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Autore: Hiromi    10/01/2011    11 recensioni
"Abitiamo in paesi diversi, entrambe vogliamo conoscere i nostri genitori, ma cosa possiamo fare normalmente? Ed ecco che io vado in Russia da te, e tu torni in Inghilterra presentandoti come me. Geniale, no?" Daphne Tachibana e Nadja Hiwatari si incontrano per caso a Parigi, e architettano un piano per riprendersi un loro diritto: conoscere i loro genitori. I guai sono alle porte!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Hilary, Kei Hiwatari, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Russia mon Amour

Ed eccomi qui dopo mesi d'assenza! xD Non so se la mia mancanza si è sentita - sono sicura di no - ma una cosa è certa: questa dannata coppia ispira solo guai! Ed è così che, ispirandomi al film Genitori in Trappola che sicuramente tutti avete visto, è nata questa roba. 

Attenzione, però. Ciò non vuol dire che la fanfic sia una copia sputata del film, anzi. Ne prende solo l'idea. Punto. Poi si diversifica completamente. =D Okay, vi lascio, buona lettura! ;)

 

Russie mon Amour

 

 

 

Furono delle risatine a far voltare, esasperata, Mrs Smith; le ennesime, per inciso. La donna, una quarantacinquenne dal portamento rigido, era la classica inglese d’altri tempi – rigida, intransigente, glaciale – e non tollerava minimamente che nel suo gruppo – quello che aveva dovuto accompagnare per il viaggio d’istruzione, vi fossero distrazioni o, peggio, risatine.

Individuate le responsabili, - e non era poi tanto difficile, visto che si trattava sempre delle stesse – le fulminò con lo sguardo, glaciale. “Davidson! Cooper! Tachibana!”

Le tre, come punte da uno spillo, saltarono sull’attenti, guardando la loro insegnante con sguardo fintamente colpevole.

“Scusi.” Biascicò la Tachibana, ravviandosi i capelli lisci e castani, ed esibendo il suo miglior sorriso seduci insegnanti.

Quando la docente si voltò nuovamente verso la guida che stava illustrando al gruppo la storia di piazza della Bastiglia, le tre ripresero a parlottare fitto fitto, un sorriso sornione a condire loro il volto.

“Che pizza queste spiegazioni!” Elizabeth Cooper – Liz – si sventolò con un depliant preso distrattamente all’ennesimo museo visitato.

“Quand’è che ci lasceranno libere?” gemette Samantha Davidson – Sam – roteando gli occhi verdi. “Sono cose le sappiamo a memoria: ci hanno rotto le scatole per mesi con la rivoluzione francese.”

Daphne Tachibana sbadigliò, insolente, poi sorrise. “Vedrete che tra dieci minuti al massimo finiranno, poi avremo un’ora e mezza, o due, per fare lo shopping più sfrenato.”

Sam la guardò, sospirando. “Io non so come fai ad azzeccare sempre. Sarà perché i professori ti adorano per la tua parlantina nonostante studi quel poco che basta per avere la sufficienza ed essere promossa, o-

Liz ridacchiò. “Lei si gode la vita, al contrario di te.”

“Veni, vidi, visa. Quella di mia madre.” Ridacchiarono così violentemente che dovettero tenersi la pancia ed allontanarsi un po’ dal gruppo per non essere rimproverate nuovamente.

Sam sospirò, beata. “Ah, tua madre: io adoro tua madre.” Gli occhi praticamente le brillavano al sol pensiero di Hilary Tachibana.

Daphne fece un sorriso tutto denti. “Lo so, è la madre migliore di tutte.”

“Trentasei anni, fisico da paura, bellissima, lunghi capelli fluenti, fila di corteggiatori che non finisce mai, avvocato di grido – quindi lavoro tosto – carattere altrettanto tosto… è perfetta!” Sam stava già elencando tutti i punti salienti del suo idolo, con gli occhi che le luccicavano, mentre le altre la guardavano ridacchiando. “Capita ad una ragazza su un miliardo di avere una madre così.”

“Lo so, e mia madre perennemente ringrazia questa tua idolatria per lei.” Ridacchiò la diretta interessata.

In effetti se le metti a confronto con le nostre…” sbuffò Liz, roteando gli occhi. “La mia a stento mi permette di andare alle feste: quale madre è una con la quale puoi fare shopping parlando liberamente del ragazzo che ti piace?”

Daphne esibì un sorriso fiero. “E’ sempre stata così, ha sempre voluto un rapporto paritario, e-” vennero interrotte dal richiamo dell’insegnante che stava dicendo loro le ultime cose sulla piazza: le tre capirono che sarebbe stata questione di pochi istanti, successivamente sarebbero state libere di scorazzare per la città.

“Vi voglio qui alle dodici e mezza precise.” l’insegnante, decisa, squadrò una ad una le sue alunne, e il suo sguardo non ammetteva repliche. “Rimanete sempre nei paraggi, e non vi allontanate.”

“Non accettate caramelle dagli sconosciuti…” sussurrò Liz all’orecchio di Sam, che ridacchiò.

“Bene, potete andare.” Annuì la docente; fu così che il gruppo, composto da diciassette ragazze sui quindici anni, si disperse a macchia d’olio per tutta piazza della Bastiglia.

Subito le tre si ritrovarono a braccetto, sorridenti e gioiose, ansiose di sperimentare lo shopping più sfrenato e la Parigi più vera.

“Mio Dio, un centro commerciale!” Sam lo esclamò come se non ne avesse mai visto uno; ma era sempre così: che fosse a Milano, Londra, Liverpool o Parigi, le tre ragazze, da cittadine del mondo quali erano, si sapevano orientare benissimo, ma bastava far notare loro un qualsiasi centro commerciale o l’ultimo negozio di Prada sulla quattordicesima, che il loro senso dello spazio e del tempo andava a farsi benedire tanto quanto il loro conto il banca.

Cinque minuti più tardi erano già entrate, missione reparto vestiti, pronte a depredarlo, saccheggiarlo, razziarlo quanto più possibile.

“Guardate, guardate!” trillò Daphne; in mano aveva una maglietta a righe con un fiocchetto sul collo. “La provo?”

“Tieni questo, con il tuo fisico e i tuoi occhi del cavolo ti starà disgustosamente bene.” Mise il broncio Liz, porgendole un vestitino aderente viola pieno di paillettes.

L’altra si accigliò. “Perché devi sempre dire che ho occhi del cavolo?”

Liz strinse le palpebre, mettendo in evidenza le pupille azzurre. “Perché si! Dannazione, come si fa ad avere gli occhi viola? Viola! Come la Taylor!” si specchiò, ravviandosi i chiarissimi capelli biondi da rosa inglese, e sospirò, affranta. “Sei così particolare, Daph. Alta, slanciata, occhi a mandorla, castana e occhi viola. Mi domando cosa tu possa volere di più dalla vita.

La domanda indiretta colse la ragazza impreparata che, dal sorriso smagliante che aveva, si ritrovò con una smorfia sulle labbra ben disegnate. “Non esagerare.” Biascicò, nascondendo il volto in un maglioncino di cachemire. “Ho dei colori particolari, ma dipende dalla mia progenie. Io… beh, io sono inglese solo di adozione, tu lo sei da generazioni e generazioni.”

Ma ormai nessuno bada più alle generazioni!” fece la bionda con una smorfia. “Sono così… volgarmente out! Il mondo è cosmopolita, chi ha nelle vene sangue di più nazioni diverse è guardato con occhi diversi, non come prima, come un mulatto!” dichiarò, scuotendo la testa. “Tu hai una madre metà Giapponese e metà Americana, e tuo padre, da quanto ne sai era Russo; poi sei venuta ad abitare in Inghilterra… Beh, tu sei il risultato, è per questo che sei una delle ragazze più popolari della scuola!”

Daphne si inacidì. “Pensavo fosse perché sono anche solo lontanamente carina, ma evidentemente non è così.” Girando sui tacchi, andò via da quel reparto, la testa che le pulsava e le lacrime agli occhi.

 

 

“Al mio segnale, prendi la rincorsa e scappa.”

“Guarda che ti ho sentito!”

Nadja ridacchiò all’ennesima scaramuccia tra gli zii, e i suoi occhi incontrarono quelli di suo zio Takao, che fece spallucce come a dirle che ci aveva provato.

Odiava fare shopping, ma quel giorno zia Karen aveva insistito tanto per comprarle qualcosa di carino, e lei non aveva saputo rifiutare.

Si trovava in Francia da tre giorni, esattamente da quando erano iniziate le vacanze di Pasqua, che aveva speso tutte lì, con coloro che l’avevano battezzata. Fino ad allora si era divertita parecchio, anche considerato che non vedeva la sorella di suo padre e suo marito – che poi era uno dei migliori amici del suo papà – da almeno un anno. Ma era esattamente come li ricordava: giocherelloni, sempre pronti a battibeccare ma tanto, tanto innamorati.

Nadja, tesoro, vieni qui per piacere.” La voce della zia la richiamò dai suoi pensieri. “Hai quindici anni ormai, è possibile che tu non abbia iniziato a truccarti nemmeno un pochino?”

La ragazza restò immobile. “Zia, non mi interessa…”

“Sciocchezze.” Decretò con una mossa della mano la donna. “Stai diventando grande; capisco che tu viva con tuo padre, ma non sei solo una blader, sei anche una ragazza. E bella, anche.” Fece, schiacciandole l’occhiolino.

Nadja arrossì, abbassando lo sguardo. “S-Sinceramente, non mi interessa… Non saprei da dove iniziare…”

“E dai, Kary, non tutte le ragazze sono fatte per i mascheroni che si vedono nelle pubblicità.” Intervenne Takao, sbuffando, le mani sprofondate nelle tasche dei jeans. “Se Nadja non vuole truccarsi non vedo perché debba farlo, vuol dire che è una ragazza semplice: meglio.”

La donna sbuffò. “Beh, si. Ma sapete che dico? Io questo lucidalabbra te lo compro lo stesso. È semplice da usare, lascia le labbra morbide, è femminile, è profumato-

Il marito esibì un ghigno. “Spero non quanto l’ultimo tuo acquisto in fatto di profumi, tesoro.” Qui zio e nipote risero, alludendo al profumo preferito di Karen, che lei trovava divino ma in realtà era pressoché nauseabondo.

La zia di Nadja sospirò, incrociando le braccia sul petto. “Beh, se ti da tanto fastidio, quando lo metto, cioè la sera, puoi sempre dormire sul divano.”

Takao esibì un sorriso furbastro. “Preferirei pinzarmi il naso.” Nadja rise, e finse di interessarsi ad una marca di rossetti più in là piuttosto che all’abbraccio e ai baci appassionati che seguivano spesso le scaramucce degli zii.

Non poteva dirsi una ragazza infelice, Nadezda Hiwatari, anzi, tante volte, ad un bilancio accurato risultava che non le mancasse proprio niente. Un padre che, seppur freddo, le voleva un bene immenso e che, per lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa; ottimi voti a scuola; amici fidati che la adoravano, ricambiati; possedeva la scuola di beyblade migliore dell’intera Mosca, visto che, ad averla fondata era stato proprio Kai Hiwatari, suo padre, con la collaborazione dei suoi amici.

Nadja, così, allenandosi ogni giorno dalle due alle quattro ore al giorno, era diventata una delle migliori blader della scuola, che accoglieva studenti da tutta la Russia.

Aveva anche una schiera di zii che le volevano bene, zii molto diversi tra loro, ma che rivestivano tutti una loro importanza. Era circondata d’amore, d’affetto.

Di tutti, tranne che da quello del quale sentiva realmente il bisogno.

Sospirando, estrasse lentamente dal portafogli la foto strappata mostrante una giovane donna, poco più grande di lei, in abito da sera, con un sorriso smagliante.

Mamma

Guardando quella foto, capiva bene come mai talvolta suo padre si incantasse a guardarla, o il perché, quando giungevano amici d’infanzia dei suoi zii che la vedevano restassero ammutoliti.

È proprio uguale a..!

Ma il nome di sua madre non veniva mai pronunciato, fatto o detto: lei era l’innominabile, colei che aveva avuto l’ardire di fare innamorare un gelido come Kai Hiwatari per poi mettersi il suo cuore sotto i tacchi senza pietà, fuggendo via come una lepre.

Guardando però nuovamente la foto, la stessa che aveva trovato nella stanza di suo padre quando aveva cinque anni, si convinse di una cosa: una persona dai lineamenti così dolci, così ingenui, così rilassati, che sorrideva in maniera così spontanea, non poteva essere una megera.

La storia era un’altra; c’era qualche altra cosa sotto. Qualche altra cosa che lei voleva scoprire.

 

 

Aveva esagerato con la sua reazione, ne era consapevole, ma la realtà era che quando le si toccava un tasto in particolare diveniva parecchio suscettibile.

Liz, sminuzzando la sua vita vista dall’esterno in maniera così frivola, l’aveva fatta arrabbiare, e parecchio anche; avrebbe dovuto essere una delle sue migliori amiche, invece l’aveva trattata con la delicatezza con la quale l’avrebbe maneggiata una qualunque delle sue compagne di classe.

Ma la verità era che si era inalberata quando aveva cominciato a parlare di origini e soprattutto, di suo padre.

Daphne sospirò, tentando di calmarsi.

In genere era una ragazza vivace, sempre con il sorriso sulle labbra che, da quindicenne qual’era, si godeva la vita; zio Max e zia Maryam le ripetevano spesso quanto assomigliasse a sua madre, con la sua voglia di vivere e con la sua vitalità. Ma, quando si toccava il tasto padre, tutto ciò veniva sostituito da un malumore profondo che veniva scacciato solo dopo ore ed ore.

Estrasse dalla pochette una foto strappata che ritraeva un giovane ventenne con un sorriso appena accennato. Papà… Sua madre non ne aveva mai voluto parlare. Sapeva soltanto che era russo, e che sua madre era fuggita via da Mosca quando lei aveva appena un anno perché non lo sopportava più. Ovviamente Hilary Tachibana non le aveva detto così.

T-Tuo p-padre?” quando gliel’aveva chiesto, all’età di quattro anni, la voce di sua mamma si era fatta da gioiosa come sempre, ad acuta e stridula. Aveva sospirato innumerevoli volte ed aveva continuato a balbettare. “E’ russo, vive a M-Mosca e… Non so…” aveva ridacchiato, come isterica. Che altro d-dire? Ci vivevamo anche noi p-prima che io…” qui i suoi occhi si erano scuriti, lei era impallidita e aveva stoppato il discorso.

Riguardo zio Max, lui descriveva sempre suo padre come uno dei migliori blader che avesse mai conosciuto, seppure un po’ riservato e ritroso. Quando gli aveva chiesto il perché sua madre lo avesse lasciato, era stato lui a glissare, dicendole in fretta e furia che non lo sapeva bene e che forse era perché non si trovava più bene con lui.

Quella foto l’aveva trovata quando aveva cinque anni, nel comodino di sua madre, e, una volta scoperta, Hilary gliene aveva fatta una copia.

Ah, il festival del bey.” Aveva sogghignato Max, quando gliel’aveva fatta vedere. “Kai doveva avere una ventina d’anni, qui eravamo tutti tirati a lucido, da notare lo smoking. È una delle poche foto in cui tuo padre compare sorridente, forse per questo a Hilary piace.

La mancanza di un padre era per Daphne come un buco nero nella sua anima colorata e variopinta; si era infatti promessa di andarlo a cercare una volta divenuta maggiorenne, per avere quantomeno delle risposte di cui, più passava il tempo, più sentiva il bisogno.

Il reparto profumi e cosmetici si stagliò in tutta la sua imponenza, proponendole marche e gamme da sogno, ma nemmeno questo riuscì a sollevarle il morale; mise da parte la foto di suo padre, riponendola nella pochette, e sospirò. Era tempo di cercare di risollevare da sola il proprio umore.

“Ehi, finalmente!”

Sobbalzò a quella voce maschile sconosciuta, che le parlava in russo, e voltandosi si trovò davanti un uomo sui trentacinque, dai capelli neri, con il sorriso divertito. A poca distanza, una donna dai capelli biondissimi, era impegnata a provarsi un rossetto.

“Dice a me?” Daphne sbatté gli occhi, arrangiandosi con il poco russo che sapeva cioè quello base di un corso che aveva seguito due anni prima in Inghilterra e che ancora non era finito.

“Ma si, scema!” rise l’uomo, che, evidentemente, l’aveva scambiata per qualcun’altra. “Dove ti eri cacciata? Ti ho cercata per tutto il reparto! Kary, eccola qui!”

La donna bionda si voltò, sorridente, e Daphne spalancò occhi e bocca quando vide due occhi viola identici ai suoi stagliarsi di fronte a lei.

“Oh, Zeus…”

“Tesoro, tutto bene?” la bionda, che doveva avere poco più di trent’anni, la guardò preoccupata; sei impallidita.

Perché ho un brutto presentimento? Perché mi sento strana? Perché sento che questa donna mi ricorda qualcuno?

“S-Scusate, io…” deglutì a vuoto, poi tentò un sorriso. “Cerco un bagno.”

“Vuoi che ti accompagni?”

“No, no, signora, davvero, la ringrazio.” Fece, prima di girare sui tacchi e andarsene a gran velocità.

Karen e Takao si guardarono, sbigottiti. “Signora?”

 

 

Vedendo un maglioncino pesante a tinta unita che andava bene per l’inverno, lo prese, decidendo di cercare un camerino per provarlo.

Le piacevano i vestiti semplici, senza troppi fronzoli, che fossero comodi e adattabili al clima gelido della Russia.

Aveva lasciato gli zii intenti a sbaciucchiarsi nel reparto cosmetici, e, onde evitare di perder tempo, aveva preferito dare un’occhiata ai vestiti.

“Non vorrai davvero provare quello, spero.”

Nadja si voltò di scatto, strizzando gli occhi: chi diavolo era quella biondina che la fissava dall’alto in basso come se stesse commettendo un atto criminale? Decise di ignorarla, e di non abbassarsi al suo livello.

“Ehi, Daph. Parlo con te.” Insisté la biondina. “E poi che diamine ti sei messa addosso?”

In quell’istante sopraggiunse anche Sam, proveniente da un altro reparto. “Ehi, ragazze, ho preso una cosetta per Mi-” ammutolì quando vide le amiche. “Santo cielo, Daphne, che diavolo ti sei messa addosso?”

“E’ quello che le ho detto io.” Annuì Liz. “Jeans sdruciti e felpona verde acido? Devi andare a lavorare in miniera in stile flashdance?” le due ridacchiarono insieme, ma la loro risata si fermò quando notarono il viso scuro della brunetta.

“Ehi, Daph.” Sam le poggiò una mano sul braccio. “Scherzavamo. E poi sappiamo che non ti piacciono queste felpone o questi jeans osceni. Sei ancora arrabbiata per prima?”

Nadja non era arrabbiata: era furiosa. Nonostante stessero parlando in inglese, quell’inglese stretto della Londra bene, lei riusciva a capirle perfettamente, e capiva anche che la stavano prendendo in giro per il suo modo di vestire.

Come si permettevano, quelle oche, che nemmeno la conoscevano, e senza dubbio, l’avevano scambiata per un’altra persona? Come?!

“Andate al diavolo.” Ringhiò, prima di gettare loro addosso le magliette che aveva preso con l’intenzione di provare.

 

 

Uscendo dal bagno, la ragazza sospirò ed espirò ritmicamente come se ciò potesse automaticamente farla stare meglio. Non avrebbe saputo dire perché vedere quella donna dagli occhi viola le aveva causato quel senso di inquietudine: sapeva solo che quando aveva visto quei lineamenti familiari, una morsa gelida le aveva stretto lo stomaco.

Saranno certamente flash assurdi che mi attraversano il cervello.

Cercò di sbarazzare la mente da pensieri inutili che si accavallavano tra di loro, e per la prima volta in vita sua, passando nel reparto donna, non degnò di uno sguardo i favolosi vestiti esposti.

Quando vide una chioma bionda e una rossa vicine, sospirò, andando vicino alle sue amiche. Era probabilmente il caso di uscire da quel negozio e di andare ad un bar vicino a prendere qualcosa.

Fu l’occhiata truce che le lanciò Liz a bloccarla, seguita da Sam, che inizialmente fece finta di non vederla, dopodiché mise le braccia conserte, come a farle intendere che aveva appena commesso un atto imperdonabile.

“Che c’è?”

Liz inarcò il sopracciglio sottile e biondo. “Ci prendi in giro? Cos’è, smessi i panni da minatrice sei tornata la Daphne di sempre? Hai sviluppato una specie di dottor Jeckyll e Mr Hyde?

La bruna fece tanto d’occhi. “Che cosa stai dicendo?”

Sam la guardò, torva. “Non prenderci per il culo, Daph. Smettila.” fece, stizzita. “Potresti anche solo semplicemente chiedere scusa.”

Daphne spalancò la bocca. “Se è per questo Liz deve chiedere scusa a me!” precisò. “Fa tutto quel discorso sull’essere cosmopoliti e mi va a toccare il discorso su mio padre, che lo sapete non voglio si tocchi, e dice pure che sono popolare a scuola per questo! E dovrei scusarmi io! Ma si può sapere che avete?”

Liz le lanciò un’occhiata di fuoco. “Ah, ed è per questo che poi sei arrivata qui vestita come una soldatessa del Cile, e quando io e Sam abbiamo scherzato su questo fatto, ci hai mandate al diavolo e ci hai tirato pure gli indumenti che volevi provare!”

“Che cosa?!” sconcertata, meravigliata e sorpresa, l’interlocutrice non sapeva quasi cosa ribattere. “M-Ma non è vero!”

Sam e Liz si guardarono, le sopracciglia aggrottate. “Non è vero?” Daphne poteva essere una peperina, ma perché mentire spudoratamente e in maniera così infantile?

“No!”

Liz parlò senza riflettere. “E chi ce li avrebbe tirati questi indumenti, allora?” chiese, sventolando un maglione pesante a collo alto.

Scese il silenzio. Daphne sostenne lo sguardo delle sue amiche, che non potevano certamente credere di aver visto un ologramma o un fantasma.

“No, signorina, i maglioni a tinta unita li trova in fondo, non qui. Guardi, la ragazza con cui sta parlando la sua gemella ne ha uno in mano.

Fu un attimo. Daphne si voltò lentamente, verso la direzione della voce della commessa, per vedere… lei stessa.

Solo che non era un riflesso dato da uno specchio.

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

Spero proprio che qualcosa ve l'abbia comunicato. O no?

Io sto tremando dalla paura, onestamente, sono mesi che lavoro a questa cosa... Ditemi voi. =S

Ora ho poco tempo, ci sentiremo più approfonditamente nel prossimo capitolo. O, almeno, lo spero davvero.

Un bacione a tutti. ;) 

   
 
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