendere il discorso. Maledetto Zerkinski. Lo avrebbe…
Lo avrebbe fatto ammazzare da qualcuno. Che diavolo!
Quel cumulo di lardo avrebbe dovuto comprarsi dieci pancere Maga Snella pur di rientrare nei suoi abitini da cocktail. La vendetta che Mundungus avrebbe architettato sarebbe stata implacabile.
“Che fine ha fatto la gente? Thom Nocker? Jimmy Sverso? ” disse Dung guardandosi attorno nel locale vuoto. “E Albert Squirrel? Avevo bisogno di chiederci due cosette…”
Gli occhi di Ossoduro divennero quasi lucidi. “La clientela, dici? Puff, scomparsa Fletcher. Brutto momento per i locali che servono toast e panini oltre all’alcool.”
Lo sguardo di Boff schizzò in varie direzioni, le pupille come palline da flipper. Poi si chinò verso Mundungus con fare cospiratore: “Si stanno muovendo!” biascicò.
“I clienti? Dove vanno?” domandò Dung con la bocca semiaperta in uno sbadiglio, fingendosi poco interessato. Mai far vedere che una notizia ti incuriosisce. La curiosità porta alla tomba.
“Sciocco!” ringhiò l’altro, infervorato. La pelle del suo viso tremolò. “Non la leggi la Gazzetta? Non vedi cosa si muove per Notturn Alley?”
Dung, che la sapeva abbastanza lunga in quel campo, assunse la sua miglior espressione tontoleggiante.
“Il prezzo del pelo di Yut è sceso?”
Boff scosse la testa. “Idiota. Sta succedendo di nuovo. La calma, il discredito. Attaccano adesso quello svitato di Albus Silente, anche se si sa da una vita che è tocco. E quell’Henry Potter… cosa ti devo dire di più, Dung? Tu ci vivi a Nocturn Alley, come me, quindi sai che si dice in giro. Ultimamente si sono viste un po’ le stesse facce…”
“Mah. La tua solita paranoia” disse Dung, la faccia di bronzo e le viscere strette.
Boff scosse il capo, per nulla convinto. “I cari maghetti che bazzicano per Diagon Alley e per le comunità babbane possono giocare a quelli con l’affettato sugli occhi, ma qui la storia è diversa, Fletcher. Noi siamo al confine con la metà oscura…” sussurrò in un tono che voleva essere convincente. Dung sentì la saliva fargli su e giù per la trachea. Se solo Ossoduro Boff fosse venuto a sapere quanto lui era a conoscenza di quella metà oscura e di quelli che la combattevano, l’avrebbe preso a calci fino allo Yorkshire.
“Non...”
“E non puoi immaginare chi ieri è entrato nel locale! Proprio qui! Yaxley!”
“Chi?” mormorò Dung, fingendosi interessato ad un ennesimo sorso di liquore.
“Non fare il tonto, Dung. Sai chi è.”
“Come no. E cosa voleva questo Yankee?” domandò nella sua miglior voce indifferente.
Boff fece spallucce. “Mi ha chiesto di usare il bagno. Lo si è visto spesso da queste parti, ultimamente. Come ti dicevo, qualcosa si muove…”
Mundungus scese con un balzo dallo sgabello, gettando tre falci sporche sul bancone appena pulito.
“Prega che siano i tuoi affari a muoversi, non qualche sfigato nel bagno.”
Boff raccolse il denaro, arcigno e incattivito. Odiava farsi dare del paranoico.
Dung si diede una scrollata. Si sentiva tutto indolenzito e senza notizie particolarmente interessanti sul groppone. A parte il fatto che un ex-Mangiamorte usava il bagno della sua tavola calda preferita.
Tentò un’ultima domanda.  “E comunque, non sai dove possa essere n’dato Al Squirrel?”
Ossoduro Boff scosse vigorosamente il capo. “Non lo troverai, Fletcher. Si nasconde da un pezzo, quelle fiale di Giugurta che gli ha rifilato Greg Groggle l’hanno cacciato nei pasticci con il Dipartimento anti-Truffa…” Ossoduro fece un sospiro sconsolato. Sembrava sinceramente dispiaciuto per la sorte di Squirrel.  
“Il Ministero ha perquisito il suo nascondiglio in Marble Grave Street” aggiunse, tentando di sollevare le sopracciglia in mezzo al flaccide. “Ma dubito che ci stia ancora qualcosa là.”
“Ma tu sai dov’è Squirrel?” ripetè Dung cercando di essere paziente. Ossoduro non lo fu più.
“Cos’è vuoi rifilargli qualcosa? Comprare cacca di Drago? Non lo so dov’è! Nel mio pub non c‘è…”
Concluse, carico di tristezza e con uno sguardo offeso. Mundungus annuì, sibilando delle scuse fiacche.
“Scusami tu Fletcher. Ma non è un gran periodo…”
Dung fece ruotare il bicchiere, il fondo scuro roteò all’interno. “Già, nemmeno per me. Missioni del cavolo!”
Ossoduro gli scoccò un'occhiata penetrante e sospettosa insieme. “Missioni? Che tipo di missioni?”
Mundungus alzò gli occhi iniettati di sangue, correggendosi velocemente.
“Commissioni, Boff. Sai, clienti, ordini… La solita roba” borbottò a sua difesa. Ci mancava solo che il  barista di fiducia dei tre quarti della bassa criminalità di Londra, venisse a sapere che il suo miglior cliente -quando non si faceva fare credito- fosse un membro dell’Ordine della Fenice.
Alla fine, Boff sembrò convinto e cessò di studiarlo. Dung, più rilassato, si appoggiò al bancone, indicando la vetrinetta dei toast e delle torte. Tanto valeva mangiare qualcosa.
“Sganciami anche qualche fetta di butter bread, allora. Non ho ancora fatto colazione.”
Controvoglia, il locandiere si lasciò scivolare accanto all’espositore e si mise a infilare brutalmente alcune fette unte e croccanti in un sacchetto color senape.
Dung, nel vederlo così scontento, commise un’imprudenza.
“Sta attento” disse Dung con un sorrisaccio che voleva essere confidenziale.
“Tieniti fuori dai pasticci. C’è davvero qualcosa là fuori.”
Boff annuì lentamente, improvvisamente guardingo, tornando a recuperare il suo straccio. Mundungus uscì in fretta. Gli spiaceva comportarsi in quel modo, ma non c’era altro modo. Era un bene che la gente cominciasse a capire, ma quei toni cospiratori e spaventati non aiutavano nessuno. Di solito pensava a salvare sé stesso, ma per il gestore della sua tavola calda preferita, poteva fare un’eccezione.
Tornò a casa a passo svelto. Dung aveva la mente di un commerciante, spesso intorpidita dall’alcool, ma questo non significava  che non fosse in grado di comprendere quali fossero le conseguenze della comparizione di un ex-Mangiamorte (Probabilmente tornato anche in carica) a Notturn Alley.
Presto avrebbero cominciato a farsi vedere anche gli altri. Per reclutare o per uccidere, o entrambe le cose.
Trattene uno sbuffo di disappunto ed evitò di incrociare lo sguardo di una megera, accasciata sotto un androne. Non aveva avuto notizie utili per ciò che aveva chiesto Silente, ma aveva avuto una dritta per l’Ordine. Almeno quello, in quella giornata grama!
Tenendo il sacchetto del pane sotto al braccio, s’affrettò a salire la scaletta traballante. Aveva così fame, che quando si precipitò nella stanza, non si accorse di una cosa fondamentale.
Era riuscito ad entrare in casa senza chiave e senza dover sbloccare l’incantesimo di protezione.
Maledizione.
Dung non ci mise molto a fare mente locale. Aveva una buona memoria - che lo abbandonava solo dopo due dozzine di bicchieri-, con la quale catalogava e teneva il conto delle numerose trattative in sospeso, concluse o che aveva intenzione di aprire. Tuttavia, impiegò un’ ora buona per controllare a fondo nei due armadi sghembi, nei comò, sotto al letto e sotto alle assi del pavimento. Smontò con foga crescente lo specchio sopra il lavandino, fece sollevare la vasca con un Wingardium leviosa e perlustrò la botola sul soffitto.
Anche dietro il finto scarico del water. Nulla, nessuno sembra aver messo mano fra le sue cose.
Si sedette sul letto, mangiucchiando il pane e ungendosi le dita che pulì meccanicamente nelle lenzuola.
Non aveva idea di chi potesse venire a rubare oggetti scadenti da ricettatori di terza mano come lui, ecco la verità. Chiunque potesse farlo -chiunque fosse così sfigato e bislacco- sarebbe finito stordito nel giro di tre secondi, giù nel cortiletto, tra ossa e marciume vario. Sarebbe rimasto lì il tempo giusto perché Dung lo trovasse e gli facesse vedere che cosa meritava un ladro che rubava ad un altro ladro. Non che Mundungus Fletcher non lo facesse, ma aveva almeno la dignità di non farsi quasi mai cogliere sul fatto.
Ma qui, riflettè Dung con lo sguardo che vagava per la umida e scarna stanza, si trattava senza dubbio di un professionista.
Di qualcuno che, con tutta probabilità, si era limitato a ispezionare e a controllare. A raccogliere informazioni.
Per accertarsene, Mundungus estrasse la bacchetta e con un pigro svolazzo, la agitò.
Intrusae Revelio!”
Fu come se qualcuno avesse steso una patina blu su ogni cosa e superficie della stanza. Un blu tanto intenso che si riverberava sul viso affranto di Dung che, grazie al suo incantesimo, riuscì a vedere come si era mosso l’indesiderato ospite. Era uno solo, quello era certo. Una sola sequenza di passi che entrava e cominciava ad aggirarsi nella stanza. Le macchie magenta sul pavimento non mentivano.
Con il lento scivolare dei secondi, Dung osservò le altre macchie rosso-viola sbocciare come fiori un po’ ovunque, dappertutto. Alcune si vaporizzarono nell’aria, segno di un qualche rimasuglio di magia. Poi si materializzarono sulle ante degli armadi, sui muri, sull’intelaiatura delle finestre, nei cassetti. I libri si aprirono e vennero sfogliati da una mano invisibile che li macchiava di rosso.
Le sue cose  vennero spostate, studiate e poi rimesse al loro posto. I passi magenta si diressero al minuscolo bagno e altre macchie comparirono sul lavandino, lo specchio e persino il nascondiglio nel water. Al diavolo l’ingegno!
Sempre più innervosito, Dung vide i passi che aveva percorso l’intruso farsi più vicino al suo letto, vicino alla testata. Proprio dove era seduto lui…
Finitum Incantatem!” La patina blu e le macchie magenta sparirono. Gli oggetti tornarono perfettamente immobili, esattamente come quando Dung era entrato.
Con gli occhi iniettati di sangue e cattiveria, Mundungus Fletcher cominciò a riflettere.
Se non era stato un ladruncolo, non erano nemmeno stati quelli del Dipartimento Anti-Raggiri del Ministero. Data la tontolaggine di entrambi, Dung aveva il sospetto che, se fossero stati loro, se li sarebbe ritrovati giù in cortile grazie al Sensore. Chiunque era entrato era stato fin troppo accorto, talmente accorto che era riuscito a entrare, cercare e… Farsi beccare.
Le opzioni, valutò Mundungus crogiolandosi nel suo intuito intuitivo, si potevano ricondurre a due soli casi.
Primo. Era entrato un professionista, aveva frugato la stanza ma, non trovando ciò che cercava, si era allontanato, dimenticandosi di cancellare tutte le sue tracce e riattivare il Sensore, rimettendo a posto le cose ma non le sue tracce, troppo distratto dall‘insuccesso.
Secondo. Era entrato un professionista, aveva fatto tutte le cose descritte nel punto primo, ma si era limitato a riordinare, lasciando intenzionalmente tracce trovabili da un Incanto di Rivelazione e del fatto che fosse entrato nella sua tana. Probabilmente auspicando che in quel gesto, Mundungus Fletcher ci leggesse qualcosa di itimidatorio.
Mundungus digrignò i denti. Chi poteva avere interesse a introdursi in casa sua -nella sua stanza in affitto-?
La lista non era breve. Creditori, Auror, Maghi Oscuri, ladri invidiosi, la sua ex-moglie, gente derubata, elfi domestici, streghe mollate all’altare, Troll…
Si accese la pipa, pensando intensamente. L’effetto dei due bicchieri da Boff Ossoduro era svanito, e ora si ritrovava, probabilmente controllato, sudicio nella sua sudicia stanza, senza un goccio d’alcool da mettere nelle budella. Non sapeva nemmeno che diavolo d’ora era.
Tra uno sbuffo di fumo rancido e l’altro, rimpianse i bei tempi della gioventù in cui non c’erano missioni, Ordini e le richieste di un Preside matto a pendergli sul collo.
Solo il caro, nostalgico taccheggio. Quanto avrebbe voluto dire a Silente ...
“Coff! Coff! Eeehh.. Coff!” Mundungus si agitò sul letto, preda di una tosse convulsa. La sua testa aveva appena fatto un ragionamento da un milione di Galeoni, per Merlino smutandato!
Non aveva guardato nell’unico posto importante. Quello dove teneva gli ordini e le commissioni per oggetti seri e di valore, mica quelle porcate di infima e sconosciuta qualità che smerciava di solito.
Pensare a Silente gli aveva ricordato del foglietto su cui aveva scritto la sua richiesta, durante la sera passata tra scacchi e vomitevole liquore caraibico.
Mundungus si passò una mano tra i capelli incrostati. Da quando Silente si era fatto vivo da Arabella, si era concentrato -finora nel vero senso della parola, dato che perlopiù aveva pensato alla missione, non lavorato- sulla missione affidatagli. Dopotutto, il vecchio gli aveva fatto ridare i suoi denti e con tutta probabilità, spedito Zerkinski in qualche comunità dimagrante in Zimbaue.
 Dung scosse il capo, infastidito dalle sue fantasticherie. Vero, Silente forse sapeva cosa stava facendo e lui, per ora, non aveva fatto ancora nulla di decisivo, ma dopo ore di elucubrazioni, era giunto alla soluzione. Contattare Albert Squirrel. Ottenere informazioni.
Questo era stato lo scopo di andare da Boff Ossoduro, oltre che farsi del pane fritto e scroccargli del liquore a buon prezzo. Solo che adesso si ritrovava con un intruso in casa, che aveva frugato dappertutto e che probabilmente aveva anche guardato nell’unico posto importante. Il posto che Mundungs, nella sua bieca arroganza, non aveva nemmeno controllato.
Con il cuore in gola, la pipa pendente all’angolo della bocca, Dung si girò sul letto, fissando i vecchi tubi di ferro che componevano la testata del suo letto cigolante.
Pregò che si stesse sbagliando. Che stupido era stato a bloccare l’Intrusae Revelio a due passi dal posto più importante da controllare!
Si sputò sui palmi delle mani e cominciò a svitare uno dei tubi verticali della testata. Quel maledetto era avvitato così stretto che Dung dovette impegnare varie imprecazioni e gocce di sudore prima di costringerlo a svitarsi con lunghi cigolii.
Con il viso color pomodoro per la faticaccia, Dung sollevò il pezzo di ferro ad altezza occhio.
L’asta di ferro tubolare, con più di cinquanta centimetri di lunghezza per due di diametro e l’interno cavo, era perfetto per nascondere i biglietti delle commissioni per oggetti speciali e non proprio legali. Non il posto più sicuro in assoluto, ma abbastanza affidabile per un ladro del calibro di Mundungus Fletcher.
Solo che, come l’occhio strabuzzato di Dung poté constatare, l’interno del tubo metallico era perfettamente, sorprendentemente vuoto.

 

***


‘Luna, mia diletta figlia. Sorridi!’
Luna sorrise. Riprese a leggere la lettera, masticando rumorosamente i suoi cereali con frutta secca.

Qui nevica! Fammi sapere quando arrivi.
                                                    Papà.


P.S. Ho allegato una foto del Cretulo Gracchiante, il caro Fox Cleaver ce la manda dall’Alabama. Potremo scrivere qualche commento su di lui non appena torni, cara!
P.S.S. Intendo sul Cretulo, non Fox Cleaver. Perdona il mio errore!
P.S.S.S. Come padre sono un disastro, vero? Un abbraccio, mia Luna.’


Luna ingoiò i suoi cereali, le guance arrossate e le palpebre un po‘ abbassate per il sonno. Suo padre si era di nuovo confuso con la partenza da Hogwarts per le vacanze.
Al povero Xenophilius Lovegood bastava vedere un po’ di neve sul vialetto per gridare al miracolo e stare a guardare il cielo in attesa di avvistare Babbo Natale, aspettando di vedere Luna sbucare in fondo alla strada, a fargli ciao ciao con la mano.
Luna rilesse la lettera altre tre volte, continuando a pescare dalla sua tazza quantità generose di latte al cacao e cereali. Non vedeva l’ora di tornare a casa e di starsene seduta al suo tavolo in cucina o vicino al ruscello a cercare Plimpi. O a dipingere.
Suo padre era sicuramente dimagrito. Lui e Luna erano due cuochi pessimi in due, figurarsi se abbandonati a sé stessi. 
Luna socchiuse gli occhi e immaginò i giorni che le mancavano. Meno di tre settimane.
Non riusciva a stabilire se fosse un tempo più o meno lungo. E calcolarlo in base ad un orologio, era stupido. Luna non credeva nei meccanismi, nelle meridiane o nel passare delle ore. Per lei erano solo una convenzione. Il tempo, nella percezione di Luna Lovegood, era fatto di momenti, quelli che restano e quelli che dimentichiamo. Calcolare tali frammenti era inutile e pretendere di dividere le giornate per dargli un senso, rientravano in uno schema folle. Almeno per lei.
Perché decidere di considerare ore che sarebbero presto finite in un cassetto, dimenticate e abbandonate?
Luna si passò una mano sulle labbra sottili, come prevenzione anti resti colazione. Prese la lettera, la piegò con cura e la infilò nella borsa. I suoi occhi sporgenti e sgraziati vagarono sulla tavola, fino a trovare la busta, schiacciata sotto la caraffa del latte. La prese e sbirciò all’interno. Niente foto.
Luna Lovegood sorrise divertita. Suo padre si era dimenticato di metterla nella busta.
La cosa non la infastidì, anzi, aumentò il suo interesse verso il misterioso Cretulo.
Si guardò in giro. Gli occhi roteanti indugiarono un po’ sulla tavola degli insegnanti, ma -Luna provò una strana sensazione, curiosità mista a dispiacere- nessun Severus Piton con sguardo arcigno, seduto lassù.
Tanto per ricordare a sé stessa quello che era successo la sera prima, si frugò nella borsa. Il sacchetto di velluto con dentro i suoi Spettrocoli e le sue cose, bigiotteria più che altro, erano ancora lì.
Ringraziò mentalmente Severus Piton per averli prontamente ripresi dalla stregaccia rospo.
Era stato un gesto gentile.
Il fatto stesso che si fosse preoccupato per quelle che -Luna ne era sicura- riteneva sciocchezze, lo metteva in una luce diversa agli occhi della ragazzina.
Era indecisa se rimanere in Sala Grande ad aspettare l’immancabile secondo gufo, - Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima che suo padre si sarebbe dimenticato qualcosa-, ma l’arrivo di una chiassosa compagnia di Corvonero, tra cui quello strano Giggins e il suo sospetto ferro tra i denti - Chiapparecchio, l‘aveva chiamato- decise per lei.
Prese ancora un po’ di tempo, raccogliendo i granelli di zucchero sparsi vicino alla sua tazza e guardando il soffitto dalle tinte grigie.
Nuvole, nuvole e ancora nuvole.
Niente neve dal cielo, sospirò Luna un po’ delusa. S’infilò la borsa a tracolla, si aggiustò la cravatta blu e bronzo, un po’ più lunga del normale e con un nodo a fiocco tutto storto,
avviandosi all’uscita.
Il suo posto, circondato dal vuoto più assoluto, fu occupato in fretta da un paio di fantasmi sibilanti, insospettiti da quella ragazzina dagli occhi vacui che mangiava sempre da sola.
Luna Lovegood cercò di camminare a passo svelto, senza farsi notare troppo. Compito facile, dato che quella mattina solo metà scuola sembrava essersi interessata a scendere in Sala Grande.
A dir la verità, erano un paio di mattine che la situazione era quella, ma Luna aveva cose ben più importanti che le svolazzavano per la testa.
Luna accennò un distratto saluto a Neville Paciock, al piatto e alla pianta dai molti occhi che portava in mano, quando lo incontrò vicino al tavolo di Grifondoro, in attesa di trovare un posto dove sedersi a mangiare le sue uova strapazzate. Neville ricambiò con un sorriso timido e un po’ spaventato, domandandosi perché Luna si fosse infilata una fetta di pane tostato nel taschino della divisa.
Luna, incurante del disappunto di Neville, tirò dritta verso le scale, cominciando a salire gli scalini due a due, cercando di tenere il viso basso e il respiro inudibile. Doveva diventare un tutt’uno con il muro e rendersi invisibile perché, quella mattina, Luna Lovegood non sarebbe andata a lezione.
L’aveva deciso la sera prima o meglio, durante la notte quando, di ritorno dall’ufficio dallo strano professor Piton, aveva cominciato a riflettere sulla ragazza dai capelli rossi.
Luna Lovegood provava una stravagante sensazione.
Aveva visto quella ragazza vagare muta a fianco di Severus Piton, l’aveva vista cadere dalla torre dell’orologio e l’aveva vista prendere il posto di Ginny, proprio accanto a lei. E, tutte e tre le volte, l’aveva vista sparire nell’aria, lasciando per ultimo lo scintillio dei suo occhi smeraldo.
Qualcosa che Luna sapeva di conoscere, ma non di collocare.
Luna sospirò, rallentando appena il passo. Quegli occhi, troppo verdi e troppo rabbiosi per essere scordati facilmente, avevano cominciato ad apparire nei suoi sogni.
Si chiese se apparissero anche nei sogni di Severus Piton.
“… Ti dico solo che non è giusto, Harry. So che Angelina ce l’ha con te ma…”
“La Umbridge non cambierà idea. Squalifica a vita.”
“Prendi il mio posto, allora. Te lo cedo volentieri!”
“Ron, te lo già detto, se te ne vai anche tu rimarranno tre giocatori in squadra…”
Luna strabuzzò gli occhi sorpresa. Fece per girarsi e scendere la scala, ma quella si era ormai staccata dal pianerottolo e si stava girand,
proprio verso quello dove Harry Potter e il suo amico Ronald Weasley attendevano.
Luna si sentì improvvisamente avvampare. O meglio, ne provò la sensazione, dato che era talmente pallida che la facoltà di arrossire le era preclusa. Doveva smetterla, stava diventando imbarazzante.
La scala si assestò con uno scossone. Luna sentì i passi dei due avvicinarsi, così come le loro voci.
“Ciao Luna.”
“Ciao, Harry Potter. Ciao amico di Harry Potter” mormorò Luna in tono basso ed educato, fissando un quadro dove alcuni geografi, affollati attorno ad un mappamondo cubico,
cercavano di usare i rispettivi compassi per cavarsi gli occhi a vicenda.
Luna rimase a scrutarli per un po’, affascinata dalle loro improbabili gorgiere. Solo quando fece per salire la scala, si accorse che Harry e il suo amico rosso erano ancora lì.
“Che c’è?” domandò un po’ troppo seccamente, aggiustandosi nervosamente la tracolla.
Cercava di apparire seccata, ma ai due sembrò solo in preda al prurito. “Che c’è?” ripeté in tono più cordiale.
Gli occhi di Harry s’illuminarono per la sorpresa. Da quando aveva cominciato a parlarci, all’inizio dell’anno, aveva notato come Luna passasse con palese noncuranza dall’irritazione ad una gioiosa indifferenza, dalla serietà all‘assurdo. Si domandò, confuso, se fosse prerogativa delle ragazze in generale o solo di quella Corvonero davanti a lui. Era un interrogativo così importante che quasi dimenticò la domanda che stava per farle.  
“Niente, cioè, scusami …” Harry prese fiato, accigliandosi. “Volevo domandarti se tornerai a casa per le vacanze di Natale.”
Luna aggrottò le sopracciglia inesistenti. La cortesia di Harry Potter il-Ragazzo-che-è-Sopravvissuto le pareva infinita.
“Direi di sì, Harry Potter. È un test per l‘E.S.? Ci darai dei compiti?” replicò a sua volta Luna, con un sorriso gentile.
Ron trattenne uno sbuffo divertito, poi diede una pacca sulla spalla ossuta di Harry facendolo trasalire. Gli occhiali di Harry scivolarono un po’ lungo il naso e lui se li rimise a posto con il palmo, lanciandogli un‘occhiata storta e nervosa. Molto nervosa.
“Harry vuole chiederti se sai se Cho Chang torna a casa per le vacanze, Luna” spiegò Ron con uno sguardo di divertita sufficienza verso l’amico.
“Ma lei non deve sapere che te l‘ha chiesto, perciò mantieni il segreto” aggiunse bisbigliando e ridacchiando.
Luna il sorriso di Luna cambiò impercettibilmente divenendo un sorriso di circostanza, senza che i due se ne accorgessero. Anche se si era aspettata di peggio.
Inclinò il capo nella sua migliore espressione dubbiosa, senza sbattere le palpebre sugli occhi sporgenti.
“Ma lui non me l’ha chiesto, me l’hai chiesto tu. E se …” Luna girò lo sguardo argenteo verso il ragazzo, studiandolo attentamente.
Si avvicinò millimetricamente al suo colletto, sbirciando la gola e il collo.
“Soffri di Seppiole Mormurea, Harry?”
“Cosa?”
Luna si portò le mani alla gola, come se volesse strangolarsi da sola. E con quegli occhi bulbosi e vorticanti, l’effetto era assolutamente realistico. Harry la guardò spaventato, mentre Luna sussurrava con voce strozzata:
“Si attaccano alle corde vocali e ti cossstringono a cercarti qualcuno che parli per te...” Di fronte all’espressione inerte dei due amici, Luna abbassò le mani, annuendo come se avesse appena spiegato una delle tre verità fondamentali dell‘universo.
“Perché si mangiano la tua voce e tu rimani muto e zitto per il resto dei tuoi giorni.”
Ron rise. “La verità è che Harry è troppo tim …”
“Parla il re degli intraprendenti!” sbottò Harry arrossendo in zona zigomi.
“Ma Weasley è davvero un re!” replicò Luna, il viso disteso in un sorriso sognante ed entusiasta. Fu il turno di Harry ridere anche se ebbe la gentilezza di trasformare la sue risa in tosse, di fronte all‘occhiataccia di Ron. Il ragazzo, offeso, brontolò con una faccia desolata e incupita:
“Ehi. Vacci piano, sono una persona sensibile e dal cuore a pezzi perciò…”
Prima che riuscisse a trattenersi, Luna scoppiò a ridere in modo stridulo, tenendosi i fianchi. Quella reazione, scatenò un vago senso di disagio nei due ragazzi che si guardarono ancora, con occhi allarmati. Ron, che per una volta non stava scherzando e non aveva fatto alcuna battuta, si sentì seriamente preso in giro.
La guardò storto finché Luna non si calmò, riprendendo a parlare.
“Cho torna sempre a casa per Natale, Harry Potter” disse in tono vago, gli occhi nebulosi.
“Grazie” rispose Harry sollevato. Si girò verso Ron e gli mollò un pugno sul braccio. “Grazie anche a te.”
“Adesso però trova il coraggio e vacci a parlare” borbottò Ron in risposta.
“Lo avrei già fatto se qualcuno non l’avesse aggredita sui Tornados…” replicò Harry piccato.
Ron storse il naso, accennando un sorrisetto. “Ma certo…”
Harry lo guardò indeciso tra una risata o un ennesimo pugno sul braccio.
Tagliata fuori dalla conversazione, Luna Lovegood decise di uscire di scena. Si aggiustò la borsa sulla spalla e  si frugò in tasca, picchiettando la punta del piede sul pavimento con fare irrequieto, dicendo: “Bene. Ci vediamo in giro. Buona fortuna.”
Poi tese una mano, serissima. Harry, stupito, gliela strinse, intercettando lo sguardo divertito di Ron.
Cogliendolo di sorpresa, Luna lo tirò verso di sé, inforcò gli Spettrocoli che aveva preso dalla tasca con l’altra mano e scrutò il viso di Harry, a pochi centimetri dal suo.
“Hai degli occhi sorprendentemente verdi, Harry Potter.”
Luna li fissò con tanta attenzione da sfiorare la maleducazione. Avevano qualcosa di familiare, notò la Corvonero, per nulla interessata all‘espressione sorpresa ed ebete del ragazzo. Ne guardava solo le iridi. Quella tonalità, quelle screziature luminose.
“Sono color garofano” concluse dopo la sua pseudo ispezione. Dopodiché si voltò e riprese a salire la scala a passo deciso, quasi correndo, lasciando Ron Weasley a domandarsi dove Luna Lovegood avesse visto un garofano verde e Harry Potter, a chiedersi quando avrebbe trovato il coraggio di chiedere a Cho Chang di uscire con lui.
Un piano più sopra, fuori portata da sguardi indiscreti o da alunni sciamanti nelle rispettive classi, Luna si sedette ai piedi di un’armatura, senza fiato per la corsa. Appoggiò il capo ondeggiante ad uno dei gambali di ferro, cercando di riprendere a respirare con normalità.
Chiunque, avrebbe potuto pensare che Luna Lovegood avrebbe trovato ben più di una rassomiglianza tra gli occhi dell’apparizione che affliggeva Severus Piton e quelli di Harry Potter, il Ragazzo- che-è-Sopravvissuto, ma Luna Lovegood non è chiunque.
L’idea che quegli occhi fossero gli stessi, non la sfiorò minimamente.
Gli occhi della ragazza erano troppo rancorosi e cattivi, tutta un’altra cosa rispetto a quelli limpidi e tranquilli del ragazzo con la cicatrice, occhi che aveva trovato così affascinante osservare.
Luna Lovegood era vaga, distratta e sognante. Difficilmente riconosceva l’ovvio o ci faceva caso, ma aveva l’insospettabile attitudine di notare ciò che agli altri sfuggiva e di riuscire a parlare con schiettezza, stravolgendo tutto quello che ritenevano giusto e corretto.
Perciò, anche se quegli occhi erano obbiettivamente identici, nel cervello di Luna Lovegood essi vennero registrati come diametralmente opposti.
Si alzò e riprese a camminare in direzione della biblioteca. Non aveva un piano preciso su come svolgere le sue ricerche, non sapeva nemmeno se definirle tali. E non era nemmeno sicura se avesse dovuto recarsi lì, data la sua diffidenza verso  buona parte dei libri che riportavano solo metà delle cose che si aggiravano per il vasto mondo, ma tanto valeva provare.
Luna Lovegood, aspirante cacciatrice di ombre e ragazze spettrali, si era però fatta un lungo elenco mentale di cose che avrebbe potuto cercare in ordine alfabetico, cominciando da ‘A’ di apparizione  fino alla ‘Z’ di zombie.
Mentre avanzava a passo di marcia verso la grande sala della biblioteca, incrociando qualche altro alunno solitario e due fantasmi con abiti da giullari, i pensieri di Luna Lovegood formarono ricordi confusi e amareggiati. Si sentiva un po’ troppo incapace e spaventata, a dirla tutta.
Era passato quasi un mese da quando Albus Silente, le aveva chiesto di aiutare il professor Severus Piton e, sempre a distanza di un mese, lei non aveva fatto ancora nulla.
Non solo perché ogni volta che cercava di parlargli si finiva a battibeccare, o a svenire per terra, o sbattendosi una porta in faccia ma forse perché, Severus Piton non era ancora capace di accettare l’idea di aver bisogno di una mano.
E Luna, a causa di quell’incapacità di trovare un modo per capirlo e sentendosi intimamente in colpa, non conosceva ancora che tipo di aiuto gli servisse.
Poteva essere per combattere la ragazza dai capelli rossi o le stramberie che lo rendevano così stravagante e malmostoso, Luna Lovegood non lo sapeva ma, giurò a sé stessa che da quel momento, sarebbe stata fermamente decisa a scoprirlo.


***


Mundungus Fletcher addentò la mela che aveva sgraffignato al fruttivendolo all’angolo tra Paradise Street e Lameeth Walk con voracità, sbrodolandosi di saliva sul mento.
Dopotutto, tre fette di pane unto e un paio di bicchieri non costituivano che una piccola parte di una colazione sana e nutriente.
Si pulì con una manica del pastrano, occhieggiando la strada con occhi soddisfatti e giocondi.
Per nulla infastidito dai Babbani che cambiavano strada o lo fissavano inorriditi al suo passaggio, Dung scese per Regent Street, attraversò Kensington Cross -rischiando di venir investito da un taxista iracondo- e imboccò Chester Street con piglio deciso.
Non aveva la minima idea di dove stesse andando, ecco la verità.
L’unica cosa che lo rincuorava era l’essere uscito da Notturn Alley, un posto dove -adesso lo sapeva- era diventato un bersaglio mobile. Sparire per un po’ dentro la grande Londra, tra folle di Babbani ignoranti e a tre rapide giravolte dal quartiere dell’Ordine - Il cervello bacato di Dung sembrava aver dimenticato che Grimmauld Place era raggiungibile, con lo stesso sistema, anche dall’Alaska o dai Pirenei-,  lo faceva sentire con le spalle quasi coperte. Aveva valutato di scippare una macchina a qualche Babbano, ma riflettendoci, una passeggiata gli sarebbe stata ben più utile e salutare.
Vagò ancora per le strade lucide di pioggia, mentre londinesi sciamanti per le strade si destreggiavano tra macchine parcheggiate, bidoni e vetrine luccicanti e addobbate.
Dung ammirò con stupore le lucette sugli alberelli messi lungo Upper Kennintong Lane. Era talmente preso a riflettere su come avesse potuto procurarsene un paio e rivenderle al vecchio Arthur Weasley, che si accorse a malapena di essere sbucato davanti alla stazione di Vauxhall e all‘incrocio di strade luminescenti e ululanti di gente, in mezzo a cui sorgeva.
Infreddolito e con lo stomaco più gorgogliante che mai, gettò il torsolo tra un piccolo stormo di corvi che svolazzarono via, incattiviti. I loro occhietti liquidi dardeggiarono verso Mundungus che ricambiò con altrettanta acidità nelle iridi sanguigne. Senza preoccuparsi del cartello ‘Sottopassaggio’ per attraversare la strada, Dung scavalcò la bassa recinzione, strappandosi l’orlo già strappato dei pantaloni. Un tempo erano gessati, ricordo di una gita al ministero, ma ora le righe bianche erano stinte, cosicchè i pantaloni ora riproducevano in bianco e nero quella che era, a tutti gli effetti, la texture di una buccia d’anguria.
Si lanciò in mezzo alla strada, dribblando come una palla di stracci le macchine e i loro autisti esterrefatti. Non ci mise molto a ritrovarsi sull’altro marciapiede, di fronte alla costruzione di mattoni e pietra colorata e arcate di legno bianco e vetro. Vittoriana, senza dubbio.
Dung si grattò il collo, guardandosi in giro con fare distratto. I suoi occhi passarono su uno dei pannelli con la mappa di Londra, in uno dei lati ombrosi dell’edificio.
Si avvicinò, frugandosi in tasca, alla ricerca dei fammiferi e di un sigaro in buone condizioni. Pregò che il fumo gli facesse passare la fame che faceva dolere il suo stomaco malconcio.
Senza degnare di uno sguardo le linee colorate che indicavano le varie tratte, si appoggiò alla plastica cigolante, facendo vagare gli occhietti rossi su ogni singolo viaggiatore che entrava o usciva dalla struttura e si accese voluttuosamente un sigaro.
Niente.
Cominciò a camminare rasente al muro, aggirando la stazione. Quando arrivò sul lato dell’edificio che dava sul grigio Tamigi, imboccò l’ingresso, superò i tornelli ed entrò, incurante della scritta ‘vietato fumare’. Anche lì, Babbani di fretta, lucette lampeggianti e alberi carichi di addobbi e altre sciocchezze luccicanti -benchè quelle dorate stuzzicassero in modo piacevole gli occhi di Mundungus-.
Cominciò a camminare lentamente lungo la bassa galleria, illuminato dai lampioni che ne segnavano il centro come una luminosa spina dorsale. Il soffitto basso e a volta era decorato da due frecce rosse se movibili. Babbanate, pensò Dung sbuffando fumo nell’aria calda.
Escluse le voci agli autoparlanti e il sottofondo sferragliante dei treni, Mundungus si sentiva schiacciato in una piccola e coperta riproduzione della Londra esterna, quasi un segmento asportato.
Come nella grande Londra, anche lì in quel microcosmo vigevano regole identiche e le stesse tipologie di Babbani, tutti con la loro voglia di distinguersi dalla massa, di spiccare nel mare delle facce anonime.
Dung si appoggiò a una delle colonne lungo i muri, incastrata tra i gabbiotti grigi delle biglietterie e degli uffici. Aspirò lentamente il fumo, gli occhietti guizzanti oltre la cortina nebbiosa.
Nessuno l’avrebbe notato. Mundungus sapeva che il modo migliore per non farsi beccare, tra quella massa di distratti amanti della scienza e del razionale, era assomigliare a uno di quei poveri disgraziati lasciati a loro stessi, sotto ad un androne o sdraiati su una panchina, che i Babbani snobbavano tanto.
Certo, le sue ragioni di look non avevano quell’unica motivazione, sarebbe stato da stupidi, ma servivano al loro scopo, lì, nel mondo dei normali.
Tanto normali che si comportavano tutti all’unisono, correndo senza fermarsi mai, trascinandosi dietro bambini in lacrime, valigie simili a carrelli e altri desolati compagni d’avventura.
A Mundungus, le stazioni facevano venire tristezza.
Si allontanò strisciando i piedi, gli occhi vigili sulla folla. Diversamente da molti passanti accanto a lui, nessuno lo urtava o inciampava nella sua persona.
I Babbani non lo vedevano, ma contemporaneamente lo avvertivano e lo disprezzavano.
Lo evitavano come tutto ciò che non riuscivano a spiegarsi.
Colpa mia che non mi lavo da un mese, ghignò Dung sotto i baffi, interrompendo il suo vagheggiare malinconico. Pregò che gli passasse vicino uno di quelle donne altezzose della City, con i loro tailleur, le valigette e le nuvole di profumo artificiale  al guinzaglio. Quanto erano volgari.
A Dung le donne piacevano, ma le vere donne erano un’altra cosa. Non appena nel suo cervello formulò questo pensiero, nel suo cervello si materializzò Arabella, con le braccia alzate in una posa di karate e suo aroma di detersivo. Dung scosse il capo, cacciandola via dai suoi pensieri. E che diamine!
Doveva allargare i suoi orizzonti in quel capo, prima di atteggiarsi da playboy azzimato. Al momento era impegnato, ma non appena avesse avuto un attimo libero avrebbe fatto strage di cuori.
Si avviò lungo la galleria, finché sulla destra non vide un conosciuto cartello con molte sagomine sedute.
La sua memoria non l’aveva tradito, aveva beccato il posto giusto.
Sala d’Aspetto. Che posto dal nome rassicurante.
Dung che da quella giornata confusionaria non sapeva cosa aspettarsi, spinse il maniglione a sbarra e ci si fiondò con sollievo. Era deserta e, cosa ancor più utile, i vetri che davano sulla gallery avevano quella tonalità scura che permetteva di osservare l’esterno indisturbati. Un po’ di privacy, pensò gongolando.
Proprio quello che ci voleva. Dung ghignò, il sigaro stretto tra i denti.
Come depistaggio era stato fatto un po’ alla cavolo, ma ormai non aveva più dubbi.
Sapeva di essere seguito e non era stata solo la sensazione di minaccia mentre affrontava le vie di Londra con  passo noncurante. Da chi era seguito Mundungus non lo sapeva, ma bastava attendere. Presto lo spione sarebbe entrato e Dung avrebbe avuto il piacere di accoglierlo e di fargli sputare tutto, comprese le Promesse rubate. Oltre ad insegnargli che cosa accadeva a chi entrava in casa di Dung ‘Astuto’ Fletcher.
Il sedere di Dung scivolò un po’ sulla sedia di plastica. Seduto scomposto e con un sorriso ebete in faccia, crogiolandosi nella contemplazione della sua intelligenza sopraffina, Mundungus Fletcher guardò le facce dei Babbani distratti che, oltre i vetri, inseguivano il tempo.
Come facessero a vivere senza magia, mistero, azione  e la felicità a due passi, non lo sapeva. Certo, per Mundungus Fletcher, lo stato di felicità era rappresentato da una bottiglia di Whiskey o brandy sotto al letto, -“liquida, sexy e disponibile”-  ma era comunque una domanda inspiegabile. Si ripromise di chiedere ad Albus. Quel Babbanofilo aveva di certo la risposta giusta e anche se avrebbe avuto a che fare con le solite baggianate sull’amore, bè…
Se non altro avrebbe soddisfatto la sua curiosità.
Mundungus Fletcher si grattò la pancia, sbadigliando. Un po’ di fumo fungino gli uscì in volute delle narici.
Che palle.
O il suo inseguitore e servo del male, era lento come un sasso immobile sul greto di un fiume, o era frutto della paranoia di Mundungus. Quale delle due fosse più umiliante, il ladro-ricettatore non lo sapeva.
Ebbe la tentazione di materializzarsi direttamente a Grimmauld Place o in una delle sue tane sparpagliate in città, ma sospirando, vide la faccia contrita di Albus Silente e s’impose di rimanere seduto.
Mordicchiando il sigaro con i denti sghembi, si passò una mano sulla fronte aggrottata, massaggiandosi le tempie. Aveva fame, freddo e sonno.
E voleva un goccio di sambuca ribes con seltz, come quella che gli serviva Sirius dopo quel teatrino di riunioni che erano gli incontri dell’Ordine della Fenice.
Che palle.
Mundungus si ritrovò a desiderare quel drink con tanta intensità che si dimenticò del tutto di dove si trovava e cosa stava facendo. La folla fuori dai vetri sciamava con lo stesso ritmo, le stesse facce ripetute all‘infinito.
Dung non le dedicò più di un’occhiata ed era troppo tardi quando, uno di quei visi, più definito degli altri, con una strana consapevolezza sui tratti del viso segnato e i vividi occhi azzurro grigiastro infossati, si mise a guardare dentro la sala d’aspetto con intensa concentrazione, oltre i vetri scuri.
Non sta guardando me, non sta guardando me. Si sta specchiando, si sta specchiando. Paranoia, paranoia, paranoia.
Dung si tirò sulla sedia in fretta e con un colpo di reni fu in piedi. Lui e l’uomo fuori dai vetri oscurati continuarono a guardarsi negli occhi, mentre uno scricchiolio,
il suono del ghiaccio che si stacca da una parete, si faceva via via più secco e crepitante.
Sul vetro tra Dung e il nuovo venuto, cominciò a scavarsi una crepa profonda, mentre lo sconosciuto sorrideva, sollevando appena gli zigomi squadrati, in quella faccia da mummia stitica.
Il sigaro di Dung cadde dal suo labbro penzolante, lasciando dietro di sé una cometa di cenere.
Quando il vetro si frantumò del tutto, ormai era chiaro anche a Dung che quello  -ovviamente, stupido- era un mago e che lui, per sua sfortuna, era di nuovo nei guai.
Con un boato il vetro esplose, scagliando frammenti aguzzi, grossi come pietre all’interno della sala d’aspetto.
Mundungus Fletcher, spronato dal suo innato istinto di sopravvivenza, si gettò sotto una fila di sedie di plastica.
Terrorizzato e con le budella in fermento, fece una cosa che non avrebbe mai ritenuto possibile.
Si smaterializzò in posizione orizzontale.





BAM! Benvenuti al 14esimo  capitolo del Dono!
Dunque, per oggi non ho grandi precisazioni da fare, se non un grosso grazie per le recensioni e i messaggi di ringraziamento e complimenti.
Non è mai superfluo dire quanto mi facciano piacere! (E per favore, sparatemi una critica negativa qualche volta, vivo con la consapevolezza che  un giorno mi adagerò sugli allori!)
Su questo capitolo -lo so, lo so, non è bello quanto quello passato ma vedrò di rifarmi- non ho particolari accorgimenti da aggiungere se non che Mundungus sta rapidamente scalando la mia personale classifica di gradimento. E' un puzzone trendy. So che è anche il primo capitolo senza l'ombra cupa di Severus, ma mi serviva un po' di stacco con il nostro ombroso pozionista preferito! Sezionarlo psicologicamente toglie energie anche a me! ...Forse sono vittima di Lily?
Ho deciso di inserire Yaxley (Il tizio della sala d'aspetto, chi di voi non l'aveva intuito?) perchè oltre ad essere un Mangiamorte con poche indicazioni su chi sia e come sia (A parte il fatto che come Malfoy lavora al Ministero era quello che dal punto narrativo mi lascia più libertà.
Il suo nome proprio è ignoto (anche se credo che lo chiamerò Rawdon Yaxley. Ha un bel suono), mentre per l'aspetto fisico cercherò di basarmi sull'attore che lo interpreta nel film.
Ora come sempre, saluti a voi!
 
Exelle

Il prossimo capitolo lo concluderò sabato o domenica, quindi tenete d'occhio la pagina.




  
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