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Autore: Miss Demy    12/01/2011    14 recensioni
New York City. La città che non dorme mai. Forse perchè è proprio di notte che si accendono le luci del Moonlight.
Un incontro improvviso, un ritrovarsi in un luogo inaspettato.
In una città, dove l'amore è solo una leggenda metropolitana, vengono meno le certezze del bel Marzio Chiba, crolla il suo Mondo e se ne crea uno nuovo, uno migliore.
Dal cap.2:
- Nessuno parlava, riuscii a sentire il suono della cintura che veniva slacciata. Non poteva essere. Seiya voleva…
Non riuscivo neanche a pensarlo, figuriamoci a dirlo.
Non mi importava delle conseguenze, aprii la porta, o meglio, ci provai.
Purtroppo era chiusa a chiave. Disperazione. Ma perché? Non la conoscevo, non sapevo nulla di lei. Eppure il cuore mi batteva forte se ripensavo al suo sguardo e alla sua dolcezza di quella maledetta-santa mattina.
“Seiya, apri questa porta. Subito. Muoviti!” ripetevo, battendo pugni sulla porta, facendo intendere che avrei continuato finché non mi avesse lasciato entrare.
Il mio respiro si faceva sempre più affannato, la mano iniziava a farmi male. Non mi importava però. Io dovevo proteggerla.

Dal cap.11
-Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Moonlight'
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Cap. 5: Addormentarsi al 'chiaro di luna'.


Uscendo da quel luogo infernale, ma in cui avevo trovato la redenzione ai miei peccati, ad una vita fatta di scelte sbagliate e di materialismo, oltre che di opportunismo, la città mi apparve diversa.
New York City, la città che non dorme mai, piena di luci che rendono Manhattan by night, a mio avviso, la città più bella del mondo *.
Un luogo suggestivo dove perdersi tra le mille opzioni, fra le tante tentazioni, senza pensare ai problemi della propria vita.
Eppure, quella notte, camminando accarezzato dal gelido freddo per le vie dell’East Side, riflettei sul fatto che io avevo soltanto trovato nuovi problemi, nuovi insormontabili guai che non presentavano una via d’uscita.
Il mio passo era lento, camminavo come un automa.
Non mi importava più di nulla. Se non potevo avere Lei, se non potevo starle accanto e renderla felice, la mia vita non aveva alcun senso. Non più.
Mi fermai un attimo, le mie gambe erano troppo tese. Io ero troppo teso.
Mi sedetti su una panchina, a Central Park, ripensando al mio incontro con Lei all’ingresso di quel luogo, alla nostra colazione, alla sua tenerezza. Dannazione, ma perché? Perché dovevo rinunciare a Lei, a una vita felice assieme a Lei? Perché non mi permetteva di renderla felice, come meritava? Con le mani a sorreggermi la testa, cercavo una soluzione ma non la trovavo.
L’aria era sempre più gelida, mi costrinse ad alzarmi e ritornare sull’East Side.
Di fronte all’ingresso del Parco, un’insegna luminosa, raffigurante una ragazza dai capelli rosa in groppa a un cavallo alato, attirò la mia attenzione. Sentivo troppo freddo e non volevo tornare a casa. La solitudine mi avrebbe fatto ripensare, ancora di più, a Bunny. Sarei impazzito.
Mi avviai all’interno del locale, avvertendo, lì, calore, udendo musica rock.
Era un luogo frequentato per lo più da uomini, un ritrovo per amici dove poter giocare a biliardo e guardare le patite degli Yankees.
Mi accomodai su uno sgabello al bancone del bar, ora la sensazione di freddo era scomparsa.
Una ragazza, Ursula credo si chiamasse, mi chiese cosa desiderassi bere.
“Scotch liscio, doppio.”
Mi servì il mio liquore. Lo bevvi tutto in un sorso. Ora la gola mi bruciava ma, almeno, stavo già allentando la tensione.
“Un altro, per favore.”
La ragazza mi sorrise, ecco un’altra possibile preda.
Bevvi ancora una volta quella pozione contro la memoria, contro i problemi. Adesso la testa iniziava a girarmi, mi sentivo strano, diverso, più leggero.
Sì, iniziavo a stare meglio.
“Non c’è due senza tre, fammene un altro!” anche la mia voce era diversa, più allegra, più spensierata.
“Non vorrai sentirti male, spero?” Ursula mi guardava curiosa ma anche con un po’ di malizia.
“Non potrei mai stare peggio di così, fammene un altro.”
Stavolta non disse nulla, riempì il bicchiere e me lo servì.
In meno di tre secondi lo svuotai. Adesso la mia gola era in fiamme, il mio stomaco avrebbe voluto uccidermi, ma almeno adesso stavo bene, ero entrato in un mondo tutto mio.
Un mondo spensierato, senza preoccupazioni, senza Lei.
No, impossibile. Non appena portai le mani alla testa, come a volerla sostenere, evitando che tutto il locale mi ruotasse attorno per effetto dell’alcool in circolo, il pensiero di Bunny ritornò alla mia mente.
Lei che ballava sensuale quasi nuda, lei che piangeva, che diceva di provare un forte sentimento per me… tutto ciò mi fece stare ancora peggio.
Adesso non ero, giuridicamente parlando, nel pieno delle mie facoltà di intendere e volere. O meglio. Non ero in grado di  intendere, di ragionare, di essere razionale. Ma sapevo bene cosa volevo, chi volevo. Io volevo Bunny, desideravo più di qualsiasi cosa al Mondo averla tutta per me, fra le mie braccia. Volevo sentire il suo respiro, assaporare la sua pelle liscia e delicata, sentire il suono della sua risata cristallina, vedere la luce nei suoi occhi pieni di gioia e di amore.
E invece non potevo, lei non me lo permetteva. Lei mi voleva lontano da sé, voleva dirmi addio, concedersi al primo venuto solo perché, per lei, questo era l’unico modo poter aiutare sua sorella.
Che situazione!
Pagai i miei drink e mi diressi verso l’uscita con quelle riflessioni che vagavano nella mia mente.
La prima sensazione appena fuori dal Pegasus, questo era il nome del locale, fu quella, a parte avvertire il freddo gelido, di vedere i grattacieli venirmi incontro, l’East Side ruotare, il Polmone verde ondeggiare.
Ero ubriaco fradicio, la mia mente, ancora invasa da mille pensieri, era leggera, il mio cuore invece portava un enorme tormento.
Non volevo andare a casa, io volevo stare con lei, dovevo proteggerla, amarla. Era l’unica cosa di bello, di veramente bello, che mi fosse capitata nella vita.
Se è vero che l’alcool toglie i freni inibitori, i miei adesso erano stati del tutto disattivati. Ciò mi portò a fare qualcosa che in maniera lucida non avrei mai fatto; non perché non volessi, ma perché la amavo…
Ebbene sì, barcollando tra le strade di Manhattan, ero di nuovo diretto al Moonlight.
 
Il Moonlight era situato sulla East Side, la parte destra di Manhattan, divisa da Central Park dalla West Side.
Non distava molto dal Parco e dallo Jupiter; un po’ di più, invece, dall’ospedale in cui era ricoverata Usa, nell’Upper East Side.
Il night club, che faceva ad angolo, era composto da due piani.
Al piano terra vi era il palco per lo show, i salottini con poltroncine e divanetti in pelle bianca, da cui era possibile ammirare i balletti delle ragazze e un bancone bar per i drinks che spesso i clienti offrivano alle intrattenitrici. Dietro il palco, invece, erano situati i camerini, pieni di costumi, in cui le ragazze potevano prepararsi per le varie esibizioni.
Al primo piano, invece, un lungo corridoio portava alle camere da letto delle ragazze, dove, oltre a dormire, intrattenevano anche i clienti del locale.
Si poteva accedere alle camere dal piano terra, come spesso avveniva dopo le esibizioni, oppure dalla scala esterna.
Quest’ultima veniva più che altro usata dai parenti e amici delle ragazze, o dalle stesse quando rientravano o uscivano durante il tempo libero.
Un modo, insomma, per essere indipendenti dato che, dopo lo show e l’uscita dei clienti, l’ingresso principale veniva chiuso e le luci dell’insegna si spegnevano.
 
Con le gambe che non si reggevano più in piedi, barcollando, arrivai finalmente al Moonlight.
Salii, tenendomi al poggia mano d’acciaio, al primo piano.
La porta era aperta e non mi fu quindi difficile accedere al corridoio.
Una volta dentro, la stanza del mio angelo biondo era una delle prime, la settima sulla sinistra per l’esattezza.
Mi avviai, tenendomi alla parete per non perdere l’equilibrio, verso la sua stanza.
Mentre ero ancora vicino alla porta d’ingresso, quella della sua stanza si aprì e un uomo sulla quarantina, uscendo, andò via.
No, non era possibile. Chi era quello? Cosa le aveva fatto? E lei, cosa gli aveva permesso di farle?
Le lacrime uscirono spontanee dai miei occhi blu, il cuore voleva uscire dal mio petto. In quel momento avrei voluto vomitare anche l’anima, svegliarmi dall’incubo e trovare Lei dormire beata al mio fianco.
Barcollando a passo più svelto, arrivai alla porta della sua stanza, ormai richiusa visto che l’uomo era andato via dalla parte opposta approfittando del fatto che il locale fosse ancora aperto.
Bussai con tutte le forze che avevo, anche se l’alcool mi aveva stordito così tanto da non sentire nessuna sensazione di dolore alla mano.
“Bunny, apri! Ti prego, aprimi!”
Lo urlavo, lo imploravo.
Sapendo che non me ne sarei andato e temendo che qualcuno potesse sentirmi, aprì la porta e spalancò gli occhi non appena vide in che condizione io fossi.
“Che cosa ci fai qui, Marzio?!”
Era incredula. I suoi occhi ormai erano gonfi e rossi per le tante lacrime versate, davanti a me e dopo che io andai via.
Appena la ebbi davanti a me, con addosso una vestaglia di raso rosa, persi l’equilibrio finendo su di lei.
Nonostante fosse più bassa di me e molto fragile, cercò di sorreggermi, stringendomi per il busto.
Io invece avevo le braccia attorno alla sua schiena, a contatto coi suoi lunghi e stupendi capelli dorati.
“Marzio, che hai fatto?” mi chiese sconvolta. Non si sarebbe mai aspettata una situazione del genere. Non da me, almeno. Da me che fin a quel momento mi ero sempre dimostrato lucido e protettivo.
“Bunny…” era tutto ciò che riuscii a dire, anche se erano tante le domande che volevo farle.
Come ad esempio sapere chi fosse quell’uomo, o meglio, cosa le avesse fatto.
Dirle poi che la amavo troppo e che la volevo solo per me; che non mi sarei arreso fin quando non fossi riuscito a portarla via con me.
Sapevo che il non riuscire a esprimermi era colpa dell’alcool, mi stordiva, mi toglieva la capacità di parlare e ragionare, ma non di agire.
Anzi, mi spingeva a fare ciò che a mente lucida non avrei mai osato.
Stretto a lei, ripresi l’equilibrio, portandomi dritto sulla schiena, e appoggiandola, con dolcezza ma allo stesso tempo con passione, alla parete beige.
Adesso il suo corpo aderiva perfettamente al mio, i suoi seni erano schiacciati con delicatezza dal mio torace, ma il suo sguardo era confuso, quasi perso nel vuoto.
Mentre continuava a rimanere con le braccia attorno alla mia schiena, presi il suo viso tra le mani:
“Guardami Bunny! Guardami, amore mio!”
La mia voce tremava, piena di disperazione.
“Tu sei ubriaco…” ne era dispiaciuta. So che si sentiva in colpa, sapeva che lo avevo fatto per lei.
Con le mani su quel tenero e soffice viso dissi:
“Cosa ti ha fatto? Dimmelo, Bunny!”
Per un attimo sembrò non capire a cosa mi stessi riferendo, aggrottò la fronte posando le sue mani sulle mie:
“Di cosa stai parlando, non vedi che non ti reggi in piedi?”
Aveva ragione, a contatto col suo corpo ero io che avevo bisogno di un appiglio, avevo bisogno di lei:
“Ti ha toccato? Maledizione, dimmelo! Dimmelo e lo uccido!”
Iniziò a piangere, a tremare, di nuovo.
Lo presi come un . Mi uccise, mi trafisse l’anima passando per il cuore. Un cuore che aveva iniziato a battere e ad amare grazie a lei, solo per lei.
Caddi a terra, in ginocchio davanti a Lei.
E lì, con la testa poggiata sul suo basso ventre e le braccia sui suoi fianchi, iniziai a piangere, a lasciarmi andare. Non lo avevo mai fatto prima. Prima, quando era tutto diverso, quando io ero diverso.
In quel momento non c’era malizia, io ero un fedele devoto e lei la mia Madonna.
Entrambi feriti, sconvolti. Piangevamo e tremavamo.
Mi poggiò le sue mani sui capelli:
“Marzio…” neanche lei riusciva a parlare, singhiozzava.
“Sta’ zitta Bunny, sta’ zitta…” ripetevo, piangendo, in quella posizione.
Si lasciò andare, cadendo per terra in ginocchio di fronte a me.
Mi strinse, portando con le sue mani la mia testa sul suo petto, come suole fare una madre col proprio bambino.
“Volevo che fossi felice, che lo fossimo assieme. Non volevo che qualcuno approfittasse di te… non sono riuscito a proteggerti…”
Sentivo battere il suo cuore, forte. Sapevo che batteva per me, per l’amore che provava per me ma a cui non poteva lasciarsi andare.
Mi baciò la fronte dopo aver accarezzato i ciuffi che vi scendevano:
 “Non è come pensi tu, doveva soltanto parlarmi. Non mi ha sfiorata, sto bene… sta’ tranquillo, amore mio.” Le sue parole erano un sussurro pieno di rassicurazioni e, assieme a quelle dolci carezze ai miei capelli, mi donavano una sensazione divina.
La strinsi ancora più forte, piangendo sempre di più lì dove batteva il suo cuore puro. Stavolta per sfogarmi, per liberarmi dall’enorme tensione accumulata e dall’immensa paura che qualcuno le avesse fatto del male.
Ero felice, stravolto ma felice. Inoltre, mi aveva chiamato amore, si era lasciata andare.
Alzai la testa per incontrare i suoi occhi. Mi sorrise dolcemente, con gli occhi lucidi che si intendevano coi miei.
La guardai senza dire nulla. Non ce ne era bisogno.
“Ti amo, Marzio. Avrei dovuto dirtelo prima. La vita è breve. Dovevi saperlo. Ti amo.”
In quel momento furono così tante le emozioni che provai che cercare di descriverle sarebbe impossibile.
Felicità, gioia, realizzazione di un sogno meraviglioso…
Non so bene, ricordo solo che in quel preciso istante le presi, rimanendo in ginocchio, il dolce viso tra le mani.
Lei mi cinse il collo con le braccia, accarezzandomi i capelli, e chiuse gli occhi.
Li chiusi anche io e, dopo, la baciai.
Teneramente, con dolcezza, rispettando quelle labbra, così morbide e carnose, come se fossero una reliquia.
Ricambiava i miei dolci baci e mi sfiorava con le dita le guance.
Un bacio, un altro, un altro ancora. Non riuscivamo più a separarci, non volevamo.
Le accarezzavo la schiena e i lunghi capelli. Volevo rimanere in quella posizione per l’eternità e, anche, oltre. Avevo paura che se l’avessi lasciata un solo istante, se avessi allontanato le mie labbra dalle sue, la favola sarebbe finita. Non potevo permetterlo, non adesso, non da quel momento in avanti.
Cercai di alzarmi, senza staccarmi da lei e dai suoi favolosi baci.
Si alzò anche lei, tenendomi stretto, baciandomi e accarezzandomi.
Adesso i suoi occhi erano sereni, il suo corpo rilassato. Sembrava felice, almeno, era quello che speravo.
Tenendola per la schiena, le sollevai le gambe e la presi in braccio.
Mi cinse il collo con le braccia e appoggiò la testa sulla mia spalla.
La adagiai, delicatamente, sul suo letto matrimoniale e mi sdraiai accanto a lei.
L’effetto dell’alcool stava svanendo lentamente ma la testa mi girava ancora un po’.
Chiusi un attimo gli occhi portando la mia mano alla fronte, come a voler alleviare quell’enorme mal di testa.
“Perché lo hai fatto, amore mio?” mi domandò dispiaciuta, tra un bacio e un altro.
“Volevo stare meglio, non pensare a ciò che era successo. Non volevo pensare a te che mi dicevi addio.”
Sospirai e ripresi:
“Cosa mi hai fatto, Bunny? Come mi hai fatto diventare? Io non ho mai fatto nulla del genere… tu mi hai cambiato… mi hai fatto diventare diverso.”
La mia voce era confusa, stanca, influenzata dall’alcool. Ma le mie parole, i miei sentimenti erano veri e sinceri.
Appoggiò la sua testa sul mio petto e mi strinse forte:
“Oh, Marzio…mi dispiace tanto…” si sentiva in colpa.
Con le poche forze che avevo, accarezzai la sua testa, scombinandone di proposito i capelli:
“Mi hai reso un uomo migliore, Bunny… ti amo, piccola mia.”
Si strinse ancora di più a me e, anche se lei cercò di non farsi accorgere, la avvertii piangere in silenzio trattenendo i singhiozzi.
Non so se disse qualcos’altro, perché lì, con lei fra le mie braccia, mi addormentai al chiaro di luna.
Felice. Pensando che il mio sogno meraviglioso si fosse appena avverato, che insieme avremmo risolto tutto e avuto una vita splendida, piena d’amore e di felicità.
Ovviamente non avevo considerato che quella non era una favola e neanche un anime e quindi presto, sulla mia felicità, fui costretto a ricredermi…

continua…
 

Note:
*: ovviamente il fatto che NYC sia la città più bella del mondo è solo una mia opinione!
Chiaro di luna è un gioco di parole, dato che significa Moonlight.

 

Grazie mille, di cuore, a:
-china91
-pianistadellaluna
-funny84
-alemagica88
-sun86m
SerenityEndimion
-star86
Per aver segnalato Moonlight per le scelte.

Grazie a:
1- Angelica82
2 - china91
3 - cri88
4 - Ily94
5 - pianistadellaluna
6 - serenity82
7 - SerenityEndimion
8 - sun86m
Per aver messo Moonlight fra le preferite.

Grazie a:
1 - alemagica88
2 - Bulm88
3 - hoshi90
4 - Lisanechan
5 - micina82
6 - Serenity 4ever
7 - star86
8 - Thaila
9 - Usagi95
10 - vanny 3
11 - wingedangel
12 - _Principessa di Cristallo_
13 - _Sofia_
Per aver inserito Moonlight fra le seguite.
 
Il punto dell'autrice

Carissimi lettori, so che questo capitolo è un po’ più breve dei precedenti (e dei successivi), ma ho ritenuto giusto concluderlo così, dato che il cap. 6 sarà molto intenso e lungo e non volevo contrastasse molto con questa parte(che spero tanto abbiate apprezzato).
Mi auguro che il cap. sia piaciuto e non vi abbia deluso.
Alcune piccole cose saranno svelate successivamente (saprete chi era quell’uomo uscito dalla camera di Bunny!).
Spero continuerete a seguirmi, dato che il prossimo capitolo si prospetta molto caldo e pieno di colpi di scena…
Vi anticipo che accadrà qualcosa non molto bello per Bunny…
Quindi vi prego, non odiatemi e non uccidetemi!
Vi abbraccio e vi ringrazio sempre per l’affetto dimostratomi!
Demy

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