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Autore: Exelle    09/01/2011    3 recensioni
La vita di Severus Piton è monotona e solitaria.
Quella di Luna Lovegood, incomprensibilmente folle.
E se venissero raccontate nella stessa storia?
_Finalmente il capitolo sedici_
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Lily Evans, Luna Lovegood, Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Più contesti
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Capitolo Quattordici
La funerea luce del giorno


“Non ti capisco Sev. Perché scrivi così piccolo? Diventa tutto illeggibile!”
“Ridammi quel libro Lily e per favore, fammi studiare. Almeno adesso.”
“Studi anche durante un funerale, Sev?”
Severus Piton alzò lo sguardo dai margini del libro, smettendo di segnare annotazioni rattrappite.
Come aveva fatto a non accorgersi della pioggia sottile e della voce monocorde dell’uomo vicino alla fossa?
Si voltò verso Lily, seduta al suo fianco. Occupavano l’ultima fila delle bianche sedie pieghevoli assiepate in linee regolari, divise nel mezzo da un passaggio. Erano lontani dalle altre uniche persone presenti, oltre al celebrante. Tre figure in nero a capo chino e coperto. Severus non sapeva chi fossero, ma non era nemmeno intenzionato a scoprirlo.
“Dove siamo?” domandò, aggrottando le sopracciglia. Si rese conto di essere adulto e di sentirsi molto stupido, notando il libro di scuola e la sua vecchia borsa posata a fianco della sedia.
“Domanda inutile, farla qui non serve” replicò Lily gentilmente, sfiorandogli il ginocchio con la mano. Lei, al contrario di Severus, sembrava avere un’età non definita.
Anche guardandola, Severus Piton non riusciva a capire se avesse tredici, venti o quindici anni. I suoi modi di fare oscillavano continuamente tra quelli della sua adolescenza, ma nessuno di quelli le apparteneva veramente.
Di fronte allo smarrimento di Severus, Lily sorrise compostamente e tornò a osservare la funzione,  aprendo un ombrellino nero con cui riparò entrambi.  Era tanto leggero, da essere la preda perfetta di un qualsiasi alito di vento. Solo che, su quella collina ammantata di verde brillante, l’aria era rarefatta come in una palude, e niente vento a scuotere le fronde dell’unico salice, i cui rami pendevano sul punto dove si trovava la fossa. Severus guardò quel rettangolo nero con malcelato disgusto.
Nonostante fosse seduto lontano, riusciva a sentire le piccole zolle staccarsi dalle pareti di terra, scavate in fretta e furia, cadere sul coperchio di legno della bara non visibile.
Ma forse era solo la sua immaginazione.
Non che ne avesse mai avuta molta ma, su quella collina, di suo sembrava possedere solo l’aspetto.
E avere un’immaginazione fervida adesso sembrava qualcosa di assolutamente plausibile.
Seduto rigidamente, gli occhi fissi sul buco rettangolare che spezzava in modo brusco la perfezione di quel prato verdeggiante e soffice, Severus mormorò:
“Di chi è il funerale?”
“Prova a indovinare” disse Lily in risposta. A Severus non servì guardarla per sapere che aveva pronunciato quelle parole con il sorriso sulle labbra. Infastidito da tanta prevedibilità, con una tranquillità inumana e glaciale, replicò: “È il mio, non è vero?”
“Non essere egocentrico.” Lily appoggiò il capo sulla spalla di Sev, sospirando.
“È il mio.”
A quell’affermazione, Severus non seppe cosa rispondere. Non perché non trovasse le parole, ma solo perché accettò la risposta di Lily come una verità inconfutabile.
“Sorpreso?” sussurrò Lily ammiccante, prendendogli affettuosamente la mano. “Scosso? Turbato?”
Severus Piton rimase immobile come un asceta. Non si domandò se in qualche altro posto -la realtà-, ne sarebbe stato capace.
“Non è il tuo funerale. Non è stato così” le rispose. “Le fosse erano due.”
“E la gente era molta di più, e piangevano, parlavano e piangevano. Quanta disperazione, non è vero?”
Severus sentì che il capo di Lily pesava quasi di più sulla sua spalla, una contatto caldo e rassicurante. Nonostante la odiasse -almeno lì, ovunque fossero- sapeva di volerla e amarla come il primo giorno in cui l’aveva vista. Ma non riusciva a far altro che starsene immobile, a farsi prendere in giro dai suoi sorrisi e dalle sue frasi gentili e crudeli. Si biasimava, sentendosi viscido, gretto e meschino, schiavo di un desiderio perverso e inumano.
E, tuttavia, non riusciva a scacciarla. Non ci sarebbe riuscito mai.
Con uno sforzo immane per lui, intrappolato nell’embolia dei sentimenti disse:
“Immagino che a te piaccia la disperazione, Lily. Non è forse disperato voler assistere al proprio funerale?”
Lily chiuse gli occhi, beata. Intrecciò le sue dita sottili ed eleganti in quelle di Severus.
“Mi piace la tua disperazione. Un sentimento tanto abbietto e pietoso non merita forse ammirazione?”
Severus chinò il capo verso di lei, ammansito. Riusciva solo a vedere la sommità della sua testa dai capelli vermigli, ma ascoltò le sue parole e rabbrividì.
“Non sei felice del regalo che ti ho fatto?”
“Sarebbe questo?” Severus indicò con un lento cenno del capo la fossa, il celebrante e le tre figure sedute. Non proveniva nessun suono da loro. Forse parlavano, ma lui non li udiva.
Lily sollevò lo sguardo verso di lui. Gli occhi grandi, verdi e limpidi. Severus sentì una dolorosa stretta allo stomaco. Inopportuna per un uomo vecchio e brutto come lui. Quanto era ripugnante.
Ma in mezzo a quel disgusto verso sé stesso, non poté non sentirsi follemente e indissolubilmente attratto e legato a quella Lily che, nonostante tutto, era più bella di cento meraviglie del mondo.
Ed era lì al suo fianco.
A tormentare lui, solamente lui. C’era qualcosa di morboso in questo, ma Severus non ci badava, abbandonato com’era nel suo ideale amore delirante.
“Ti sei mai chiesto come sarebbe stato se avessi assecondato i tuoi patetici desideri, Severus Piton?”
La mano elegante di Lily indicò sorniona la fossa, dove la pioggia che vi cadeva dentro, trasformava in fango il ciglio di quel funereo abisso.
Uccidi il figlio e il padre, mio Signore. Ma dai lei a me…” bisbigliò Lily all’orecchio di Sev, stringendo ancor di più la mano alla sua. “Rendi lei a me…
“Menti” disse rigido Severus, distogliendo lo sguardo dall’esequie e da quella scellerata creatura.
“Tu menti. Questo non è…”
“Saremmo stati davvero felici assieme, non è vero Severus Piton? Mio caro, caro Sev” Lily chiuse l’ombrello, scrollandolo; la pioggia fine e nervosa aveva ormai cessato di cadere.
Nonostante le parole di Lily  fossero sarcastiche, c’era un’infinita dolcezza in loro. Una dolcezza che risvegliò tutte le speranze che Severus aveva centellinato nel corso degli anni, sperando che un giorno…
Speranze morte il giorno in cui l’amore, quello per un inetto e arrogante bastardo, avevano allontanato Lily da lui. Severus tuttavia si rifiutò di pensare, di aver avuto un ruolo preciso in quell’allontanamento.
Per quanto fosse egoista. Per quanto fosse infantile.
“Io avevo… Io però ho chiesto, dopo… Di risparmiarvi tutti…” mormorò a sua discolpa. Era vero, in fondo. Quando aveva chiesto al Signore Oscuro di salvare la vita a Lily e lui aveva negato, non aveva esitato a rinunciare a quello che aveva creduto la sua via. Aveva supplicato Silente pur di farla rimanere in vita, accettando l’idea di non averla per sé e di lasciarla vivere con la famiglia che si era creata.
Ma, come i lettori di tre quarti del mondo sanno, non era bastato. Severus Piton aveva sperato che il dolore lo uccidesse, ma aveva compreso troppo tardi che una morte di quel tipo sarebbe stata una clemenza impossibile da concedere a lui, un assassino della peggior specie. E allora, aveva cercato di andare avanti e aveva doppiamente fallito.
Perché lei era ancora lì, come il dolore, ancorati nel suo cuore spregevole.
“Io vedo nella tua anima Severus. E so che cosa desideri, da sempre. Da quando mi hai fatto schiacciare da tre metri di terra gelida” Lily Evans gli mise una mano a lato del viso, costringendolo a fissarla con quegli occhi neri, coperti da un velo di apatia e rassegnazione.
“Tu non ti chiedi come sarebbe stato se io ti avessi amato. O se io non avessi incontrato James o se tu non fossi diventato …” l’altra mano di Lily lasciò per un momento quella di Severus, sfiorandogli l’avambraccio, il Marchio Nero. “… Non ti domandi niente di tutto questo” continuò.
“Tu ti chiedi cosa sarebbe successo se il Signore Oscuro mi avesse lasciata a te, Severus Piton. Il tuo egoismo è così grande, che ti ha portato a chiedergli di sacrificare la mia felicità con coloro che amavo per il tuo stupido desiderio.”
La faccia di Severus era talmente rigida che avrebbe potuto essere scolpita nella pietra.
“E tu non riesci a pentirtene. Perciò ecco perché siamo qui, Severus. Guarda le conseguenze delle tue azioni.” Lily tornò a guardare la cerimonia. Severus rimase a guardare lei.
“Io ...”
“Ti prego.” Lily lo fulminò con lo sguardo “Le scuse e il rimorso non hanno alcun valore. Soprattutto nel mondo dei morti, Sev. Perciò è tutto inutile. Levati quell’espressione addolorata.”
Severus si rabbuiò. Cosa voleva allora? Con voce gracchiante domandò: “Cosa è successo? Come…”
“Vieni.”  La mano di Lily scivolò nella sua e si alzarono. Severus inspiegabilmente fece per abbassarsi e raccogliere la sua borsa di scuola, ma quella e i libri erano svaniti. Stranito, seguì Lily tra la fila  e lungo il corridoio creato tra i due gruppi di sedie sgombre, verso il celebrante e le altre tre figure.
Fu in quel momento che Severus capì che quello era un grigio funerale Babbano e che una delle tre sagome era una donna. L’uomo accanto a lei le stringeva la mano, tremando entrambi. Nonostante avessero i visi abbassati, Severus li riconobbe.
“I tuoi genitori.”
Lily annuì..“Mia sorella si è dimenticata di me, come vedi, ma loro no… mai.”
“E chi…” Severus rivolse l’attenzione alla terza figura, un uomo. Aveva i capelli neri ed era l’unico ad indossare un mantello…
“Oh, non sperarci Sev. Non potresti mai essere tu!” Lily si strinse al suo braccio, ridendo giocosa. Si alzò sulle punte e gli bisbigliò all‘orecchio: “Guarda.”
Lo sconosciuto sollevò il capo e mostrò un viso noto. Quello fiero e orgoglioso di Sirius Black. Non portava i segni di Azkaban sul volto, ma un dolore incommensurabile aveva reso i suoi occhi cupi e impenetrabili.
Severus s’irrigidì, deglutendo. Quale inferno era mai quello?
“Dove sono gli altri?”
Lily fece spallucce, ridacchiando. “Sono morti o in fuga, Sev” gli batté una mano sul petto rachitico, guardandolo allegramente: “Opera tua e del tuo Signore.”
L’orrore investì come un’onda Severus Piton, distruggendo ogni sua difesa. Debole e affranto, si portò una mano alla bocca e cadde in ginocchio. Ma non riuscì a lasciare la mano di Lily, ora divenuta quindicenne, come quella delle sue allucinazioni. Forse lo era sempre stata.
Lei si inginocchiò al suo fianco, mentre lentamente tutto cominciò a svanire. Le sedie, Black, i genitori di Lily e il celebrante scomparvero e la fossa di Lily fu sostituita da una lapide bianco sporco, con inciso il suo nome e le date di nascita e morte. Il cielo, da grigio e gravido di pioggia, si tinse di rosso fiamma, ma nessun tramonto illuminò la collina erbosa.
“Lily Evans, 1960-1982” lesse Piton in un soffio. Per un momento sembrò riprendersi, voltandosi di scatto verso la ragazza. “Mi stai mentendo. Tu non sei morta nel…”
“Severus, non comportarti da sciocco. Non hai capito? Questo è il nostro futuro. Io e te” Lily sollevò le loro mani intrecciate, con delicatezza. “Come hai sempre voluto!”
Severus mosse la testa di scatto, irato. “Vuoi giocare al Canto di Natale con me, Lily?”
“Non sto giocando, Severus” disse seria. “Questo è vero… o sarebbe potuto esserlo.”
Piton si alzò, lasciando la mano di Lily ed avanzando barcollante verso la lapide. Posò le mani sulla pietra. Stupefacente quanto la sensazione ruvida e gelida fosse… reale.
Chinò il capo, nascondendosi dietro la cortina di capelli neri.
“Parla” sibilò.
Lily non si avvicinò questa volta, rimanendo alle sue spalle.
“Non c’è molto da dire. Sono diventata tua, tutta tua.” Lily sollevò lo sguardo verso il cielo, contemplando le nuvole color vinaccia. “Lord Voldemort e i suoi seguaci, i liberatori, gli eroi.. Sono stati i trionfatori della Grande Guerra Magica. E soprattutto …” Lily puntò i suoi occhi smeraldo come frecce sulla schiena di Severus “… Severus Piton, colui che ha permesso la morte dell’unico che avrebbe potuto opporsi all’Evento, ha realizzato il suo sogno. Tutti lo amano e possiede colei che ha amato da quando ha un cervello …”
“Sciocchezze” replicò Piton incredulo e amaro. “Eroe non è la parola che userei per me.”
“No, infatti. Alla fine non eri molto importante per lui …” sogghignò la ragazza. “E quando ho parlato di te stavo scherzando. In realtà, la tua sorte è stata molto più grama Sev, ma se te la svelassi temo che scoppieresti a piangere e ...”
Lily si ritrovò con le spalle serrate dalle mani ossute di Severus, scossa come una bambola di pezza.
Sembrava volesse ucciderla a scrolloni, ma lei rimase imperturbabile finché l’uomo non si calmò.
“Smettila con tutto questo! Ti ordino di smetterla e di tacere, mi hai capito?” Severus la lasciò, voltandosi verso la tomba, la voce roca. “Non volevi che ti lasciassi in pace?“
“Infatti Sev. Ma non mi sembra di aver parlato di me…”
Severus contrasse le dita, nervosamente cercò di aggiustarsi le maniche sui polsi.
“Allora… allora ricordi ciò che mi hai detto e quello che hai fatto …”
“Io esisto, Sev. Non ti basta?”
Si guardarono negli occhi. Quelli di Lily erano trionfanti e lo furono ancora di più quando Severus, suo malgrado chiese accennando alle tristi esequie mute:
“Che è ne è stato di lei?”
Lily Evans lo guardò, ferendolo con l’onestà che brillava nelle sue iridi.
“Di me? Sono morta Sev.”
“Ti ho …” l’uomo sentì la domanda morirgli in gola.
“Oh, no. Non mi hai ucciso tu, non ne avresti mai avuto il coraggio. Il tuo amore per me è rimasto incrollabile anche qui” Lily allargò le braccia. Oltre e intorno alla collina c’erano solo altre colline, tutte uguali, all’infinito. Qualunque universo fosse quello che lei gli strava mostrando, a lui era del tutto ignoto.
“Disgraziatamente, essere la causa della morte di mio marito e mio figlio, è stato un po’ un ostacolo al nostro rapporto…”
Lily camminò verso di lui, implacabile. Quando furono l’una di fronte all’altra, parlò di nuovo.
“Suicidio, Sev” mormorò, totalmente indifferente all’espressione sconvolta di Severus.
“E non ho nemmeno potuto usare la magia, per questo ho dovuto… Arrangiarmi.”
Lily sollevò gli occhi dolenti verso Severus. Per un attimo li vide neri, neri e tenebrosi, proprio come i suoi. Era così rapito dal suo viso, una creatura che era Lily ma con il suo sguardo, che non si accorse del taglio profondo e scuro che le solcava la gola, come un orrido sfregio.
Quando sbatté le palpebre, non c’era più.
“Dovresti vedere la tua faccia Sev” disse in un sospiro, abbracciandolo e tenendolo stretto a sé. “Sembri un cadavere.”
E Severus lo sembrava davvero, bloccato nel suo corpo tetro, ossuto e ignobile. Quella non era realtà, eppure non riusciva a essere obbiettivo e a capire dove stesse il vero e dove la finzione.
Forse niente era vero e niente era finzione e lui si ritrovava perso nella sfera del possibile, nell’unica opzione che avrebbe voluto vedere realizzata ma che ora si rivelava essere solo cenere e sangue.
“Perché fai tutto questo?” mormorò con voce rotta, lo sguardo lontano. “Perché?”
Lily mise le mani a lato del viso di Severus, costringendolo a piegarsi verso di lei.
Il suo viso malinconico si rischiarò di un sorriso e in uno sguardo, di nuovo color smeraldo, indifeso e ossequioso.
“Perché? Perché io ti amo…  Mio Signore.” Lily cominciò a ridere, lisciando all’indietro i capelli vermigli.
Severus si raggelò e con suo orrore capì che non era per le parole sardoniche della ragazza.
Aveva provato un brivido di piacere. Sembrava quasi che il suo cuore battesse con un ritmo diverso, accompagnando quell’istante in cui si era perversamente sentito vivo.
Non riuscì nemmeno a compatirsi, perché aveva capito quanto sarebbe stato ipocrita. E allora, scacciò quell’impulso dal suo cuore e fece l’unica cosa che si sentiva di fare.
Avvicinò il viso a quello di Lily, benché conscio di essere un uomo debole e sconfitto. E di stare compiendo il suo gioco.
Per un attimo, il suo universo sembrò di smeraldo, ma non riuscì ad avvicinarla abbastanza.
Lily si divincolò e sfuggendo alla sua presa, gli diede la schiena e barcollò verso la lapide, le spalle sussultanti e il respiro frammentato. Si piegò su quella, afferrandone il bordo con mani tremanti.
Severus si riscosse dal torpore e mosse due passi verso di lei, la mano tesa. Aveva già vissuto una scena simile, da qualche altra parte. In un altro mondo, forse.
Guardò Lily e per una frazione di secondo, a lei si sostituì Luna Lovegood, curva e derelitta, maltrattata perché diversa.  E poi l’immagine svanì.
Severus camminò rapido verso l’amica, circondandole le spalle tremanti con le braccia.
“Lily, non fare così ... Scusami, non volevo ma tu sei … Così …”
Le sollevò i capelli rossi, con una carezza fin troppo gentile. E si maledì per l’ennesima volta.
Lily Evans stava ridendo. No, non ridendo. Stava sghignazzando come un’indemoniata, portandosi le mani al ventre per tutta quella perfida ilarità che le corrompeva i lineamenti in un’espressione folle.
“Così seeeerio. Così enigmatico e sarcastico … Dov’è la tua dignità, Severus Piton?” lo accusò Lily sorridendo, senza fiato per il gran ridere.
“Sono una ragazzina, nel caso non te ne fossi accorto. E tu sei disgustosamente vecchio per me.”
Severus, privo ormai di ogni difesa, sollevò le mani in un gesto di resa. Provava quasi una liberazione, un sentimento che aveva incontrato rare volte sul suo cammino e, sempre e solo quando era sfuggito alle leggi che regolano il mondo buono per rifugiarsi in uno dominato dalla cupidigia, dalla superbia e dal potere.
“Mi sembrava giusto” ammise, guardandola negli occhi, vinto.
Si aspettò altre risa o almeno qualche smorfia di derisione, ma niente. Lily aprì la bocca, ma non parlò, limitandosi ad annuire. Il suo sguardo luccicò in modo risoluto, l‘ironia scomparsa.
Appariva quasi diversa ora. Onesta. Vera. Severus avrebbe davvero voluto fidarsi di lei, ma come poteva?
Di fronte all’esitazione dell’uomo, Lily si  passò una mano tra i capelli rossi, accennando un sorriso colpevole. “Cominci a capire” disse.
Severus scrollò il capo. Quello era un altro modo per schernirlo?
“Cosa dovrei capire, Lily?” replicò, irretito suo malgrado. Santo cielo, era pur sempre lei, la sua adorata. Avrebbe potuto calpestarlo e lui si sarebbe sottomesso.
Si sorprese nel pensare così schiettamente a quelle parole. Nella realtà non sarebbe neppure stato in grado di formularle col pensiero.
Lily sollevò le mani, mostrando i palmi. Vedendo l’espressione guardinga che Severus aveva assunto, disse:
“Tranquillo. Non posso farti niente, sono solo una ragazzina. Giusto?”
Si avvicinò ancora, incrociando le braccia e fissandolo pensierosa.
“Cominci a capire quello che vuoi, Sev. Non è sorprendente? Credevo che non saresti mai riuscito ad essere tanto onesto con te stesso …”
“Sarebbe sorprendente capire te, piuttosto. Chiunque tu sia.”
Lily strinse gli occhi, un po’ demotivata. “Lo sai chi sono. Perché continui a negarlo?”
Severus fece un verso strano. Qualcosa tra l‘esasperazione e il divertito.
“Sei un mostro che ho creato io. Tu non puoi essere lei.”
Lily s‘imbronciò, offesa.  “Ma io sono la tua amica del cuore, Sev. La tua Mezzosangue preferita! Perché ci giri intorno?” sollevò una mano elegante e gliela posò sul cuore. Questa volta il contatto fu gelido e fece trasalire Severus. “Io sono te.”
Poi sollevò le iridi verso di lui, e sussurrò flebile “E sono Lily.”
“Volevi realizzare i tuoi desideri Sev? Ebbene, eccomi qui” aggiunse euforica.
Severus ostentò la sua miglior aria glaciale. Avrebbe voluto parlare con quel tono basso e ringhiante con cui cercava di incutere timore ai suoi studenti, ma la voce gli uscì incerta.
“Sei qui per portarmi con te? Nel tuo caro regno dei morti?”
Lily sollevò il viso, altera. “E chi ti dice che io non ti stia facendo un favore, Severus Piton? Ammettilo. Sarebbe la migliore delle liberazioni. Saresti felice.”
Severus ebbe un sorprendente flash di sé stesso, seduto su una nuvola, costretto a nascondersi da James Potter che voleva toglierli l’aureola. Oh, sì. Sarebbe stato indubbiamente felice.
“La felicità non fa per me” borbottò inquieto. “E la prova è nel fatto che continui a tormentarmi.”
“Saresti più felice se non ci fossi?” replicò lei sagace.
Severus sollevò lo sguardo verso l’albero. I lunghi rami sembravano ondeggiare come ciocche marine.
Gli ricordavano qualcuno. Un qualcuno che aveva lasciato a casa, come se lui ne avesse mai avuta una.
Che sensazione curiosamente incomprensibile. Forse era solo una reazione dovuta allo smarrimento creato da quel sogno visionario. Un mondo onirico dominato da Lily e dalle sue parole crudeli.
“Non stai bene nel mondo reale. Non stai bene qui, che è dove si è realizzato il tuo desiderio” mormorò Lily.
“A che scopo continuare a respirare? Sei solo un corpo vuoto, Sev, e tu lo sai. Ti hanno detto che il tempo guarisce ogni tipo di ferita, ma più sei caparbio, insistendo a trascinarti per giorni, mesi, anni… e ti accorgi che non è vero. Ti hanno mentito, Sev.”
Piton non si scompose. Anzi, rimase quasi rasserenato, perché lei non gli stava dicendo nulla di nuovo e non aveva senso preoccuparsi. Le parole di Lily erano dettate da qualcosa di malvagio, ma a lui erano note da tempo. Lui stesso le pensava.
“Tu stessa mi hai detto che l’inferno non è liberazione.”
Lily ondeggiò il capo, osservandolo con candore: “Però saresti così impegnato a soffrire, a soffrire veramente, che non avresti tempo da dedicare a me.”
Severus strinse gli occhi, sospettoso: “Parli come se ci fossi stata.”
“E tu come uno che ha un gran desiderio di andarci” ribattè la ragazza pronta, battendo per un istante le ciglia. “Potremmo andarci assieme.”
Severus Piton non aveva una grande esperienza in diplomazia, ma ammise che le parole di Lily possedevano una forza dannatamente persuasiva. Conscio della debolezza delle sue argomentazioni, decise comunque di lottare. Non poteva vincere sempre. Lui lì era l’adulto, era quello in grado di capire i meccanismi che regolano l’esistenza.
Un’allucinazione, un mostro, una fantasia malata che lui aveva creato, non potevano sottometterlo. Lui li era l’autore, non la vittima. Forse.
“Tu mi detesti Lily, ma credi che la tua presenza sia un supplizio per me? Che le tue siano minacce?”
Piton le prese la mano, abbassandogliela. Si sentì strano, nel farlo. Come se stesse recidendo qualcosa.
“Io voglio che tu stia con me, sempre. Non m’importa dell’orrore in cui mi trascini. Se ci sei tu, per me è perfetto.” Nel dirlo, sentì una sensazione strana attraversagli il corpo.
Qualcosa che gli schiacciava lo stomaco e fulminava il cuore con una fitta penosa.
Era quello l’amore fisico? Severus si sentiva vittima di un inganno. Aveva amato qualcuno fin da quando i suoi ricordi avevano preso forma, eppure quanto poco amore aveva ricevuto in cambio!
Non era giusto e quello lo sapeva. Ma ora, si sentiva in grado di ammettere che lui, quell’amore che tutti sembravano possedere e avere a portata di mano, lo pretendeva
Gli occhi verdi di lei, brillarono per lo stupore. Appariva quasi entusiasta alle parole di lui e Severus, dal canto suo, pregò che non fosse solo la sua immaginazione a confonderlo.
“Sei stato molto bravo, Severus Piton” disse Lily in tono graffiante. Il suo sorriso però era dolce e non c’era malizia nell’occhiata che gli rivolse. “Adesso possiamo anche andarcene.”
Severus abbassò lo sguardo sul polso di lei, ma si accorse di stare stringendo solo aria. La guardò ancora, le iridi dilatate per lo spavento, allarmato. “Non mi hai detto perché siamo qui!”
La voce gli uscì distorta, come se stesse parlando da dentro una bottiglia. Quella di Lily, nonostante la sua figura fosse ormai diafana e trasparente, gli arrivò chiara e argentina.
“Perché l’hai voluto tu, Severus Piton.”
Il suo viso sbiadito venne attraversato dall’ombra di un ghigno, un sorriso distorto dal nulla.
“Ci rivedremo. Più presto di quello che credi, Sev.”
“No!” Severus allungò le braccia verso di lei, ma non c’era più nulla da stringere. Era così sciocco. La sua mente aveva penato - per ore, sembrava-  cercando il modo di allontanarla o di zittirla e ora che lei non c’era più, la rivoleva accanto a sé. A offenderlo, a sussurrargli enigmi e a sorridergli comprensiva.
Mentre il suo cercava di riordinare i brani confusi della conversazione che avevano avuto, intorno alla nera figura dell’uomo, anche quel piccolo universo cominciò a sciogliersi e a scolorirsi.
Una raffica di vento,- Ora c’è il vento? Si domandò Piton, allibito-,  spazzò la cima della collina e i rami del salice si sollevarono come nastri, perdendo tutte le loro foglie che iniziarono a volteggiare come catene vegetali nell’aria sempre più fredda. L’albero, ormai spoglio, divenne di un bianco simile a gesso. Severus corse al riparo di quel tronco candido, ma sfuggì appena in tempo, quando iniziò ad essere solcato da crepe scure e a sgretolarsi. Ben presto non ne rimase più nulla, solo i frammenti roteanti che presto caddero sui pendii. Da essi, nacquero altri alberi secchi e spogli, ben più piccoli del salice maestoso.
I fili d’erba ingiallirono e seccarono. Alcune zolle volarono via, lasciando un terreno sconnesso e sassoso.
Il cielo tornò color ferro poi, da antracite divenne blu scuro ed infine nero, soppiantando le calde tonalità del tramonto e Severus si ritrovò solo, sull’unica collina ventosa e gelida, i capelli in faccia e il mantello agitato dall’aria. Solo, nella notte.
Si rese conto di avere la bacchetta in mano, l’unica fonte di luce, e di essere sfiancato e ansimante, come dopo una lunga corsa …
Anche se era una cosa che non ricordava di aver mai fatto in vita sua.
Guardandosi attorno allargò le braccia, scrutando nell‘oscurità. Riconosceva quel posto e sapeva cosa stava per accadere.
Bentornato nel tuo passato, Severus Piton, disse la voce di Lily nella sua testa.
Nell’aria balenò una luce bianca ed accecante e Piton si sentì scivolare in ginocchio e la bacchetta scivolargli via dalle dita. L’alone luminoso investì la collina ma Severus non chiuse gli occhi, anzi, li sentì spalancarsi e quando finalmente tornò a vedere, capi di essere nel suo ufficio sulla torre, riverso sul letto.
E bentornato nel tuo futuro.
Severus si passò una mano sul viso. Era tutto a posto, era nella sua stanza. Guardò la stretta e alta finestra, spalancata. L’aria fredda entrava nella piccola camera, portando con sé il respiro dell’inverno e un inspiegabile, nostalgico ed inesistente, sentore di gigli.


Severus Piton rimase bloccato nel suo letto per un’altra lunga e tormentosa ora. Non sarebbe riuscito ad alzarsi. Non ne era in grado.
Si sentiva debole, di una debolezza straziante, la stessa che poteva infliggergli uno di quei disgraziati Dissennatori. Quanto odiava quelle creature, con la loro fame di ricordi felici. Ogni volta che se ne trovava uno vicino, si sentiva soffocare. Gli strappavano come carne dall’osso quei pochi frammenti piacevoli di vita che aveva vissuto. Agivano allo stesso modo di Lily, rifletté, la vista annebbiata dalla luce mattutina.
Lo privavano dell’entusiasmo. Meglio, della forza di andare avanti.
Severus dopotutto non viveva. Lui si trascinava come un rottame. Ed era pure cieco e stolto, perché per l’ennesima volta si era fatto abbindolare da lei.
Da una creatura che non aveva altro piacere che quello d’ingiuriarlo e regalargli null’altro che sofferenza.
Aveva sognato. Niente allucinazioni, niente Pensatoio questa volta.
Ma, pensò, sollevando le mani con uno sforzo estremo e osservandosele attento, perché aveva ancora la sensazione di aver stretto quella di lei, di averla avvicinata a sé?
Provò a ricordare, ma più tornava lucido e più il sogno sfumava, sottraendosi alla sua comprensione e a ciò che avrebbe reso possibile capirlo.
Il funerale. Black. Un suicidio. Ora gli apparivano come cose scollegate e prive di senso che la sua parte razionale, sempre pronta a fornire soluzioni convincenti, s’affrettava a spiegare con giri di parole più o meno verosimili.
Si tirò su e si accorse di essere ancora vestito come la sera precedente. Seduto sul letto, le gambe stese davanti a sé, si sentiva stranito. Aveva un vuoto di memoria, anzi di più, perché non ricordava praticamente nulla da…
“Lovegood.”
La platinata s’affacciò fra i suoi pensieri affastellati, con il suo sguardo vago. Inspiegabilmente, se l’immaginò nell’atto di salutare lui, la mano mossa appena. E, contrariamente alle sue abitudini pragmatiche, non giudicò quella fantasia inopportuna o irrazionale. La trovò confortante.
La rivide seduta davanti a lui, montagne di cibo a dividerli. Sentì la pelle giallastra imporporarsi, ripensando all’imbarazzo di quella conversazione stentata, pronta a cadere nel baratro delle cose insensate che ultimamente sembravano aver trovato lui come bersaglio.
Come se essere un insegnante e una spia triplo giochista, non fossero attività già di per sé complicate.
Facendo leva sulle braccia rachitiche, cercò di tirarsi un po’ più su, scalciando via le coperte e cercando di appoggiare la schiena al muro alle sue spalle. Nel farlo, pensò a quanto si sentiva strano nel compiere le azioni più banali. Come quando si legge un libro e il tuo personaggio preferito si lava i denti e tu sai che c’è qualcosa che non va, perché è un’azione talmente ordinaria che abitualmente, il tuo personaggio del cuore non compirebbe, a meno che non debba salvare il mondo con lo spazzolino o che quel dentifricio non sia avvelenato tanto da compromettere lo sviluppo del racconto stesso.
Severus mosse il capo come per scacciare un insetto molesto. Stava ricominciando.
Ecco che pensava alla biondina stralunata e i suoi neuroni, così mirabilmente funzionanti fino ad un paio di mesi prima, s’ingegnavano a creare elaborate congetture sul perché di…
Nulla. Assolutamente nulla di degno d’attenzione da parte dell’oscuro pozionista, distraendolo dal tentativo di cercare di conservare la ragione e ricordare che cosa aveva in programma quel mattino.
Lezione? Sicuramente. Il giorno libero era trascorso da un bel po’ d’ore, eppure Severus, invece di essere giù nei suoi umidi sotterranei, se ne stava tutto allegro - mai modo di dire fu più inappropriato- nel suo letto.
Fece un rapido calcolo mentale. Che giorno era? Martedì? Venerdì? Probabilmente mercoledì se ieri era il suo giorno libero, riflettè ma, la data del giorno? Da qualche parte nella sua mente lampeggiò la parola novembre, ma nessun’altra indicazione temporale utile venne a soccorrerlo.
 Severus Piton si passò una mano sulla fronte, cercando di ritrovarsi in quel luogo pacifico che era la culla della sua concentrazione. Ma non ci riuscì.
Immagini più o meno note si levarono dalla polvere della memoria, confondendosi e creandone di nuove.
Con indicibile sollievo, abbandonò ben presto l’idea di mettere in ordine razionale i giorni e gli impegni e decise di dedicarsi a quell’attività che negli ultimi tempi sembrava aver coinvolto e intrappolato tutto il resto.
Cercare di capire qualcosa in quell’ammasso di visioni, allucinazioni smaliziate e sogni negli universi del possibile. Allungò la mano sul tavolino a lato del letto, abbandonato lì a mo’ di comodino.
La sua bacchetta era lì, opaca. C’erano pure i vistosi segni dei suoi polpastrelli, non solo sull’impugnatura ma anche per tutta la sua lunghezza. Santissimo Salazar!
Severus arricciò il naso. Un altro paio di serate così e sarebbe diventato uno straccione alla Remus Lupin, con gli abiti stazzonati e la bacchetta tutta unta.
Immaginò sé stesso con una bella giacca color muschio, con toppe di cuoio sui gomiti e pantaloni di velluto senza piega e tremò. Meglio anima nera odiata da tutti che compagnone trasandato.
L’afferrò quasi con disgusto, sfregandola con un lembo della coperta. Due o tre scintille azzurrine scoccarono felici, lasciando nell’aria un vago odore di zolfo. Severus starnutì.
Si girò di scatto, recuperando uno dei suoi larghi e grigiastri fazzoletti di stoffa che teneva sotto il cuscino, - un’umile abitudine che aveva conservato dai suoi primi anni Babbani- e si soffiò il naso, cercando di fare il minor rumore possibile, benché fosse solo -questa era invece un’abitudine che aveva acquisito a Hogwarts, dove aveva appreso che non era bene soffiarsi il naso in presenza di certa gente-.
Ricacciò il fazzoletto sotto al cuscino, inspirando e risistemandosi contro al muro, mettendosi un po’ comodo. Cominciava ad apprezzare in modo maggiore i suoi momenti di pausa.
Il fatto che ultimamente si riposasse parecchio, non aveva ancora intaccato la sua personalità di uomo costantemente attivo e attento ai dettagli e ai suoi compiti. Per ora.
Puntò la bacchetta verso la finestra e quella si chiuse docilmente, abbassando anche il gancio che la teneva serrata. Perfetto. Severus Piton iniziò a pensare.
… aveva visto il futuro. Severus aggrottò le sopracciglia. No, non era il futuro quello. Era solo un percorso diverso, dove le sue scelte l’avevano portato a vivere quello a cui aveva ambito per tutta la vita.
Lily, la Lily quindicenne, aveva ragione: era quello il vero desiderio del suo cuore.
Possedere Lily a qualsiasi prezzo. Poco importava che la moneta di scambio fossero vite di altri e la sconfitta di quella che, genericamente, definiva la compagine del bene -flash di Silente che lo salutava con la mano-.
Severus si coprì gli occhi con i palmi delle mani, oberato da troppi concetti che lo assalivano e lo punzecchiavano. Lily aveva detto che lei era lui e Lily assieme. Quindi, a rigor di logica, lui doveva conoscere già quel futuro e doveva, anche se non sapeva come, avere il potere di comprendere le allucinazioni. Forse anche poteva controllarle. avvertì un brivido di piacere che cercò di reprimere il più in fretta possibile. Chiamare Lily a suo piacimento …
Scacciò quel pensiero, spronandosi a continuare nel suo ragionamento. Non aveva bisogno di altri sproloqui su ciò che desiderava ma, tuttavia, come era stato piacevole ammette con sé stesso ciò che veramente voleva, dentro a quell’incubo! Non si sentiva affatto pentito di aver espresso concetti -ributtanti a pensarci a mente lucida- come il voler immolare la felicità di Lily Evans pur di realizzare la sua o il voler fregarsene di vedere l‘Ordine della Fenice disossato pur di avere ciò che gli spettava.
Ma ora era sveglio ed era nella realtà, perciò sentì i suoi sentimenti deviati in un’unica scelta. Quella della contrizione e dell’autocritica. Il pensiero di essere un’ipocrita non lo sfiorò minimamente.
Era di nuovo nel mondo vero e lì, la coscienza gravava sugli atti di chiunque. Anche su quel triste sasso che lui aveva nel torace e che si intestardiva a chiamare cuore.
Chiuse gli occhi e provò a rivedere il funerale. Cercò di abbandonarsi ad uno stato di veglia per meglio catturarne i particolari, ma l’unica cosa che il suo cervello riprodusse, fu la visione di fittizia di quel futuro che lui aveva progettato per Lily, se il Signore Oscuro l’avesse risparmiata.
Sarebbero fuggiti. Severus non sapeva dove, ma aveva sempre immaginato un posto piccolo, con case dagli infissi in legno e dalle tegole sbeccate, circondato da boschi fitti e silenziosi.
C’era un particolare ricorrente in quelle sue fantasticherie: la luce dorata del sole che filtrava nel fogliame, illuminando la terra umida e coperta di foglie secche. Quella luce calda che rendeva i capelli di Lily rossi e lucenti, tanto brillanti da renderli visibili ovunque, in modo che lui potesse trovarla sempre.
Avrebbero avuto un casa e Lily, oh, Lily, avrebbe presto dimenticato ciò che aveva perso, in favore di ciò che aveva guadagnato - Severus stimava due settimane quando era di buon umore, arrivando fino a tre mesi quando credeva di non riuscire a portare a termine correttamente il suo piano-.
Vedeva loro due seduti in un soggiorno, o in cucina, ovunque nella loro dimora allegra e ordinata, ma sempre ridenti e con gli occhi brillanti di gioia ed entusiasmo perché loro quella vita l‘avevano davvero voluta e l‘avevano realizzata.
Ogni volta, arricchiva le sue visioni di innumerevoli dettagli, dialoghi e situazioni.
Come se stesse tracciando il copione della sua utopia.
E all’epoca, tra riunioni di Mangiamorte, morti, patti infranti e lotte, sembrava un paradiso a portata di bacchetta. L’unica certezza incancellabile nella desolazione più totale, creata dalla paura e dal terrore. Quanto era stato ingenuo. Quanto ancora lo era, perché per lui quelle fantasie familiari erano tutt’ora un riparo dal grigiore della quotidianità.
Frammenti mai vissuti di Lily che spalancava una finestra, cercando di afferrare una stalattite di ghiaccio, sorprendendosi al contatto con il freddo. Lily che si addormentava, raggomitolata e con il sorriso sulle labbra. Lily davanti allo specchio, intenta a provarsi un vestito, facendo facce divertite al suo riflesso.
Non c’era paura, non c’era timore né angoscia nel futuro ideale progettato da Severus Piton e l’idea che quel futuro Lily se lo fosse già costruito con James Potter, non lo toccava.
Il suo era migliore.
Il suo era quello giusto per Lily, quello in cui lei avrebbe dovuto vivere.
Quello in cui lei avrebbe voluto vivere.
La morte di Lily non l’aveva fermato. Severus Piton andava avanti, ricostruendo sempre con maggior precisione quelle scene di vita che non avrebbe vissuto mai, attingendo dalla sua memoria e creandone di nuovi.
Si emozionava persino pensando a come avrebbe reagito se lui le avesse regalato un gatto. O se le avesse preparato la cena. Una passeggiata sotto la neve, insieme. In giardino magari, nella serra.
Severus Piton si cancellò in fretta il sorriso trasognato che aveva solcato il suo viso cattivo.
Quell’allegria nel sognare era immotivata. A che scopo abbandonarsi a quelle fandonie mentali?
Era come cercare la bontà di Lily in quella creatura diabolica, solo per trarne conforto.
E, cosa più importante, le sue erano davvero fantasie senza fondamenta e possibilità perché, a quanto gli aveva mostrato Lily - O lui stesso, ad ascoltarla-, sarebbero rimaste tali anche se lui fosse riuscito ad averla tutta per sé. Anche senza Potter tra i piedi, avrebbe perso.
Nel futuro che aveva voluto per loro, lei sarebbe morta dopo solo un anno. Si sarebbe uccisa.
L’immagine di Lily -quindicenne- con la gola squarciata e nera di sangue, si riformò nella sua mente, rempiendolo di dolore e avversione.
Quell’immagine rappresentava la disgregazione del suo futuro esemplare.
Severus s’incurvo su sé stesso, rigirandosi la bacchetta tra le dita magre e nodose. Cercava di essere razionale, ma l’unica domanda che gli tormentava l’anima era: come era accaduto?
Dove aveva sbagliato in quel futuro, in cui Lily era sopravvissuta solo un anno più rispetto all’esistenza che lui aveva pronosticato?
Il dolore, è stato il dolore a ucciderla, rifletté Severus, soppesando la sua bacchetta, le spalle incurvate come se si vergognasse. Il dolore per la morte di Potter e del figlio.
E lui, vedendola così devastata, avrebbe visto il loro futuro insieme ridursi in cenere. Forse le aveva pure dato un mano a togliersi la vita, con tutto quell’egoismo che si portava appresso…
No. Io non l’avrei mai fatto, io l’avrei salvata, si disse, scosso da quelle idee meschine.
Il suo pensiero tornò di nuovo al funerale e si corresse. Ci avrei provato, ma non ci sarei riuscito.
Severus fletté inconsciamente il braccio sinistro. Per quanto fosse disdicevole e massacrante, pensandoci adesso, avrebbe voluto conoscere anche quel futuro.
Tanto per non precludersi nessuna opzione …
Stupido demente, si disse tra sé e sé. Non gli bastava abbandonarsi al passato ed essere costantemente vittima del giudizio di uno spettro?
Purtroppo per lui, quegli interrogativi non sortirono alcun effetto. I suoi desideri e il suo bisogno di Lily cozzavano con ogni tipo di morale e contro la sua etica interiore.
Come se ne avesse mai avuta molta.
“Potresti almeno aiutarmi a comprendere” borbottò, vergognandosi subito dopo. La sua voce echeggiò cupa contro le pareti di pietra e intonaco. Sentì il rossore affiorare sui suoi zigomi giallastri e si odiò. Stava davvero cercando di parlare con qualcuno che vedeva solo lui e che ora, non era nemmeno presente nel modo in cui può esserlo uno spirito? Con un’allucinazione?
Sì, lo stava facendo. Vinse l’imbarazzo e riprovò, sussurrando il suo nome.
“Lily?” mormorò flebile, rivolto al silenzio pigro nella sua stanzetta monacale. Niente.
Sbuffando, si alzò dal letto, cercando di non muoversi troppo. Aveva un insospettabile dolore alle giunture, come se si fosse rotolato su un letto di chiodi. Si avviò verso l’armadio, andando a cercare una veste pulita.
Aprì le ante con piglio deciso, incrociò le braccia e si mise a fissare i suoi vestiti ordinatamente appesi.
Ogni mattina gli toccava una scelta così difficile.
E dire che quelle vesti erano tutte nere e tutte uguali.
Ne afferrò una e si diresse al bagno, senza accorgersi della finestra di nuovo spalancata e della ragazza dai capelli rossi che lo scrutava ridacchiando, seduta sulla soglia.

 ***


Minerva McGranitt odiava le missioni da gufo postino.
Soprattutto quando non erano missioni e anche perché, se aveva una seconda natura animale, era quella di un gatto. Un gatto con gli occhi cerchiati e lo sguardo vivido, ora impegnato a salire silenziosamente gli scalini verso le stanze di Severus Piton. Se Minerva McGranitt avesse avuto un paio d’anni di meno, -qualche decina o ventennio- sarebbe stata gelosa della nuova sistemazione del collega di Pozioni, ma la vecchiaia e un’anca non più molto solida, le avevano fatto apprezzare il suo ufficio ai piani intermedi, con l’accesso facilitato da scale semoventi. Altro che torri oltre il settimo piano, inerpicate su alture di scalini stretti e torti su sé stessi come viti. Con gli spifferi e l’inverno alle porte, non si sarebbe sorpresa di trovare il professore di Pozioni stecchito e congelato su una seggiola vicino al camino spento o abbracciato ad un calderone.
Il gatto emise un miagolio di disapprovazione. Non era normale che Severus Piton passasse tutto quel tempo con sé stesso, con l’unico conforto delle sue pozioni, tra una lezione e una riunione tra quei cani di Mangiamorte. Il gatto zampettò in una delle tante nicchie con le piccole vetrate scavate nel muro.
La luce di un tiepido sole gli fece dilatare le pupille feline, costringendo a strizzare gli occhi cerchiati.
Si piegò in avanti, tendendo le zampette tigrate e sfoderando gli artigli. Le sue povere ossa avevano bisogno di qualcosa di più di quello stretching mattutino per rimettersi in sesto.
Con passo leggero arrivò all’ultimo pianerottolo, dove si ritrovò davanti una porta di noce scuro con vistosi cardini e parti in ferro. Al posto della maniglia, pendeva un semplice anello lucido e non c’era nemmeno un batacchio per richiamare l’attenzione dell’inquilino. Minerva si esibì in un miagolio insoddisfatto.
Girovagò un attimo davanti alla porta e le sue iridi giallastre luccicarono, nel cogliere una lama di luce bianca.
La porta non era affatto chiusa. Era solo accostata.
Alzando la zampetta davanti a sé, la spinse di un poco, lo spazio necessario per sgusciare all’interno, la schiena inarcata e la coda ondeggiante.
Le orecchie puntute abbassate, pronte a captare suoni sospetti.
Oltrepassata la porta si ritrovò in una piccola anticamera quadrata e luminosa. Salì tre scalini e si ritrovò nella grande sala circolare della torre, illuminata dalla luce bianca e rarefatta del mattino, baluginante tra i vetri. Un raggio colpiva uno stretto specchio alla parte, creando un gioco luminoso che avrebbe abbagliato chiunque fosse entrato, ma non certo Minerva, trasfigurata nelle sue sembianze feline.
Il primo pensiero di Minerva McGranitt fu di soddisfazione. Il suo ufficio e le stanze attigue, tutto tende di tartan, pannelli di larice e stampe scozzesi erano ben più calde e confortevoli di quella sala semivuota, circondata da finestre piombate, ad archi stretti, con solo delle tende nere e impolverate che nessuno sembrava chiudere da anni. Era divisa a metà da un rialzo di pietra di tre scalini, che il gatto si affrettò a salire con circospezione, ponendosi al centro della stanza e osservando, dribblando le pile di libri ammucchiati ovunque e tre grosse scatole vuote, abbandonate al loro destino sugli scalini. Nella metà inferiore della stanza, trovavano posto armadi a vetrinette, una pendola sghemba e due quadri dai soggetti non identificabili appesi alla bell’meglio.
In quella superiore, troneggiava una scrivania con una gamba più sottile delle altre tre, ingombra di carte, penne  e tavolini bassi su cui erano disposte - provvisoriamente, sperò il gatto- file e file di provette e alambicchi e due o tre calderoni formato portatile. Una sedia di cuoio e bulloni era disposta, altro fattore poco comprensibile, in direzione di una delle finestre da cui si intravedeva la sagoma del Lago Nero.
Difficile immaginare Severus Piton, nervoso e cupo, seduto lì ad ammirare la bellezza delle aspre valli scozzesi. Il gatto, zampettando sul pavimento di pietra, il muso intelligente levato, in altri frangenti si sarebbe emozionato alla vista di quel panorama, ma ora la sua attenzione era calamitata da un tavolo, posto vicino ad una scala che saliva, senza dubbio, alle stanze di Severus Piton.
Un tavolo con le gambe quasi piegate sotto alla mole di cibo che se ne stava bello bello a crogiolarsi nel sole mattutino.
Le vibrisse di Minerva fremettero. La scusa di essere un povero single votato alla sua materia e al suo delicato ruolo di spia, non poteva giustificare tutto quello spreco, quell’ingordigia, quel…
Non voleva nemmeno pensarci.
Il suo giudizio su Severus Piton si riempì di nuove ombre. Per quanto fosse restia a giudicare dalle apparenze, trovò deprecabile il fatto che un insegnante se ne dovesse stare a passare il giorno libero rinchiuso tra libri e corbellerie culinarie. Prolungando quel giorno anche al mattino successivo.
Davvero indecoroso.
Il gatto inclinò il capo e un attimo dopo, al suo posto, si materializzò una donna con un severo cappello da strega dalla tesa larga, il profilo aquilino e gli occhi acuti incorniciati dai fini occhiali da vista. Teneva le labbra contratte in un’espressione perplessa, mentre studiava circospetta l‘ambiente. Con la trasformazione, i suoi sentimenti da gatto assunsero una dimensione nuova.
Si sentiva quasi dispiaciuta per Severus Piton e per i pensieri poco gentili che aveva espresso nei suoi confronti. Dopotutto l’uomo non stava certo passando un momento facile, diviso tra i compiti dell’Ordine della Fenice e il suo infinitamente necessario ruolo di spia nelle schiere di Voldemort.
Era assai comprensibile se aveva voglia di strafogarsi di cibo, pensò la donna, occhieggiando preoccupata delle patatine fritte mollicce, conficcate in quella che doveva essere stata una coppa di crema e gelato.
Provò a immaginarsi il collega intento a depredare quella tavolata, ma per quanto ci provasse, non ci riuscì. Notò che c’era anche della carne, sepolta sotto strali di dolciumi, confetture e piatti di verdure allegramente - o almeno lo erano state- disposte. Curioso. A quanto ne sapeva lei, Severus Piton era vegetariano.
Insomma, tutte quelle verdurine bollite e il fisico smunto suggerivano quell’opzione. Avvicinandosi lentamente, quasi che il mix di cibi sulla tavola potesse risvegliarsi, amalgamarsi e divenire un mostro pronto ad attaccarla,  Minerva McGranitt studiò attentamente le bottiglie assiepate in una zona della tavola.
Succo di zucca, Acquaviola, Tiramisuper… Bevande analcoliche?
Tra gli occhi svegli di Minerva si formò una piega sospettosa. Che fine aveva fatto il Severus Piton tutto vino elfico e solo-un-bicchiere-d’acqua-grazie? L’indagine tra i rimasugli di quella cena selvaggia la portò a fare altre interessanti scoperte, con solo il prezzo di sollevare cibo quasi  in decomposizione.
Contò sei bicchieri, ma solo due erano stati usati. Uno a un capo della tavola e l’altro all’estremità opposta.
C’era anche un piatto, con le posate accanto. Contò un’altra coppia di posate dove però la forchetta giaceva abbandonata tra delle pannocchie mentre il coltello, conficcato come una spada in un melone, aveva fatto crollare una pila di ciliegie, more e cioccolatini al whiskey. Trovò anche due salviettine usate. Una appena stropicciata e posata accanto all’unico piatto, l’altra semiavvolta su sé stessa, al riparo di una zuppiera di asparagi di Catalogna, tappezzata di macchie untuose.
Forse qualcuno -o qualcosa- era venuto a trovare il professor Piton per una cena.
Minerva McGranitt si ripromise di riscoprire chi fosse. Se si fosse ritrovata nella situazione di dover invitare quella medesima persona, si sarebbe premurata di proteggere il suo ufficio o la sua sala da pranzo con un Incanto Assolvipulente.
“Ti serve qualcosa, Minerva?” borbottò una voce scorbutica poco sopra di lei.
Minerva McGranitt alzò lo sguardo. Severus Piton, appoggiato alla balaustra con l’espressione guardinga, sostenne rigidamente quello sguardo acuto e perplesso assieme, apparso da sotto la tesa del cappello.
La strega inarcò le sopracciglia, accigliata. “Buongiorno a te Severus” disse sollevando il naso aquilino. “Volevamo solo sapere dove fossi finito stamani.”
Fu la volta di Severus inclinare lo sguardo: “Come vedi, sono qui” ribatté in tono piatto. Le pupille della strega, nell’udire quella risposta, luccicarono come capocchie di spillo, irritate.
Severus fletté le dita, temporeggiando. Distolse lo sguardo, aspettandosi una bella ramanzina sull’educazione e sul rispetto che andava tributato ai colleghi. Non che di solito non ne avesse, anzi, Severus era abbastanza ossequioso nei confronti di coloro per cui nutriva rispetto, senza mai scivolare nell’adulazione. Ma quella mattina, un po’ per il sogno e un po’ per lo strano tepore residuo della sera precedente, sembrava aver preso spunto dalla Lovegood, con una risposta secca e coincisa.
“Lo vedo Severus” ribatté con altrettanta schiettezza la strega, sorprendendolo. “Posso capire.”
Si tradì rivolgendo un mezzo sguardo alla tavola e al macello culinario che vi alloggiava. Gli occhi funerei di Piton si spalancarono ed egli si ritrovò a scendere rapido la corta scala, il mantello ondeggiante.
“No!”
Minerva si voltò di scatto, ritrovandoselo accanto. Piton impugnò la bacchetta e cominciò a far evanescere alcune delle cibarie nelle condizioni più penose, sotto gli occhi sbigottiti della McGranitt.
La donna lo fermò con un gesto del braccio. “Basta così, non mi devi spiegazioni.”
Severus, momentaneamente smarrito, ritornò nella sua abituale posa composta, rivolgendole un’espressione interrogativa. “Spiegazioni su cosa?”
“Su come gestisci le tue cene o quello che era…” occhiata imperiosa alla tavola, “… Questo.“
“Vedi, Severus, comprendo che quello che fai sia difficile da sostenere e forse anche ingiusto. Credo anche che tu possa ritenerti più libero in certe cose, dato il peso che ti porti addosso … Ma sii più attento a te  stesso.”
Lo sguardo della donna slittò velocemente da arcigno a vagamente gentile.
Voleva forse essere rincuorante? Con lui?
Severus Piton, assunse la sua miglior posa da misterioso personaggio le cui intenzioni non erano mai chiare. Aveva il sospetto che quelle parole si riferissero alla sua missione di infiltrato Mangiamorte, eppure si scoprì ad associare quelle parole al suo compito, altamente gravoso ma non mortale, di vegliare su Luna Lovegood, tendendole una mano in segno di amicizia.
“Forse dovrei dire ad Albus che non importa, almeno per oggi. Posso chiedere a Pomona di coprire le tue classi, naturalmente” il tono della strega era ritornato distaccato e professionale, il capo sollevato in modo altero. Era persino più alta di lui, cosa che non mancava mai di mettere Severus a disagio.
Lei era stata la sua insegnante e il fatto di non essere cresciuto più di tanto, lo rendeva ancora un po’ più alunno, piuttosto  che un docente al suo stesso livello. E come  un alunno, si ritrovò ad accampare scuse e giustificazioni, in tono basso. Minerva McGranitt era certamente gentile, ma lui aveva altre idee su chi poteva dividere i suoi pensieri e le sue intenzioni.
“Niente sostituzioni. In fondo, sono appena le …” Piton guardò di sbieco la pendola a muro.
“… Nove e mezza. Posso fare tutte le mie lezioni del pomeriggio, naturalmente.”
Le indirizzò uno sguardo freddo, pregando che si accomiatasse e se ne tornasse in classe. Dopotutto, lui non era l’unico insegnante di Hogwarts e anche la McGranitt avrebbe dovuto essere a insegnare ad una manica di teste di legno. Piton ebbe la vaga impressione che se lui cominciava a -non- fare qualcosa, dormire di più mattina per esempio, tutti cominciavano a farsi gli affari loro e a girovagare per il castello, abbandonando i loro doveri. Come se lui fosse l’unico docente a prendere seriamente il lavoro.
A parte forse Dolores Umbridge, anche se da quello che aveva visto ieri sera, era una diligente pazza sadica pronta a tutto pur di infliggere una giusta punizione.
“Perfetto” disse l’alta strega riportando Severus alla realtà, con un rapido ritorno ai suoi modi bruschi e distaccati. Lanciò uno sguardo all’orologio a muro, le labbra contratte.
“Ora è tempo della mia lezione. Confido, Severus, che tu non debba più ritrovarti in una situazione di questo tipo.”
 Gli occhi pungenti della McGranitt si soffermarono su di lui, pensosi.
“Quantomeno, prima di assentarti, avvisa.”
Severus Piton annuì rigidamente e tamburellò le dita sul tavolo, prima di domandarle, altrettanto bruscamente:  “Ti ha mandato Silente?”
La McGranitt si voltò sulla soglia. Incredibile quanto sembrasse altera e forte, anche senza fare assolutamente nulla. Aveva lo straordinario dono di apparire inarrivabile e meritevole di rispetto in qualsiasi momento. Severus Piton le invidiò quella naturale fermezza composta, senza che lei avesse fatto nulla in particolare.
Lui doveva essere sempre freddo ed indisposto per impedire agli altri di avvicinarsi. Cosa che a Minerva McGranitt, riusciva perfettamente naturale.
“Naturalmente” affermò brusca la McGranitt, dandogli la schiena e sparendo nell’ingresso.
Severus Piton si lasciò cadere su una delle sedie, cercando di mantenersi rigido e composto. Cosa non facile.
Doveva avere due lezioni nel pomeriggio con quelli del terzo e del primo. Assolutamente perfetto.
Quei bambini erano ancora così facilmente suggestionabili che non gli avrebbero reso il pomeriggio completamente obbrobrioso e sfiancante. Poteva stare tranquillo, si disse, eppure si accorse di essere ancora tormentato da tarli e interrogativi senza nome.
Per distrarsi, impugnò di nuovo la bacchetta, cominciando a pulire i resti della cena. Sollevò perplesso la crosta di quello che sembrava un pasticcio di carne, che recava i segni di quelle che sembravano zanne.
“Lovegood.”
Lasciò cadere la crosta, scrollando il capo. I ragazzi di adesso non avevano il minimo rispetto per nulla…
Severus rabbrividì. Ecco che ricominciava a ragionare come un anziano.
Come un vecchio rimbambito, lo corresse la voce di Lily.
“Smettila” le borbottò in risposta ben sapendo che non c’era nessuno. Fece evanescere un piatto di zucchine ripiene con insolita ferocia, puntando la bacchetta con troppa veemenza e colpendo la superficie rossastra di una delle zuppiere, schizzandosi la veste e la bacchetta.
Severus si fermò, contemplando la propria sbadataggine. Lui non era Minerva McGranitt composta e meticolosa in una sua azione. Non era Sirius Black, arrogante e intraprendente, tostissimo anche nella mera azione di grattarsi il naso. Non era Remus Lupin, comprensivo e amichevole nonostante la sua condizione da emarginato.  Lui era lui.
Era in grado di atteggiarsi da misterioso, da persona precisa e autosufficiente e, contemporaneamente, possedeva tutte le caratteristiche opposte, quando era sé stesso, nella sua solitudine.
A volte, aveva l’impressione di non essere cresciuto mai, ma solo di aver rafforzato una facciata severa e sprezzante, sempre intento a giudicare ciò che lo circondava da una posizione quantomeno scomoda: quella di anziano rompiscatole.
Era l’essere Mangiamorte che l’aveva reso così duro e sarcastico? O erano doti innate?
No, si disse, ero così anche prima. L’immagine di un ramo spezzatosi addosso ad una bambina dalla faccia cavallina, lo confermò. Era sempre stato perfido e indisponente, ma solo da adulto era riuscito a ritirare fuori quel lato del suo carattere per difendersi.
Lo era stato anche nei suoi anni a Hogwarts, ma era difficile fare i saccenti arroganti quando si era continuamente esposti alle umiliazioni e alle prese in giro.
Tergeo.” La veste e la bacchetta tornarono pulite. Fece scomparire un vassoio di risotto ai funghi, ormai cementato in un unico grumo dalla consistenza rocciosa.
Aveva fatto sparire buona parte delle pietanze, quando, sotto ad una zuppiera di porcellana blu dalle dimensioni di una piscina, rinvenne due piccole rape violette, parzialmente avvolte in un tovagliolo macchiato, a sua volta schiacciato da un vassoio.
‘Perché mangia solo quelle cose da coniglio?’
‘Niente rape per gli schizzinosi.’

Che maleducato era stato. No, ho fatto bene. Si stava avvelenando da sola.
Però -si disse- era solo una cena, per educazione avresti dovuto farle fare ciò che voleva.
Da quando l’educazione vuol dire farsi gli affari propri,  fregandosene dell’educazione stessa? Replicò a sé stesso.
Si sedette al posto che aveva occupato Luna Lovegood, abbandonando la bacchetta sul tavolo. Rimase fisso a studiare quelle piccole rape, aspettandosi da un momento all’altro di vederle balzare e correre in giro per la stanza. Pensieri da Lovegood.
Strano. Non provava alcun fastidio ora, mentre rifletteva sulla poliedrica essenza di quella ragazzina dagli occhi svagati e roteanti. Provava più fastidio verso sé stesso per averla cacciata a quel modo, tanto sgarbato che persino lei voleva andarsene. Anche se, a dirla tutta, era stato condizionato da ben altri fattori.
Severus Piton sentì uno sgradevole rossore affiorargli alle guance. Aveva provato pace, per un momento, stando accanto a Luna a fissare le stelle. E poi aveva provato odio e gelosia. L’aveva scacciata e l’aveva trattenuta… Non c’erano dubbi. C’entrava sicuramente Lily, in quell’altalena di eventi.
Ma poi anche l’odio si è dissolto, Severus congiunse le mani pensoso.
Una scritta sanguigna attraversò i sui pensieri come una meteora, agitandoli.
Io non sono normale e non sono autorizzata a fare la spia.
Avvertì le sue mani più fredde del solito, nel ricordare la scoperta di quello sfregio sulla pelle della ragazzina e di come l‘aveva curata. Era stato un momento così strano, delicato quasi, a cui non aveva pensato veramente. Si era sentito bene nell’aiutarla, nel far sparire quelle parole vergate con il prezzo del sangue. Aveva apprezzato e riconosciuto la gratitudine negli occhi assenti di Luna e ne era stato quasi felice.
E che sciocca coincidenza. Quella frase sembrava davvero associabile a lui, come metà degli incoerenti pensieri di Luna Lovegood…
Severus Piton scattò in piedi, d’improvviso agitato. Era ovvio che c’era un legame tra le allucinazioni e il suo stupido lavoro da balia! Qualunque cosa potesse dire Silente…
Ecco, pensò Piton stringendo le dita a pugno. Un pugno molto magro e nodoso, ma lo stesso tremante per l’eccitazione del trionfo. Silente sapeva delle allucinazioni, era l’unica spiegazione!
Anzi, forse lui stesso ne era il mandate. Come aveva fatto a sfuggirgli un dettaglio così sottile eppure tanto evidente? Anche quella fosse stata solo una supposizione -di cui Severus ne aveva tuttavia la certezza-, Silente sapeva come Piton usava il Pensatoio e di certo non si sarebbe tirato indietro nel spiegargli eventuali effetti collaterali…
Perché aveva titubato, vagheggiato, tormentandosi quando la soluzione era così a facile portata?
Se questo era il quadro, Luna Lovegood era il mezzo per… bè, sicuramente rappresentava la tipica pedina che Silente avrebbe potuto sfoggiare in uno dei suoi mirabili, macchinosi e assolutamente inutili piani per regalare conforto ai derelitti. Il pensiero che Albus Silente lo considerasse alla stregua di un mentecatto desideroso d’affetto, fece contorcere i lineamenti ringhianti di Piton.
L'immagine confortante di Luna sparì. Sentì di detestarla, come la sera prima alla finestra ma questa volta ne comprendeva il motivo. Quella sua aria ingenua, sognante..
La rendevano la marionetta perfetta per le altruistiche intenzioni del Preside!
Non era giusto essere trattati così.
Provò un moto di disgusto verso sé stesso. Si vantava di essere così bravo a capire le sottigliezze dell’animo umano, analizzare gli strati mutevoli delle azioni altrui… ma quanto era stato cieco!
“Anche opera tua, immagino” ringhiò, guardandosi attorno, nel vano di ogni finestra, quasi aspettandosi di veder spuntare Lily da uno dei davanzali. Sperava quasi che lei gli rispondesse, tanto per avere conferma della sua lucida follia. Attese ancora un attimo, finché la rabbia non minacciò di sopraffarlo.
Infine, uscì a passo di marcia, il mantello svolazzante e il viso contorto dall’ira.
Scese le scale solennemente, formulando e preparando accuratamente ogni domanda da porre a Silente.
Non voleva dargli tregua, né il tempo di accampare spiegazioni  in cui sicuramente c’entravano vaghe argomentazioni quali sacrificio, missione e amore.
Severus Piton era talmente preso dallo stilare quel suo interrogatorio per il principale che, quando giunse al secondo piano quasi oltrepassò il granitico mostro che custodiva l’ingresso dell’ufficio.
Tornò indietro con le spalle curve, ma non fece in tempo a sussurrare la parola d’ordine -Banana Split - che quello si animò e lo interruppe.
“Il Preside non c’è” gracchiò il Gargoyle stridulo, guardando infastidito la nera sagoma di Severus Piton.
L’insegnante ricambiò con altrettanto disprezzo, come se quella brutta statua cornuta fosse stata una dei suoi alunni e non un pezzo di arredamento incantato.
“E non affannarti a chiedere quando tornerà a Hogwarts, perché non ce l’ha mica detto!” gorgheggiò il ritratto di una strega con un alto cilindro appesa alla parete vicina, in tono altrettanto giocondo e gli occhi gialli fissi su Severus che, a sua volta, squadrava arcigno il muro che celava l‘accesso all‘ufficio del Preside.
“Forse non lo dirà nemmeno a te, perciò vai pure dove devi andare, nonnetto” rincarò il Gargoyle, scoprendo le zanne in quello che voleva essere un sorriso grottesco.
“Sta zitto, brutto sasso” ringhiò il pozionista. “Ha parlato quello bello” grugnì la statua in risposta, prima di scivolare di nuovo nel suo stato pietroso.
Severus Piton strinse gli occhi, allontanandosi nel corridoio senza una parola. Avrebbe dovuto dire due paroline a Silente sul ‘custode’ del suo ufficio.
Oltre ad interpellarlo in modo serrato sulle allucinazioni, sul Pensatoio, sulla Lovegood, cercando di avere risposte serie e inoppugnabili, naturalmente.
I passi echeggiavano cupi sulla pietra, e ogni volta che i suoi occhi neri incrociavano la luce opalescente che filtrava da fuori, sembrava che ne venissero feriti.
Non era ancora mezzogiorno, pensò. Il brusio degli studenti affaccendati nelle lezioni, qualche grido distante e frasi spezzate, che costituivano il sottofondo della routine di ogni giorno normale a Hogwarts rimbalzava tra le pareti di pietra, assieme ai passi degli alunni in giro per i corridoi.
A Severus Piton, quei suoni sembrarono così distorti e incoerenti che era come se li udisse la prima volta.
Ultimamente si era rifugiato - Anche se lui amava pensare di esserci stato costretto- in situazioni così irreali e assurde che l’ordinaria vita al castello gli risultava incomprensibile.
Era qualcosa di ordinario, talmente spiazzante nella sua ripetitività che non si era mai soffermato a pensare ad altro, a parte il suo piccolo svago da spia.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Sveglia, colazione, lezione, pranzo. Lezione, pausa, lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Si soffermò davanti a una delle feritoie trasformate in finestre e si costrinse a fissare quella luce accecante e incolore, senza sbattere le palpebre.
...Lezione, cena, ufficio. Sonno. Sogni.
Provava lo strano desiderio di uscire un po’ alla luce, a respirare aria gelida e ventosa.
Aria vera, non quella creata dai sogni. Non quella che sapeva di gigli stantii, di marionette lunatiche o di vecchi fuori di zucca.
Si aggiustò i polsini sulle mani scheletriche, si sistemò il mantello al collo chiudendone gli alamari e si avviò allo scalone. Il suo passo si era impercettibilmente velocizzato, tanto che quando arrivò alla Sala d‘Ingresso ansimava leggermente, le mani nelle tasche del mantello.
Non incontrò nessuno, per sua fortuna. Senza avere una meta precisa, con l’unica prerogativa che ovunque fosse andato sarebbe stato un posto pieno di luce, uscì nell’aria frizzante della tarda mattinata, lasciandosi alle spalle quei suoni che gli parevano tanto insopportabili.
Assordanti.
Severus Piton, con i capelli svolazzanti in faccia, scese per la strada lastricata e imboccò rapidamente uno dei larghi sentieri serpeggianti verso il lago, incurante della neve farinosa che si appiccicava al mantello, all’orlo dei pantaloni e agli stivali. Si era reso conto di essere terrorizzato dal rumore della normalità.
E, cosa ancor più spaventosa, di esserne perfettamente conscio.
Invano, cercò di riportare sé stesso sul tragitto verso il castello, verso anche solo le serre -un buon compromesso tra la luce e la civiltà di Hogwarts-. Invano, tentò di arrestare il suo cammino.
Quando si rese conto di essere arrivato sulle rive del Lago Nero e di essere avvolto dalla tanto agognata luce ossea, s’immobilizzò. Avrebbe potuto mettersi a urlare come fanno gli esseri umani travolti ed oppressi da schiaccianti sensazioni di desolazione e sconforto. Avrebbe potuto urlare per sfogarsi e scacciare il disappunto verso la confusione, le ingiustizie, verso i suoi sentimenti patetici e sventurati e la bramosia che gli ardeva nel cuore. O urlare e basta, tanto per fare qualcosa che non fosse il pensare cervellotico e dannoso che gli comprimeva la testa.
Ma dopo sette libri, sette film di cui cinque mal riusciti, innumerevoli fan fiction e i tredici capitoli di questa storia, sappiamo che Severus Piton non era un essere umano normale.
A prestargli attenzione, forse lui stesso nemmeno credeva di essere un uomo. Era troppo egoista e spregevole.
Un uomo che pretendeva e basta, un uomo a cui era stata tolta la capacità di dare.
Perciò, l’unica cosa che fece, fu sedersi su quella terra spolverata di neve, mentre il calore tiepido del debole sole e lo scintillio argentato dell’acqua lo distraevano con la loro semplice, normale, ordinaria bellezza.

***


Luna Lovegood sollevò gli occhi bulbosi dal libro che stava consultando.
Un dei passi le sfilarono accanto, ma non si fermarono. Forse non l’avevano notata, imboscata com’era tra l’intrico di alcuni cespugli frondosi, punteggiati di fiocchi spessi, residuo di una precedente nevicata. La ragazzina si mise in ascolto, sfilandosi la bacchetta da sopra l’orecchio.
Non udì più nulla, ma non si sentiva granché sicura a starsene nascosta lì. Certo, dubitava che qualcuno avesse voglia di farsi una gita in riva al lago a novembre inoltrato, a meno di non essere lei, ma la prudenza per una volta venne a consigliarla, come una buona amica. Luna si affrettò a infilare i libri della biblioteca, il blocco da disegno e le pergamene di appunti nella borsa già stracolma, pregando che la cinghia non le si rompesse. Cacciò anche le penne d’oca e le boccette d’inchiostro nelle tasche, incuneandole attentamente tra il Saggiomaglio e una Radiogorda di scorta.
Se la mise a tracolla, cercando di fare attenzione a non fare rumore. Si sentiva protetta, sotto alla bassa volta di rami odorosi di legno e resina, ma era tempo di cambiare posto.
A Luna, non importava tanto di essere beccata in una specie di tana per cervi quanto di essere sorpresa laggiù con i noiosi tomi della biblioteca. Anche se non ci aveva trovato nulla di utile su allucinazioni, spettri e quant’altro si potesse avvicinare ad una ragazza dagli occhi pieni d’odio con il brutto vizio di apparire e sparire a sorpresa, le avrebbe dato fastidio dare l’idea di una che non teneva con cura le cose prese a prestito.
Luna Lovegood metteva in alta considerazione le cose altrui. Gli oggetti posseduti da altre persone si meritavano la massima premura nell’essere maneggiati.
Aveva deciso di saltare le lezioni quel giorno, vero. Ma fare la figura della studentessa poco diligente era un’inezia rispetto a quella di venir considerata un’irresponsabile.
Con le mani gracili e bianchissime, riaprì il varco fra i rami, scivolando senza difficoltà tra quelli senza che con le loro piccole foglie puntute, osavano trattenerla. Uno dei rametti le sfiorò il viso e Luna la considerò come una carezza d’addio, da parte di quel posto che aveva custodito lei e le sue piccole indagini in segreto.
Si rialzò in piedi, spazzolandosi la gonna e il mantello, piegata un po’ su un fianco per controbilanciare il peso della borsa da cui i libri, pesanti quanto inutili, spuntavano come lapidi.
Cacciò le lunghe ciocche biondastre oltre la spalla, facendo roteare gli occhi sulla riva, proteggendoli con il palmo della mano, un po’ sporco di terriccio.
La luce bianca era ancora accecante, tuttavia era divenuta giallina là dove i raggi del debole sole cercavano di filtrare. Luna si soffermò un po’ a osservare il cielo, mentre un vento freddo e secco cominciava a insinuarsi fra i suoi capelli disordinati, liberandoli dalle foglioline che vi erano rimaste intrappolate.
Luna Lovegood era pronta ad andarsene, ma trovò qualcosa di più interessante del suo ritorno al castello.
Sulla riva una sagoma nera sostava immobile, seduta.
A Luna bastò un singolo, lento abbassamento di palpebre per capire chi fosse.
Conosceva solo una persona in grado di essere tanto cupa e tanto nera in mezzo ad un mare di luce.
Luna inclinò il capo, soppesando la situazione. Severus Piton era un insegnante e avrebbe potuto tranquillamente trascinarla al castello, metterla in punizione o fare la spia agli altri insegnanti.
Eppure si era dimostrato tanto gentile con lei, l’aveva aiutata, l’aveva guarita da quelle orribili parole sulla pelle. Aveva diviso la sua cena, con lei.
Luna gonfiò le guance, poi le sgonfiò, poi le rigonfiò.
Le avrebbe chiesto perché era lì e Luna avrebbe dovuto spiegarglielo o mentirgli, come la sera prima.
E se gli avesse mentito, sarebbe stata male di nuovo. A Luna Lovegood non piaceva mentire; lei non sapeva perché, ma posso spiegarlo a voi lettori dicendo che andava contro la sua natura schietta.
Guardò i libri nella borsa - l’insegnante non doveva vederli- e tentò di coprirli con un lembo della spessa sciarpa di lana viola acceso. Non ci riuscì, perciò se la tolse,e la depose sopra alla borsa semiaperta, rimanendo con la gola candida alla mercé del vento gelido.
Luna strinse le mani a pugno, alzando una gamba e rimanendo nella posa di meditazione del fenicottero che lei e suo padre adottavano per riflettere su una decisione importante.
Dopo lunghi secondi, ondeggiando nell’aria, rimise il piede a terra e saltellò verso Severus Piton, rimanendo sulle zolle di terreno meno coperte di neve, cercando di non far rumore.
Si avvicinò claudicante per il peso della borsa, un po’ ingobbita, le palpebre un po’ abbassate. La brina levata dal vento, vorticava attorno a lei e le sue scarpe leggere sembravano non lasciare alcuna orma sul terreno che calpestava. Non fece il minimo suono nell’avvicinarsi a Severus Piton.
Seduto per terra, con più naturalezza del solito dopo aver bandito l’austerità dalla sua persona, almeno per quel folle minuto in cui aveva disperatamente voluto vedere la luce ed esserne avvolto, Severus Piton non pensava a nulla. Le semplici azioni dell’essere seduto per terra e di fissare le increspature dell’acqua scintillante, avevano assorbito e schiacciato ogni suo altro pensiero.
Luna si fermò giusto due passi dietro di lui, alla sua destra, abbastanza per poter vedere lo sguardo dell’insegnante fisso sull’acqua. Tremendamente fisso.
Luna Lovegood ebbe il sospetto che tutti i suoi progetti di non farsi scoprire e le preoccupazioni, non fossero nulla più che sciocchezze. Sgranò gli occhi così tanto che se qualcuno le fosse passato vicino, si sarebbe affrettato a ricacciarglieli nelle orbite prima che le cadessero a terra.
Quello non era Severus Piton. Era un pupazzo di Severus Piton seduto.
Prima che anche la mascella le si sganciasse per la sorpresa. Luna Lovegood sfoderò la bacchetta e la tese, la mano tremante. Il movimento provocò una reazione nel Pitonpazzo -Luna si complimentò con sé stessa per il neologismo che aveva creato- che si voltò verso di lei e gracchiò, irrigidendosi ancora di più:
“Dieci punti in meno alla tua Casa se non posi quella bacchetta, Lovegood.”
Luna inclinò il capo con un’espressione stupita. Il suo viso non sembrava nemmeno il suo con la sorpresa dipinta negli occhi e nella piega incerta delle labbra.
Quando il pupazzo parlò ancora, con altrettanta sorpresa, Luna Lovegood capì di aver fatto un grosso grossissimo errore.
“Cosa ci fai qui?” il luccichio sprezzante fece intuire a Luna che quello era davvero il suo insegnante di Pozioni e non un impostore pupazzo a grandezza naturale.
“Girini” rispose Luna in un sospiro poco convinto.
Le sopracciglia di Piton si congiunsero in un’unica, severa linea nera. “Ma davvero.”
Luna si reinfilò la bacchetta sull’orecchio, restando in silenzio. Non sarebbe riuscita a mentire, non per due giorni di fila e non con la stessa persona.
“Perché non sei a lezione?” le domandò ancora Piton, con straordinaria calma. Luna, sempre con lo sguardo fisso a terra borbottò ‘Ricerche’.
In fondo, non era nemmeno una bugia vera e propria, no?
Era un pensiero talmente concreto che la mente di Luna lo scacciò in fretta, e lei rimase a fissare inebetita l’insegnante, senza il coraggio di sorridere.
Non riusciva a capire come il Severus Piton che le stava davanti potesse corrispondere a quello della sera prima. Era una differenza così sottile che lei si limitava ad avvertire, ma non ne capiva la natura. Era glaciale. E sembrava che tutto quel gelo fosse indirizzato a lei.
Era troppo calmo. Non angustiato, ringhiante o amareggiato. Era come un cassetto liberato dai sogni e riempito con dei calzini di spugna. Non era pacificato. Era svuotato.
Severus Piton la stava studiando allo stesso modo. C’era qualcosa di diverso in Luna Lovegood.
Sembrava più normale che mai, con lo sguardo furtivo, la schiena curva, il mordersi il labbro, pensierosa.
Severus si accorse, con un’amara punta di delusione, che Luna Lovegood ora gli sembrava uguale a tutti gli studenti e alle ragazzine adolescenti banali che vedeva aggirarsi per i corridoi di Hogwarts, cinguettanti frignanti e tentate dalla menzogna. Come se Luna Lovegood avesse improvvisamente deciso di impegnarsi nella vita, facendo qualcosa di reale. Qualcosa di utile.
A Severus quel pensiero risultò insopportabile. Eccezion fatta per l’aspetto strampalato -mantello slacciato, cravatta a fiocco allentata, vegetazione tra i capelli, scarpette sporche-, quella davanti a lui non era più la strana creatura che gli aveva donato un attimo di tregua, e che l’aveva messo in imbarazzo o a disagio, rendendolo una persona qualunque, distogliendolo per un po‘ dalla grigia contemplazione della sua vita. Era una marionetta addestrata a dovere per renderlo un mansueto e docile uomo di Silente.
Cercò di studiarla in quegli occhi lunari che sembrarono riflettere solo la sua delusione.
Avrebbe voluto urlarle addosso e ricacciarla a scuola -dove a giudicare dalle foglioline e dagli aghi nei capelli- sembrava non essersi addentrata da un po’ ma Severus si limitò ad alzarsi.
La luce intorno a loro non era più abbagliante, anzi, il cielo grigio ferro cominciava a minacciare pioggia.
Severus Piton si alzò lentamente, evitando di guardarla. Era ora di finirla con quella baggianata. Era tutto così stupido.
Silente aveva davvero pensato che quella sciocchina ingenua avrebbe potuto servirgli?
Aiutarlo, addirittura? Che lui l'avrebbe a sua volta aiutata?
Tu stesso l’hai pensato e l'hai fatto, Severus! Disse una tra le tante voci che ricominciavano a prendere possesso della sua testa sgombra. Non ricordi quello che lei hai detto ieri sera?
Perché non servirebbe a te. A nessuno serve un guardiano protettore che ci difenda, se noi stessi, per primi, non siamo in grado di proteggere e difendere.. Ciò che siamo.’
Ecco, lei lo sta mettendo in pratica! Ora ha smesso di essere una svampita sognatrice ed è diventata normale, pronta ad essere sé stessa! Non ha bisogno di un guardiano, Severus.
Non ha bisogno di nessuno. Tantomeno di te.

Luna aveva cominciato a dondolare, avanti e indietro, avanti e indietro, lo sguardo febbrile.
Ma Severus provò irritazione, non apprensione. “Smettila” ringhiò, chinandosi verso di lei e ritraendosi come se fosse contagiosa. Era disgustato dal suo comportamento e da quell’impertinenza che lei sembrava mostrargli orgogliosa, come se fossero stati amici. La punizione della Umbridge non le aveva insegnato nulla?
Severus incrociò le braccia, torreggiando sulla scheletrica figuretta di Luna.
“Dovresti essere in classe a studiare, non a seguire me come una povera sfaccendata. Ieri sera ti sarai anche divertita a mie spese, ma se c‘è una cosa che non sopporto sono gli invadenti come te, Lovegood.”
Luna sgranò gli occhi, rimanendo bloccata, la bocca semiaperta. Sembrava che tentasse in tutti i modi di strizzare i muscoli ai lati delle orbite come se volesse evitare di …
“Non ti mettere a piangere” le intimò Piton, rinvigorito da un’inaspettata dose di antica perfidia.
“I piagnistei di una bambina non mi commuovono” l’immagine di Luna davanti alla vetrata la sera prima lo fece vacillare. Ma quella era un’altra ragazzina, cercò di ricordare a sé stesso.
Aveva avuto l’illusione che Luna Lovegood fosse in qualche tratto simile a lui, con quella sua perspicacia nascosta. La cosa l’aveva dapprima turbato e ora, che trovava conferma di quanto essa fosse illusoria, -come tutto del resto-, era frustrato.
“E non voglio più vedere la tua assurda presenza vicino a me, Lovegood. Non so quali siano le tue idee in merito, ma fai lo sforzo di trovarti qualcosa di normale da fare che non sia essere la mia ombra e tormento.”
Il pensiero che Luna Lovegood non fosse proprio la prima colpevole di quella situazione, non lo sfiorò minimamente.
“Fatti degli amici, importuna Potter, va a difendere Paciock, gioca a Gobbiglie! Fa qualsiasi sciocchezza adatta a te, basta…”
Ci fu un lampo di luce color limone. Severus sollevò il braccio sinistro davanti a sé e lo sentì quasi scottare, prima di cadere all’indietro sullo strato di neve e fango denso vicino al lago.
Uno schizzo gli arrivò sul viso. Allibito, si passò una mano pallida e altrettanto sporca sullo zigomo.
Non imprecò, era troppo sorpreso. Luna Lovegood era davanti a lui, l’espressione altrettanto sbalordita.
Si fissarono, Luna ancora con la bacchetta alzat,a in mano, Severus con le vesti inzaccherate e il viso giallastro e roseo per la vergogna. Non riuscì a concepire nessun pensiero sensato, nessuna parola... Provò a  divincolarsi ma non riuscì a rimettersi in piedi. Che umiliazione. Cercò di rimanere il più composto possibile, anche in quella disdicevole situazione.
Dopo un attimo di silenzio raggelante, cominciò di nuovo a parlarle, sputando ogni parola come se ogni sillaba gli avesse fatto un grave torto personale.
“Non hai la minima idea di cosa hai appena fatto, Lovegood!” ringhiò Piton guardandola con gli occhi lampeggianti d’ira. “Non ne hai la minima idea!”
Luna Lovegood inspirò. Aveva le guance altrettanto rosee, ma quando rispose lo fece con fermezza, nonostante il tremore che le agitava le braccia magre. Aveva perso la pazienza, per la prima volta in vita sua forse, ma quando parlò lo fece nell’abituale tono sognante.
“Non avrebbe dovuto essere gentile con me per poi dirmi queste cose. E' crudele ed insensato.”
Seveus inclinò il viso, scrutandola, furioso. Non aveva più bisogno né voglia di fingere impassibilità e distacco. Non con quella piccola… -il ricordo soffocante dello studio della Umbridge lo avvolse- disgraziata. Si odiò per l’averlo pensato, ma l‘ira non se ne andò.
Perché ciò che poche ore prima gli appariva giusto ora era tutto sbagliato?
“Adesso mi dirai che non l’hai fatto apposta a colpirmi, vero Lovegood?”
“Ma io l’ho fatto apposta” disse Luna soavemente seria. Il cuore di Severus fece una capriola. Forse non l’aveva persa del tutto. Forse era lui ad essere uscito di senno e ad essere diverso?
Forse Luna era una vittima, come lui?
Poi inaspettatamente, Luna  gli tese la mano sottile, arrossata dal freddo, lo sguardo fisso e un sorrisino triste e gentile. Severus Piton sentì tutto quello che lo circondava riacquistare un senso. Percepì l’aria, il fango sotto le mani, lo sciabordio delle piccole onde. Le cose erano riemerse dalla luce abbagliante ed avevano recuperato i loro contorni, il gracidio di alcuni corvi.
La realtà lo circondava di nuovo ed ora non ne era più infastidito od oppresso. Le macchinazioni che l'avevano confuso e reso astioso, si dileguarono nell'aria frizzante.
Le prese la mano e riuscì ad alzarsi - non si sorprese particolarmente della forza di Luna, dopotutto, entrambi erano più che scheletrini pallidi dal peso di foglie secche- sentendosi stranito.
Quando il terreno gli ondeggiò sotto i piedi e si ritrovò a fissare Luna dall’abituale altezza, contrasse le labbra in una linea dura.
Che idiota era stato.
Luna Lovegood rimise la bacchetta all’orecchio.
“Volevo colpirla perché stesse zitto. Mi perdoni, ma non sapevo cos’altro fare” disse con semplicità, sollevando appena le spalle e lasciandogli la mano rapidamente, sporcandogliela di terra umida.
Luna non se ne curò e non abbassò gli occhi bulbosi.
Severus Piton cercò di ritrovare la sua dignità in quegli abiti fangosi. Era la seconda, dannata volta che quando finiva sulla riva del lago con Luna Lovegood, si ritrovava nella melma. Letteralmente.
“Spero ti renda conto di cosa hai fatto comunque, Lovegood. Hai saltato le lezioni e hai aggredito me, un insegnante” Severus strinse gli occhi “Venticinque punti in meno a Grifondoro.”
Luna roteò gli occhi bulbosi “Sono di Corvonero, signore.”
Lo sgradevole rossore riprese possesso degli zigomi di Piton.
“L’abitudine, Lovegood. Comunque, venticinque punti in meno a Corvonero. E le mie scuse…” fu il turno di Piton per abbassare lo sguardo, “… A te.”
Gli occhi nebulosi di Luna si rasserenarono per un attimo.
“Ha detto scuse?” mormorò trepidante. Sembrava talmente contenta che Severus non ebbe il coraggio di risponderle se non con un’altra bella frase acida.
“Non ti montare la testa Lovegood. Quella che si è data alle aggressioni contro l’autorità qui, sei tu.”
L’espressione di Luna tornò vaga: “Certo, mi scusi per averla gettata nel fango, non era mia intenzione.”
Severus Piton non riuscì a celare la sua espressione incredula dietro ad una impassibile, ben più convincente.
“Mi hai appena detto di averlo fatto apposta!”
Luna divenne dubbiosamente ignara: “L’ho fatto?”
“Lasciamo perdere” disse Severus seccato. “Ora. Cosa ci fai qui?”
“Quindi non stava dicendo sul serio prima?” rincarò Luna con un’espressione preoccupata e speranzosa insieme. Severus incrociò le braccia penzolanti e incrostate di fango. Qualunque fosse stato l’incantesimo di Luna gli aveva bucherellato le maniche. Quella sinistra poi, era bruciata fino al gomito.  
“No, non dicevo sul serio. Allora…”
Gli occhi sporgenti di Luna furono attraversati da una cometa scintillante.
“Potrò ancora venire a trovarla? Mi parlerà della sua commedia? O…” ad un tratto divenne pensierosa. “Potrei farle una torta se lei mi ha offerto la cena…”
“Lovegood! Smettila!” sbottò. Poi, di fronte all’espressione atterrita di Luna, cercò di essere più cortese.
“Fammi spiegare.” Luna annuì di rimando, ammutolita.
“Non volevo dirti… Io. Ho commesso un grave errore. So che volevi… Volevi…” Piton corrugò le sopracciglia, in evidente difficoltà.
“Salutarla” disse Luna.
“Si, giusto, salutarmi. Ma mi hai colto di sorpresa, e io...”
"Ha fatto il maleducato" replicò lei con gentilezza.
Come al solito, rifletté Piton invece di contraddirla per puro sfizio.
“Ultimamente è più strano del solito, è vero” gorgheggiò ancora la ragazzina, sovrappensiero, portandosi un dito alla tempia.
In realtà, credeva di conoscere la causa delle stranezze dell’insegnate di Pozioni. La stessa causa a cui Severus stava pensando.
“Però andrà  lo stesso da Silente e dirà che non vado bene per aiutarla?” Luna cominciò a tormentarsi una delle lunghe ciocche bionde, avvolgendosela e srotolandola attorno al dito.
Era preoccupata. Forse un po' triste. Severus annuì lentamente, cercando di essere il più delicato possibile. “Non gli dirò proprio questo. Ma solo di sospendere i nostri incontri.”
“E le dispiace?”
Piton s’irrigidì, ponderando le conseguenze di ogni sua possibile risposta.
Gli sarebbe mancata Luna Lovegood, con il suo svenire in classe, cadere nel Pensatoio, con le sue assurde teorie,  farlo cadere nell’acqua e nel fango, con le sue verità imbarazzanti e fulminanti, con il suo farlo finire in infermeria, come l’esempio di come avrebbe dovuto reagire alle angherie durante l’adolescenza, come l’unica persona con cui parlare che non gli facesse avvertire ignoranza, rabbia o umiliazione?
“Non c’è stato il tempo per dispiacersi” concluse.
“Naturalmente” concordò Luna con un sorriso smagliante. E falsissimo. Severus finse di non averlo notato.
“Credo sia ora di tornare al castello.”
Luna fece roteare gli occhi sulle macchie che punteggiavano l’ossuta figura dell’insegnante. C’era talmente eloquenza in quello sguardo vorticoso che Severus si affrettò a frugarsi nelle tasche del mantello e della casacca, ma non la trovò. Ricordò di averla posata - e abbandonata- sul tavolo ancora semi imbandito.
Aveva commesso il più grave errore che un mago potesse fare!
Tergeo!” disse la voce un po’ arrochita di Luna. Severus Piton si accorse che si era avvicinata e stava di nuovo puntandogli la bacchetta addosso, levandogli ogni singola macchia umida o secca dal vestiario e dalla pelle consunta. Quando ebbe finito cercò di allontanarla, respingendola sulla spalla con la punta delle dita.
Ci mise tutta la sua forza, naturalmente, ma non ebbe successo.
“Lovegood non è appr…”
“Aspetti” disse Luna tranquilla. “Ce n’è ancora una.”
Gli cinse il polso sinistro, girandogli leggermente l’interno dell'avambraccio e alzando la bacchetta con la precisione di un Guaritore assorto nel suo lavoro. Severus era così preso a sospirare, esasperato, che non si accorse che Luna Lovegood si era immobilizata, senza sussurrare alcun incantesimo.
“Cosa…?” abbassò gli occhi cupi, e in un momento si rivide la sera prima, intento a curare le parole sanguigne e dolorose che Dolores Umbridge le aveva impresso sulla pelle. Solo che adesso i ruoli erano ribaltati e che ciò che Luna credeva di poter cancellare con un tocco di bacchetta, era qualcosa di ben più vincolante ed infamante e, a giudicare dallo sguardo di Luna Lovegood, terrorizzante.
Le orbite del teschio sembravano fori, tanto erano nere e profonde e la bocca spalancate del serpente era pronta ad inghiottirli.
Il Marchio Nero si riflesse nelle iridi stupefatte di Luna e annegò in quelle di Severus.
“Lei è uno di loro?” gli domandò con cortesia disinvolta guardandolo con intensità micidiale. Non muoveva nemmeno un micromuscolo.
“Non è…” Severus s’interruppe. Cosa poteva dirle per giustificarsi senza compromettere sé stesso e tutti gli sforzi, i sacrifici, i pericoli e le sottili trame che facevano di lui il legame tra Albus Silente e l‘Oscuro Signore? (Nonché la sorpresona finale del settimo volume, of course)
Luna gli lasciò il polso con un piccolo singhiozzo. Ora, la nebbia nei suoi occhi d’argento spento si era dissolta, sostituita dall’orrore. Poi, prima che lui potesse anche solo chiamarla per nome, si voltò e cominciò a correre verso il sentiero. Piton, con lo sguardo fisso, da pazzo, la seguì, ma il vento gli era nemico. Vedeva la sua copertura smascherata aggrappata a quelle ciocche saltellanti, color platino.
A quella figuretta incerta e imprevedibile.
Si costrinse ad andare più veloce, incurante della brina che gli arriva negli occhi, di due passi messi in fallo, prendendosi due dolorose storte. A Luna Lovegood non andò meglio.
Nel tentativo di essere più rapida, aveva deviato fuori dal sentiero salendo su un declivio ripido, in mezzo a una zona dove la neve era più alta. Fu il suo errore. Severus la vide scivolare all’indietro, le braccia alzate, mentre la borsa pesante la trascinava con sé, più in basso, tra il fogliame e il terriccio.
Severus aveva già il fiatone ma corse più rapidamente, o almeno ne ebbe l’impressione, con i legamenti in fiamme. Si era forse fatta male? Ma no, eccola rialzarsi in piedi e frugare tra le foglie. Aveva rotto la borsa.
Severus rischiò d’inciampare e si fermò, le mani ancorate alle ginocchia, mentre il mondo li vacillava accanto. “Lovegood, aspetta…” rantolò così debolmente che lui stesso non si sentì.
La ragazzina alzò lo sguardo e per un attimo i loro occhi si incrociarono.
Severus si sentì quasi male, quando vide quelli di Luna colmi di una delusione infinita.
Con alcune delle sue cose strette in mano, purtroppo non era riuscita a prendere tutto, Luna ricominciò a salire, incuneando i piedi tra i sassi sporgenti, nella terra smossa, cercando di recuperare l’equilibrio e tenendosi ai ciuffi di erba secca e rigida che spuntavano dal terreno. Si ruppe un’unghia, ma non le importava, a scuola c’era l’Infermeria. Non perse nemmeno tempo a prendere la bacchetta e ad affatturarlo. Voleva solo allontanarsi.
Severus Piton è un Mangiamorte,Severus Piton è un Mangiamorte, Severus Piton è un Mangiamorte, le rimbalzava nei pensieri con una furia tale da cancellare tutto il resto.
Quando il suo sguardo febbrile vide l’ingresso del castello, non perse tempo a sentirsi sollevata. Si fiondò tra le mura di pietra spessa, correndo ancora a più non posso. Sulla soglia si voltò, ma non scorse la sagoma nera dell’insegnante tra gli alberi spogli o tra i cespugli, o sul sentiero ghiaioso.
Con il piccolo petto alzato e abbassato da rantoli frettolosi, stringendo a sé alcuni libri, il Saggiomaglio, il sacchetto con la sua bigiotteria, gli Spettrocoli, l’astuccio, la lettera di suo padre, mezzo blocco da disegno e due pergamene sporche si addentrò dentro Hogwarts, camminando rasente i muri, gli occhi lucidi.


Severus Piton non aveva seguito Luna fino al castello. Anche se all’improvviso avesse ritrovato la forza e la capacità polmonare, non si sarebbe comunque mosso. Fermo nel medesimo punto in cui Luna Lovegood era scivolata, fece vagare lo sguardo tra il fogliame e le cose sparse della Corvonero, tenendosi il petto martellante. Aveva l’impressione che il cuore gli battesse anche nelle tempie, nei polsi, nel collo magro.
Tentò di deglutire ma tossì e basta, piegandosi a metà. Era davvero distrutto.
Si chinò accanto alla sciarpa viola e arancio di Luna, restando quasi accecato da quell‘improponibile mix di colori. Alcune pergamene, tre mappe di Astronomia, piume e boccette erano disseminate qua e là. Due di quelle erano atterrate su un sasso piatto, rompendosi e mischiando l’inchiostro nero di una con quello zaffiro dell’altra. Severus seguì con gli occhi il rivolo, scivolare e scomparire nel terreno smosso. Con le dita magre raccolse la  cinghia della borsa di Luna e una specie di cipolla viola verde dal ciuffo esuberante. La parte inferiore della sacca giaceva poco lontano, spalancata. Severus andò verso quella zoppicando. Si abbassò di nuovo, frugandone il contenuto.
Non conteneva molto. Una copia del Cavillo risalente a tre anni prima, un libro senza copertina che si rivelò essere Trasfigurazione Pratica vol. Quattro, e un grosso tomo con il timbro della biblioteca di Hogwarts con qualche pagina svolazzante. Severus lo aprì, suo malgrado incuriosito, nonostante il pericolo imminente costituito da quello che Luna adesso sapeva.
Vide che quelle che gli erano parse come pagine staccate, erano parte di un blocco da disegno. Le sfilò e le depose accanto a lui. Si rigirò il libro tra le mani secche, leggendone qualche brano, la fronte corrugata, le narici dilatate come se fosse in attesa di una preda.
‘ … l’illusione può essere creata dal mago stesso o indotta da un altro mago, nel tentativo di dare un’immagine fittizia della realtà …’
‘Esistono vari tipi di illusione, ognuna con la sua natura. Possono riguardare luoghi, situazioni o persone, e coinvolgere la vittima a tal punto che egli o ella non può essere più in grado di distinguere la realtà dalla finzione.’
‘ …per crearle esistono infiniti modi come infinita è la gamma di incantesimi preposti. Risalire alla natura delle illusioni e distinguere la loro natura da quella per esempio, di un vero spirito è arduo e complesso e…’

Severus chiuse il libro turbato, rimirandone prima i segni delle sottolineature. Lo voltò sulla costa, e ne lesse il titolo. “Vedere quello che non c’è. La molteplice multiforme essenza dell’arte illusoria” di Gottfierd Soleskin. Mai sentito, eppure, complice la parola illusione, qualcosa si agitò negli oscuri meandri della mente di Severus Piton, con tanta forza da farlo trasalire.
Inspirò l’aria fredda, cacciandosi via dal volto le ciocche nere e svolazzanti, infastidito dal crepitio delle foglie secche. Allungò la mano verso il blocco e ne sfogliò i disegni, pagina per pagina.
Una casa a forma di tuba, un giocatore di Quidditch con i capelli disordinati, il suo ufficio con le sue molte finestre, la statua di una donna. Il meccanismo di un orologio, una creatura con lunghe antenne, uno stagno. Di nuovo il suo ufficio, visto da un’altra angolazione, l’autoritratto di Luna ma con occhi di una grandezza normale.
E poi, sull’ultimo foglio disegnato, trovò la risposta a ciò che cercava e a ciò che già sapeva.
La figura di Lily Evans quindicenne, lo fissava immobile dalla carta rugosa, vergata con tratto sicuro e marcato, il sorriso beffardo e gli occhi rabbiosi, come lui la vedeva e ricordava.
La sua allucinazione personale era ritratta lì, tra le sue mani fredde e nodose.
Severus Piton alzò lo sguardo verso il lago e il cielo plumbeo. La brina si era trasformata in pioggia fine che presto, si sarebbe ritrasformata in neve.
Luna Lovegood aveva carpito due sfaccettature della sua anima e con l’ingenuità della sua età, le aveva fraintese entrambe. E lui, lui non sapeva più cosa pensare, in quella giornata funesta e funerea tranne che lui e solo lui, era la cosa reale che rendeva Luna Lovegood  vagamente interessata a ciò che la circondava.



Ciao, lettori del Dono!
Ecco a voi il lunghisssimo capitolo 14 della storia. E' stato davvero difficile scriverlo -Riuscirò mai a battere 'Come polvere nella notte?-!!
Ho anche l'impressione di essere uscita un po' dal Canon con Luna... Ma dopotutto è la prima volta che comincia a interessarsi ad un problema reale, che tanto reale non è!
Per quanto possa sembrarvi roba da telefilm metafisico americano, ho adorato scrivere la scena del funerale e inserire la sottotrama di Vesper -L'imbrunire (Si forse l'ho svelata un po' troppo ma tant'è.. Non accadrà solo quello)
Tornando a questo capitolo... Mi sono davvero sentita sfiancata. Sono andata in confusione, mi sono pure arrabbiata con me per non essere in grado di analizzare bene ciò che scrivevo.
Erano sentimenti inaspettatamente complessi e ogni volta che ne parlavo, ne sollevavno altri.
Forse sembro esagerata, ma, mio Dio. Che fatica! Ho sentito tutto il peso che comporta descrivere Severus.
Vado con i saluti! Come sempre, un grazie a chi legge, a chi commenta e ai recensori sempre pronti a recensire!
Causa esami, potrò pubblicare il capitolo settimana prossima -Si, anch'io sono triste- e spero di renderlo ancora migliore di qualsiasi cosa possa aver scritto finora.
Alla prossima, Exelle







  
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