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Autore: Silver Pard    14/01/2011    4 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
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NdT: Sì, sono già qui. Questa storia ha aspettato troppo.
Comunque, “Spike” (letteralmente “punta”, “spunzone”) nel fandom inglese è un soprannome abbastanza popolare di Cloud, e deriva ovviamente dai suoi capelli. Nel gioco non c’è, anche se vengono usati aggettivi come “spikey(-headed)”. Mi è già capitato di incontrarlo in qualche storia e generalmente ho tradotto con robe tipo “capellone”, ma qui, dopo accese (?) discussioni con Vale ho deciso di non tradurlo (benché “Puntaspilli”, proposto da lei, fosse veramente tanto carino) e di usare “Spikey”, che fa più nomignolo a un orecchio italiano.







(Acheronte)





La tua mano nella mia. La mia voce nel tuo orecchio. Insieme, cadiamo.



(22 ore)

Lasciamo Cloud con la testa china sui fiori della chiesa. Il cielo comincia finalmente a rischiararsi mentre viaggiamo, il blu del crepuscolo si scolora nel bianco che ormai sormonta le montagne di Nibel, l’alba allunga le dita pallide sulla fronte della terra, il mare sciaborda soddisfatto sulle rive di Wutai.

All’altro capo del mondo, in un luogo nascosto da occhi indiscreti, uno dei suoi ex-compagni alza il capo come gli animali quando passiamo accanto a loro, ripensando tutto d’un tratto all’uomo che avrebbe potuto essere suo figlio. (Fantastico, o un maniaco armato di bisturi o un vampiro. Il povero Seph era destinato a nascere maledetto.

Lui non dice niente, ma l’improvvisa intensità del suo sguardo mi istiga a cambiare argomento.)

Piega la testa di lato, tendendo l’udito. Se Vincent avesse il pelo come i cani che aguzzano le orecchie quando noi siamo nei paraggi, nessuno di noi dubita che lo rizzerebbe e ci ringhierebbe dietro.

Vincent si è perso in un dedalo che si trova in un labirinto che si trova all’interno della sua testa. Oscilla di pensiero in pensiero, incespica tra intrichi contorti di sangue, lutti, angoscia e incubi. Fugge da un pensiero a noi a un ricordo di Lucrecia, una consolazione gentile sui cui striscia ben presto l’odore di Mako stantia e del sangue vecchio, e la sensazione delle sue mani, il profumo dei suoi capelli e il sorriso sul suo viso si sgretolano, sostituiti da mura di vetro e dal dolore di ali che sono e al tempo stesso non sono sue, che gli squarciano la pelle e si spalancano come una maledizione.

Ce ne andiamo, lasciando Vincent a ponderare sui suoi peccati, la bestia di nome Chaos si agita spasmodicamente dentro di lui al nostro passaggio, e noi rispondiamo alla chiamata della ragazza che secondo logica dovrebbe essere morta. (—Anche i migliori sbagliano. Giusto, Seph?

—Non riesco a credere che tu possa scherzare su una cosa del genere, protesta Aeris.

—Siamo morti, amore mio, non c’è più bisogno del tatto.)

Tifa si sveglia con un sussulto, senza fiato, gli occhi vitrei e assenti accecati per un attimo dalla paura. Anche quando tutto torna normale continua a sentirsi a disagio, e cerca cautamente una possibile spiegazione. Rigirandosi, tocca la sveglia e corruga la fronte, tracciando i numeri con un dito stanco. Qui fuori il cielo è ancora buio.

(pelle che si schiude, un fiore rosso che germoglia – non addormentarti, potresti non riaprire più gli occhi)

C’è qualcosa di sbagliato nell’immobilità di questa mattina. È la quiete prima della tempesta. Si rannicchia sotto le coperte, tenta di individuare le radici del dolore nel suo petto e della secchezza che le impasta la bocca.

C’è uno spazio vuoto che parte di lei sa dovrebbe essere colmato, e non è del tutto sorpresa quando le viene in mente che a mancare è Cloud. Ma non è questo che non va, perché lo spazio vuoto è una vecchia piaga che sta curando e cercando di occupare con i bambini abbandonati e disincantati che riescono ad arrivare a lei.

Non ha un calendario. Non qui, in camera sua, dove dovrebbe essere schermata da pensieri sul futuro. Fuori ci pensa troppo, ed è per questo che viene qui. In teoria è in questo luogo sicuro che si creano le vite, ma non la sua.

Ha bisogno di questo posto per poter essere libera dalla sua razionalità, dal buon senso e da tutti i vincoli che le impediscono di gridare la sua rabbia e la sua frustrazione a Cloud ogni volta che torna e scivola di nuovo nella sua vita come se non se ne fosse mai andato, come se non l’avesse sventrata e abbandonata a dissanguarsi.

Odia i calendari: crede che esistano per segnare i giorni, i mesi e gli anni che ha sprecato ad aspettare, a cercare, a rincorrere un problema, qualunque esso fosse. Non le piace l’idea che la sua vita possa essere rinchiusa in quei quadratini a fianco del minuscolo disegno indicante le festività che non osserva mai.

Non ha un calendario, ma parte di lei già sa. Non vuole svegliarsi così presto e dover affrontare la data, e allora si volta, affonda la faccia nel cuscino, inspirando l’aria che ha già espirato, mentre il suono del proprio respiro le rimbomba nelle orecchie. Sulla parete delle palpebre chiuse danzano scintille e granelli di luce colorata, spire, e veli, e schemi a scacchiera, esplosioni di colori che si spengono e assumono nuove forme nel tempo infinito tra un secondo e l’altro. Quasi la tranquillizza, cercare di definirle.

Il letto è caldo, confortevole, e ci sono giorni che avrebbe voglia di rimanere qui per sempre, senza più rialzarsi. Potrebbe limitarsi a protrarre la sua esistenza; sarebbe così facile.

Senza il suo consenso, affiora il concetto di “un anno.” Un anno significa tante cose per Tifa. È un lasso di tempo che non riavrà mai più, un qualcosa che rende un po’ più reale l’anniversario di tante cose, che accentua un po’ di più le cicatrici. Un anno implica un altro compleanno mai festeggiato e perso per sempre, un altro periodo di lutto da sommare a quello vecchio. Per molto tempo ha avuto a cuore il numero di anni trascorsi dalla morte di suo padre, dalla distruzione della sua città natale, ma ha smesso quando ha capito che così gli anni sembravano solamente più lunghi e vuoti di quanto avrebbero dovuto.

Oggi è il giorno in cui la Meteora è quasi caduta, l’anniversario della fine del mondo, il giorno in un cui uno psicopatico che si illudeva di diventare Dio si è arreso alla vergognosa debolezza della morte.

(—La morte non porta vergogna, mormora Sephiroth, punto sul vivo. Non si è mai concesso di rassegnarsi alla sua morte, ma questo non vuol dire che non sia capace di comprenderla. Ogni tanto.

—La morte è semplicemente l’altra faccia della Vita, dice Aeris, e io non rivelo a nessuno dei due il mio parere.)

Ora l’assenza di Cloud la infastidisce. Le sembra quasi che sia riuscito a svincolarsi dal peso, dal carico ingombrante della memoria. (—Ah sì? E tu che ne sai? Forza, diccelo in faccia!)

La sua assenza la infastidisce come se fosse il sintomo di una malattia – Cloud Strife non è un uomo e nemmeno un SOLDIER (è un’altra cosa su cui non vuole rimuginare). È Atlante, che porta il cielo (che porta noi) sulle sue spalle.

La verità è che capisce che Cloud non apparterrà mai davvero al mondo mediocre in cui vivono lei e tutti gli altri. Lui è parte dell’Altro ormai, smarrito nel Lifestream e nei ricordi.

Lo sa. Ma Dio, quanto odia che sia così. Farebbe meno male se solo non lo amasse tanto.

(—Nessuno potrebbe legarlo per sempre, sussurra Aeris, solidale. —È nostro, in realtà. Tu lo sai, sei stata lì con lui.

“Lì” è dove ci troviamo noi, la combinazione di Lifestream e ricordi, e se c’è qualcuno che fa parte di questo luogo, il più vicino alla vita concesso dalla morte, quel qualcuno è Cloud.

—Lui è già qui, mormora Sephiroth, dal fondo della stanza. —Entra qui ogni giorno, si è solo dimenticato di abbandonare il proprio corpo.

Poi sorride, ed è come imparare il significato della parola “sinistro” daccapo. —Un giorno dovrò ricordarglielo, aggiunge, sognante.)

Cloud non è proprio tagliato per la normalità. Non più. Tifa, dal canto suo – lei e gli altri possono tornare al conforto delle loro vite precedenti, ma Cloud è troppo perso, ha sofferto troppo, è cambiato troppo per poter essere in grado di rinfilarsi nella sua pelle; un mostro emerso dalla crisalide di un’infanzia normale, pensa lui stesso ogni tanto.

(—Ma quale mostro, gli chiede Aeris. —Sei proprio come Sephiroth.

—Esattamente, interviene Sephiroth con indifferenza, la rabbia e il dolore che si congelano per plasmare odio glaciale. —Un mostro.)

Adesso che le è venuto in mente l’Anniversario, è impossibile dimenticarsene. Non ha gli stessi ricordi di Cloud, lampi vividi che utilizzano tutti i sensi per affrescare un quadro così tumultuoso che lui ha bisogno di qualche minuto perché il cuore gli si calmi in petto e la mente si schiarisca abbastanza da ricordargli che è passato un anno da quando è finita.

Tifa ricorda le cose come le persone normali, immagini piatte offuscate dal tempo e mai completamente corrette. Ora ricorda, e vorrebbe che le lacune fossero un po’ più vaste, i buchi nella sua memoria più profondi, perché così forse sarebbe libera.

(Un grido alto e penetrante mentre la mente di un uomo va in pezzi)

Era il giorno in cui avrebbe potuto finire tutto.

(risuona e qualche volta Tifa si sveglia di soprassalto e si aspetta di vedere Cloud in ginocchio che urla, le mani strette convulsamente alla testa che cercano di scavargli nelle tempie. Urla, e cosa potrebbe mai fare, lei, per aiutarlo?)

A volte, quasi vorrebbe che fosse finita.



giù



(18 ore)

Questa è la mattina che Cid sperava futilmente di non dover vedere mai, o nel caso di poterla vedere fortificato da un barile di birra. Le sei del mattino, cazzo, è troppo presto per pensarci – ma ormai è sveglio e ha bisogno di tenersi impegnato, ha bisogno di qualcosa che gli occupi le mani e i pensieri. I servizi di manutenzione non sono che un modo come un altro.

Non è che la conoscesse. Insomma, porca miseria, lui è stato l’ultimo a unirsi al loro gruppo ormai leggendario. Ha avuto poco tempo per volerle bene. Per questo può guardare alla sua morte oggettivamente, a differenza degli altri, senza essere annebbiato dall’affetto e dalla nostalgia.

Serve a poco. È questa la particolarità di Aeris: non importa che abbia solo sfiorato la tua vita, la sua immagine rimane lì, permane con quel suo profumo di fiori e la caparbietà della luce. Era una ragazza dolce, e gli tornano in mente un sorriso gentile e due calmi occhi verdi. Una ragazza delicata, femminile, e tremendamente fuori posto in mezzo agli uomini dal volto feroce (Biondo o no, Cloud fa la sua porca, temibile figura da pseudo-SOLDIER.

Sephiroth vicino a me esplode in uno sbuffo di risa, ma dal bastardo irrispettoso che è si rifiuta di illustrarmi la battuta) e alle guerriere atletiche e sicure delle proprie capacità che bussarono alla loro porta.

Ma questi sono ricordi maledettamente labili. È la fine che ricorda meglio, il modo maldestro e sgraziato in cui si è accasciata al suolo e quell’orribile taglio aperto nell’addome, le mani di Cloud che tremavano impotenti mentre lo coprivano in preda al riflesso condizionato dei combattenti di fare pressione su una ferita che non si sarebbe rimarginata.

Un po’ si sente in colpa per non riuscire a importarsene di più, per il fatto che non riesce a darle di più, ma almeno è onesto. È stato triste, è stata una tragedia, ma prima o poi ogni vita deve finire, e alla fine non è stata una morte tanto atroce, suppone, non se paragonata ad alcune delle voci che aveva sentito quando lavorava per la ShinRa durante la guerra. (Sephiroth si erge nella sua massima statura, oltraggiato nella dignità e insultato nell’orgoglio.

Io e Aeris indietreggiamo subito, saggiamente, e non gli facciamo notare la fondatezza di quelle voci.)

Una volta ci è andato, alla chiesa, riuscendo miracolosamente a non incrociare Spikey, benché fosse chiarissimo anche a lui che qualcuno ci vivesse (in strada sussurrano che sia un fantasma, uno spirito guardiano inviato dal Pianeta a sorvegliare il luogo sacro), e ha piantato quel cosino coi petali intorno che gli aveva comprato Shera, sperando che fosse quella la cosa giusta da fare. Tanto probabilmente è appassito.

Non aveva mai visto una persona che gli piaceva morire infilzata su una spada di due metri.

Una ragazzetta carina vestita di rosa, con tutta la vita davanti. Ventidue anni. Cazzo di età è per morire?

E Spikey, ancora più giovane, sì e no un adulto, ha la faccia liscia e inespressiva di un bambino (anche se i suoi occhi sono più vecchi dello stracazzo di Pianeta) ed è uno stramaledetto “eroe”, e ha dei seri, seri problemi.

Forse è questo che significa essere un eroe, decide. Essere abbastanza forte da convincere chiunque ti stia attorno di potergli risolvere i problemi senza capire che sei come uno strato sottile di ghiaccio quando si parla dei tuoi, di problemi. C’è gente che ha di lui un timore reverenziale quando va a nascondersi in quella chiesa, dove si sgretola sempre di più. Forse è questo l’eroismo. Mettere chiunque (e maledizione, proprio chiunque) al di sopra di te, e non alla maniera dei racconti e delle favole: ignorare veramente e fino in fondo te stesso per un estraneo sul marciapiede.

(Ci sono giorni in cui Cid vorrebbe afferrare Vincent e Cloud, vorrebbe sbattergli la testa l’una contro l’altra, sbatacchiarli fino a far rimbalzare loro i denti nel cranio e strillare: « Smettetela! Smettetela! Smettetela di caricarvi la merda di tutti sulle vostre spalle! Non tutte le cazzo di situazioni di merda di questo mondo sono merito vostro – lasciate che la gente si prenda la responsabilità dei propri errori! … E avete rotto il cazzo voi e i musi lunghi che fate negli angolini della mia stramaledetta nave come dei fottutissimi aspiranti suicidi! » Ma, ovviamente, non lo fa mai.)

Può convincersi che il mondo non sia mai stato in pericolo, che non abbiano mai dovuto darsi da fare per ammazzare un uomo in tempo, prima che imbrigliasse il potere del Pianeta. Se ne può convincere, ma è maledettamente lieto che quella testa vuota e puntuta si sia rimessa in sesto, maledettamente lieto di avercela fatta in tempo e maledettamente lieto quando pensa che un giorno rispolvererà questa storia con qualcuno nella Terra Promessa, riflette, fissando l’amore della sua vita, la sua preziosa aeronave.

Non lo sapete che avrebbe potuto finire tutto? Avete messo tutto il mondo sulle spalle esili di un ragazzino confuso e l’avete messo contro l’uomo che un tempo era il suo (Dio) eroe, e (che razza di stronzi perversi siete?) credevate davvero che potesse uscirne a posto? Siete dannatamente fortunati che Spikey sia Spikey.

Cid conosce i suoi limiti. Sa che se fosse stato al posto di Spikey lui si sarebbe spezzato. Cazzo, spezzato non è la parola giusta. Si sarebbe frantumato, sarebbe scoppiato fino a che di lui non fosse rimasto altro che frammenti affilati impossibili da toccare.

Getta la cicca di sigaretta a terra, imprecando mentre la pesta sotto un piede, seppellendola nella polvere. Stronzi, pensa, che stronzi di merda.



più a fondo



(17 ore, 28 minuti)

Lucrecia è una donna morta. Ah, ma le donne morte esercitano spesso un’influenza maggiore di quelle vive, con tanto di tardivo disappunto di Scarlet. Le donne morte, le madri morte, sono fra le persone più potenti al mondo. Ci sono uomini che uccidono in ricordo delle madri morte, conquistano e governano per l’orgoglio delle loro madri morte. Il desiderio di una madre in fin di vita è molto più autorevole di un qualsiasi desiderio espresso in salute, quando ancora faceva le cose che fanno le madri. Il desiderio di una madre in fin di vita è più grande di quello di un re.

Lucrecia è una donna morta. Eppure il suo corpo vive ancora. È una cosa simile – benché non identica – a quello che è accaduto di recente a Sephiroth, quando il suo corpo (o la sua immagine) è scappato di continente in continente, di città in città e di battaglia in battaglia, mentre quello “vero” appariva qua e là, mai a lungo, un’apparizione sobria e solenne che spaventava a morte buona parte di noi sfortunati cagasotto del Lifestream.

Ma è comunque una madre morta, e ha l’ombra più lunga di ogni altra madre. Lei è la madre di un mostro-dio.

(Sephiroth le si avvicina, le posa le mani spettrali sul viso, esamina i suoi lineamenti con carezze gentili, cerca qualcosa. Cosa non lo so, e non ce lo dirà mai.)

Apre gli occhi, che sono vuoti e morti, ma nel breve istante in cui lui ne traccia il contorno con le dita affusolate, s’illuminano e prendono vita. Bisbiglia il suo nome tra le labbra screpolate, la voce sommessa come una preghiera e debole come un soffio di fiato, lo guarda quasi come se potesse vederlo, le braccia che si uniscono automaticamente per cullare il bambino che non ha mai avuto per sé.

Lei non sa che giorno è oggi; sente solo una fitta che le ricorda una delle contrazioni che moltissimi anni fa le preannunciò la nascita del suo figlio maledetto, e lui le manca tantissimo, vorrebbe talmente tanto il suo bambino che una morsa fisica le attanaglia il cuore. (Lui si abbassa e l’abbraccia, sussurrandole qualcosa all’orecchio. Per un attimo fugace e potente, lei ricorda.)

Le fa male la gola (grida sempre e perciò s’infiamma; i lamenti orribili e addolorati di una madre che piange la morte di un neonato), ma continua a mormorare il suo nome, all’infinito, come se così potesse riportarlo indietro, come a darsi una ragione per non auto-distruggersi.

« Uccidimi » ci prega, e Sephiroth si ritrae. La lasciamo alla sua sofferenza, cruda e fresca come il giorno in cui un bambino ancora sporco di sangue le è stato sottratto.

« Ti odio » bisbiglia, tossendo sangue. « Ti odio ti odio ti odio! »

È difficile capire a chi stia parlando, esattamente.



e giù



(17 ore, 12 minuti)

Si accovaccia vicino al laghetto, guardando nell’abisso. La Mako che gli affila gli occhi e le orecchie gli ricorda dopo un attimo del potenziamento di ogni suo senso, anche quelli rimasti latenti negli esseri umani da quando hanno smesso di vivere unicamente di caccia e coltura.

I suoi occhi (—luccicano, ugh, ma che razza di fenomeno da baraccone sei?

—Sta’ zitto, Zack!

—Sto scherzando! Porca Meteora! Ti pare per caso che i miei occhi siano perfettamente normali?)

I suoi occhi sono talmente acuti che potrebbero rivaleggiare con quelli di un falco, e ogni dieci secondi o giù di lì la sua testa scatta leggermente all’insù, quel che basta per verificare che il movimento delle foglie a cento metri di distanza non sia affar suo. Il tutto accade in meno di un secondo, si riassume in un fremere di sinapsi e impulsi elettrici, così in fretta che nemmeno si rende conto di aver visto qualcosa.

Le sue orecchie possono percepire il brulicare di animali immersi nelle viscere della terra ai suoi piedi, se vuole che lo facciano (non vuole. Li percepiscono comunque.), i vermi che si fanno strada nel terriccio (ché poi è questo che siamo tutti – vermi conficcati sull’amo).

Il suo naso discerne un assortimento di dolci fragranze che lui riconosce ma non sa identificare, dal momento che nessuno gli ha mai insegnato i loro nomi.

(—Lavanda, cardo latteo, monarda, lingua di drago, rosa canina, e stellina odorosa, ci svela Aeris con praticità. La fissiamo un attimo prima di ridere.

Il fiore di Cloud è l’arcangelo nero. Sono fiori semplici a campanula, di un rosso intenso, carnivoro – baluginano tra le foglie a punta come macchioline di sangue su coltelli verdi. È difficile ucciderli, e per qualche torbido guizzo della natura normalmente compassionevole di Aeris, crescono meglio dove lui ha versato sangue o qualche pezzo di se stesso. Il loro unico significato si deve a lui.)

Un senso a cui non riesce a dare un nome, e che da tempo gli altri esseri umani non possiedono più, gli dice che l’unica vita nelle vicinanze non è predatrice, o quantomeno non è umana, e che non si trova in un pericolo immediato.

Cloud capì, a un livello inconscio e drogato mentre un po’ trascinavo e un po’ mi caricavo in spalla il suo culo intossicato fino a Midgar, che se non avesse imparato a convivere con il sovraccarico sensoriale avrebbe passato il resto dei suoi giorni come tutti gli altri beneficiari del veleno Mako – a sbavare, incapace di formare una sola parola coerente… Una creatura indegna. Perciò il suo cervello si è adattato, ha cominciato a filtrare le informazioni a uno stadio subliminale.

È una questione di sofisticato controllo – quanto è importante questa cosa, mi serve quest’informazione? Ci sono cose che devi cercare di carpire in ogni momento (quando divenni un Prima Classe imparai a localizzare un furgoncino dei gelati parcheggiato in una strada con un massimo di tre bar che sparavano musica pop. … Che c’è?) ma per il resto, lui cerca semplicemente di spegnere tutto.

(Ah, le glorie della Mako, che ti obbliga a imparare la differenza tra l’odore del sangue mestruale e quello arterioso.

Ve l’ho mai raccontata quella storia?

Era passato un po’ di tempo dalla guerra – non tanto, quanto basta perché la gente si fosse abituata al fatto che Sephiroth abitasse a Midgar e non stesse macellando persone dall’altra parte del mondo. C’era questo gruppo di ribelli – non una roba grande, nulla di serio come l’AVALANCHE, solo un gruppetto di idioti senza molto sale in zucca che si ubriacavano insieme e sparlavano del pezzo grosso della ShinRa, freschi diplomati di atti minori di terrorismo – che so, finestre rotte, graffiti in posti particolarmente in vista, bombe mal dosate alla stazione dei treni, come se cose del genere potessero cambiare qualcosa…

Comunque il Presidente non ci sta, non quando lo spettro della guerra ancora aleggia ovunque, non ora che ha il cane perfetto da sguinzagliare e con cui schiacciarli, se necessario. Inseguimmo quei poveri disgraziati per tutto il Settore Quattro finché non schizzarono in un bordello. Non so cosa avessero in mente – forse credevano che il Grande Sephiroth fosse troppo arrogante per seguirli in una casa chiusa, o forse che ci saremmo vergognati troppo a rincorrerli fin lì dentro, ma evidentemente si sbagliavano.

In pratica entriamo, facciamo schierare le donne e i loro clienti, le truppe mettono a soqquadro le stanze per trovare questi uomini, e Sephiroth continua a guardarsi intorno come un segugio che ha captato un odore che sa che non ha niente a che vedere con quello che dovrebbe cercare, ma non riesce a ignorare. Sephiroth ha imparato a rispondere automaticamente all’odore del sangue, e più prova a ignorarlo, più forte sembra diventare, e alla fine sbotta, « Chi è che sta perdendo sangue? »

Ovviamente, una delle ragazze avvampa, e neanche la pappona fa una bella faccia – è lì lì per spaccargli una padella in testa.

« Lei può sentire… può sentire quello? » squittisce un’altra di loro, e Sephiroth – sempre più stizzito, perché la sua abilità sta innescando reazioni fuori luogo per uno scambio con i civili – punta gli occhi su una zona che non si dovrebbe mai indicare in compagnia se si è anche solo vagamente dei gentiluomini e le fa: « Lei che dice? »

Al che la signora tentò davvero di spaccargli la testa con una padella, e per tutta risposta Sephiroth, naturalmente, le ruppe un braccio in tre punti diversi e fu così che riuscimmo a far bandire la SOLDIER da ogni bordello di Midgar, e fu così che finimmo pure per dover spiegare – ad Heidegger in persona – che lo scandalo propagatosi per tutta la città circa la brutalità dei SOLDIER e l’ingerenza della Compagnia in faccende che non le competevano era stato generato dal fatto che Sephiroth era riuscito a sentire che quella ragazza aveva il ciclo.

Questa storia strappava sempre una bella risata ai novellini quando spiegavo loro il tipo di migliorie che la Mako avrebbe apportato ai loro sensi.

(Ma non dissi loro delle ragazze, di come risposero al suo sguardo incolore con uno di sfida o di vergogna, e di quando si voltò e una di loro chiese, « Chi cazzo s-si crede di esshere » la voce ispessita dalla rabbia e dalle lacrime, « per guardarci coshì? Come se non fosse un uomo, come tutti gli a-altri? » Non dissi loro di come avesse sputato la parola “uomo” come se fosse una bestemmia.

Non dissi loro che quando uscimmo lui vomitò, non dissi loro di quanto fosse convinto di riuscire ancora ad avvertire l’odore del posto sulla propria pelle, o di quando disse che lì dentro riusciva a sentire tutto, non poteva bloccare gli odori; che per lui quel posto puzzava di sesso misto a profumo stantio e vecchio sudore, puzzava di disperazione.

Non glielo dissi.)

Credo che ridessero fondamentalmente perché sapevamo tutti che Sephiroth stava a noi come noi stavamo a un fante, come una divinità sta a un uomo. Sapevamo che non avremmo mai capito fino in fondo cosa significa riuscire a udire il continuo brusio delle frequenze radio, o odorare le quantità più misere di sangue in un mare di gente, o essere in grado di vedere così chiaramente al buio come se fosse giorno, e trovare accecante anche solo la debole luce del sole, tanto le pupille si trasformano in fessure da gatto.

Non capirono quello che gli raccontai, e a dirla tutta, nemmeno io. Cloud ora capisce.)

In combattimento, Cloud è la cosa meno naturale del mondo: tutti i suoi sensi si acuiscono, la breve fiammata suscitata dalla Mako e dalle cellule di Jenova gli fa lampeggiare gli occhi, e diventa spietato e veloce, pronto a tutto, una sensazione molto più piacevole di quella che potrebbe dargli una droga. Solitamente (fuori dalle battaglie, intendo) si sente normale (o almeno, com’era prima), anche se sa che nelle sue vene scorre abbastanza Mako per una trasfusione in grado di avvelenare un SOLDIER.

Però evita tuttora i centri abitati (come un animale), e vicino a Tifa non riesce a fidarsi dei propri sensi – a volte riesce a sentire il suono del suo cuore che batte dall’altra parte della stanza, oppure la guarda e riesce a scorgere un minimo increspamento della sua fronte generato dal dolore o dalla stanchezza, sente l’odore del sangue di un graffietto sul suo dito che si è già richiuso, riconosce il sapore della sua apprensione quando apparentemente è calma e serena come una statua.

Sa quando lei è dietro di lui in corridoio, quando lo fissa mentre prova a bere (non funziona; il suo corpo espelle automaticamente le tossine e l’alcol lo rende semplicemente irritabile e un po’ stordito – senza la sbornia allegra), e non lo sopporta. Non vuole i promemoria costanti del fatto che è un abominio, del fatto che Hojo lo ha sbrindellato e l’ha ricucito facendo di lui qualcosa di (meglio) non umano, qualcosa di (grande. Il Grande-) alieno. Ha paura di quello che potrebbe farle, perché non è più umano.

Perfer et obdura;

Si tuffa.

dolor hic tibi proderit olim.

Un lampo di memoria: i polmoni che si espandono riempiendo i confini angusti delle costole, che pretendono altra aria oltre a quella viziata che contengono, il cuore che palpita rapidamente contro il costato, costretto ad accelerare per provare (senza successo) a tener testa alle richieste di un corpo che sta morendo, la lotta contro l’istinto di aprire la bocca e inspirare profonde boccate di prezioso ossigeno per placare il bruciore nel petto, la curiosa pesantezza che aumenta man mano che affonda sempre più giù.

Ma è solo un ricordo; è sott’acqua da due minuti, forse tre, e non sente niente, non combatte niente oltre alla battaglia che sta trascinando adesso contro l’impulso spontaneo di risalire a galla per recuperare l’aria di cui non ha più quel bisogno disperato di un tempo. Lui è un secondo Sephiroth, un mostro geneticamente modificato – le regole umane sono ridondanti.

(—Non è vero! gli grida Aeris, ma è inutile perché è così, persino Sephiroth ha il coraggio di ammetterlo.)

Apre gli occhi, e osserva la luce che si riflette sul pelo dell’acqua sempre più lontano. Chissà se è questo che Aeris ha visto mentre la calava nella sua tomba subacquea.

(—No, protesta lei.

Sì. Perché mentire quando si è morti? Tanto gli unici che possano sentirti sono i morti senza pace, e su questo punto sono tutti d’accordo.)

Tocca il fondo, il limo agitato dalla sua caduta gli fluttua attorno, i pesci sfrecciano via in un fulmine di squame d’argento perfettamente sincronizzate, e la luce della superficie tanto lontana gli danza sulla pelle in ragnatele incantevoli. Ci lascia andare. Sta ancora aspettando di esaurire l’aria immagazzinata nei polmoni.



l’appel du vide – l’impulso di saltare giù dalle colline, in un canyon, ecc. Letteralmente, “la chiamata del vuoto.”







NdA: non saprei dirvi se esista davvero un fiore chiamato “arcangelo nero”. Comunque sia, la descrizione che ne ho fatto deriva da diversi membri della famiglia delle ortiche rosse, e non è quindi da ritenersi accurata. In particolare, ho preso spunto dallo Yellow Archangel (lamiastrum galeobdolon – in italiano: falsa ortica gialla) e dal Red Dead Nettle (lamium purpureum – in italiano: falsa ortica purpurea).

NdT: curiosamente, il “Black Archangel” (che sì, a 'sto punto avrei potuto tradurre con “falsa ortica nera”, ma volete mettere la poesia?) esiste davvero, anche se è un fiore parecchio bbbbrutto e lillà che in italiano si chiama anche “marrubio fetido” perché puzza.
In altre parole il fiore di Cloud è il marrubio fetido, l’ortica puzzona.
>8D
BTW, nel testo originale Cid dà a Cloud del numbskull (qui tradotto come “testa vuota”) – e io ovviamente sono andata in Awww Mode, perché quando Cid accetta di entrare nel gruppo dice che “Anyone stupid enough to go up against Shinra nowadays, has GOTTA be a numbskull! I like it!”
E “numbskull”, per qualche ragione che in realtà non mi è troppo chiara, è diventato abbastanza famoso all’interno del fandom inglese, come un “This guy are sick”, o un “Don’t step on the flowers”, o un “Oh yeah? Well to me it looks like a golden shiny wire of hope.” (andate intorno a 7:24, merita sempre xD)
Purtroppo questo è uno degli svantaggi peggiori del non avere una traduzione ufficiale – certi piccoli rimandi finiscono inevitabilmente per perdersi. ;_;
INOLTRE, quella cosa dei profumi che Cloud riconosce ma non riesce a identificare credo sia un riferimento a Case of Tifa, la novel che io sappia non molto conosciuta in Italia che avevo pure tradotto (ma mai pubblicato da nessuna parte) tanti secoli or sono, in cui tra le altre cose Tifa lolla in segreto perché Cloud non sa i nomi di molta frutta e verdura, probabilmente (non viene specificato) perché la sua vita si è interrotta momentaneamente a sedici anni e non ha avuto il tempo di viverla e conoscere o interessarsi a un sacco di cose.
Ma queste note smetteranno mai di essere così lunghe…?

   
 
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