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Autore: AmaranthineMess    17/01/2011    0 recensioni
“Tuo papà era uno splendido pianista”, mi disse. “Suonava divinamente. Sembrava che le sue dita fossero alate. Mi sorrideva, ed io arrossivo dalla gioia. Era bello, il tuo papà, tanto bello, con quei suoi occhi profondi e neri. Tuo papà era l’ultimo uomo buono della terra…”.
Non era vero, ma andava bene lo stesso.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Poi, una sera

a tutti quegli amori
che non hanno ragione di esistere…

Cucinava biscotti.
A volte, entravo in cucina, e vedevo mia madre di spalle, quelle spalle così esili e quasi curve, e stavo lì, ferma, ad osservarla.
Amava tenere in mano quel rosario sottile che ogni tanto rigirava, quasi meccanicamente, fra le dita magre.
Era quasi evanescente, nella sua magrezza.
Era silenziosa, assente.
Teneva i capelli raccolti in uno chignon sulla nuca. Erano capelli sottili e quasi grigi.
Beveva caffè, allungato con l’acqua, perché temeva potesse farle male allo stomaco.  
E poi, si lavava spesso la mani. Quelle mani così magre e nervose, sembravano potersi dissolvere sotto la foga con cui lei le puliva. Sembrava potessero sgretolarsi da un momento all’altro.
Teneva molto alle “cose di famiglia”, alle ricette di sua madre, che teneva custodite dentro un quaderno che nessuno di noi aveva il permesso di toccare.
Abitavamo vicino al faro, allora, e il rumore delle onde che si infrangevano contro gli scogli, cullava i nostri sogni di bambini, e in un certo senso ci invogliava ad essere allegri: solo bimbi allegri potevano reggere quel ritmo, vivere al passo delle onde frenetiche e musiciste…
Mia madre, a volte, fissava il vuoto e vi rimaneva dentro per ore. Non faceva altro; respirava il vento dei suoi ricordi e mangiava melograni. Li sbucciava con le sue flebili dita e li assaporava, chicco dopo chicco, come in trance.
Aveva una lavanderia.
Restava, a notte fonda, con una lampada accesa ma fioca, ad inamidare le camicie delle ricche signore del paese delle quali aveva guadagnato la piena fiducia dopo anni di fedele ed efficiente servizio.
Sbiancava quel bucato come se avesse voluto, in realtà, bruciarlo. Con una tale forza e rabbia, che ne usciva spossata.
Portava sempre abiti lunghi e scuri, però, dallo scollo, sempre e completamente abbottonato, faceva capolino un candido colletto, che poteva essere semplice, di merletto o ricamato, secondo le occasioni.
Quando io nacqui, mia madre aveva appena ventuno anni, ma il suo volto era già pieno di rabbia e di gioia e di sorrisi e di pianto. Le sue rughe sembravano esser nate con lei, ognuna simbolo del dramma della sua vita.
Ripensando a mia madre vedo immagini sfocate, ingiallite, come di quelle fotografie antiche che non sono in bianco e nero, ma più propriamente di un giallino tendente, in alcuni punti, al rossastro.
E quei suoi occhi profondi custodivano tutti i suoi drammi, e i suoi sogni, e la verità che non volle mai dire a nessuno.
Quando si perdeva nei suoi pensieri, voleva soltanto dimenticare tutto. Voleva che tutto passasse, voleva fare in modo che tutto ciò che aveva vissuto sino ad allora si cancellasse magicamente.

 Aveva sposato mio padre quando aveva ancora diciassette anni ed era stato quello il periodo più bello della sua vita.
Liberatasi dalle angherie di un padre che la reputava “inutile”, in quanto molto magra e di cagionevole salute, era rinata, sotto lo sguardo di quel giovane pianista che l’aveva portata con sé in città. Mia madre aveva a lungo vissuto in un paesino arretrato e minuscolo, e la città era per lei sinonimo di libertà.
Seguiva mio padre in giro per i club dei ricconi di allora, e ascoltava tutti i brani da lui eseguiti, da dietro le quinte, seduta di lato, proprio dietro il sipario, in modo tale da non perdere mai di vista mio padre, seduto al piano. Era raggiante e bella, e il suo cuore pulsava ormai al ritmo di quel jazz così caldo e avvolgente che mio padre suonava sfiorando soltanto, quei tasti bianchi e neri.
Durante il primo anno del loro matrimonio nacque mia sorella e tre mesi dopo la sua nascita scoppiò la guerra. Mia madre, allora, fu costretta a tornare al suo paese, dove la lontananza dai centri abitati dava almeno il vantaggio di sentire lontana anche la guerra.
Fu allora che mia madre cominciò a lavorare. Aiutava sua zia alla lavanderia, mentre mio padre racimolava qualche soldo dando lezioni di italiano e matematica; avevano bisogno di più denaro per mantenere mia sorella, visto che con lo scoppio della guerra la richiesta di pianisti era di gran lunga diminuita.
Vivevano di poco, ma erano felici.
Mia madre amava tanto mio padre.
Una volta lui, la portò al mare, di sera.
Mia sorella era rimasta a dormire dalla zia e loro due ne avevano approfittato per fare una passeggiata fino alla scogliera.
Lei lo guardava, innamorata, con un dolce sorriso sulle labbra, mentre lui, camminando, le stringeva la mano, e calciava qualche sasso.
Erano rimasti lì, fermi e abbracciati, persi in quel silenzio così pregno di emozioni, finché non fu buio.
La guerra continuava e così anche le loro vite.
Nacque mio fratello e soltanto qualche mese più tardi mio padre decise di unirsi al gruppo di Combattenti che cercavano di liberare il paese dai Nemici. E partì.
Mia madre, allora, cominciò a piangere, e ad esser triste. E mentre quelle lacrime, calde, scendevano, le sue rughe cominciavano a scavarsi, nonostante la sua giovane età; le sue mani diventavano sempre più sottili e il suo corpo trasparente.
La mancanza di quel suo amore la divorava da dentro, e lei si lasciava dilaniare da quella malinconia feroce, persa com’era nei suoi sogni, nei suoi pensieri.
In quel periodo vide mio padre solo una volta, perché nonostante combattesse nella nostra regione, era pericoloso per lui tornare al paese. I Combattenti si rifugiavano sulle montagne.
Mia madre racconta che le mani di mio padre divennero presto dure e nodose e i calli, sicuramente, non gli avrebbero più permesso di suonare tanto abilmente come era solito fare in gioventù.
Era tutto cambiato da quando si erano sposati,e mia madre ne moriva dentro, giorno dopo giorno.
Una decina di giorni prima del terzo compleanno di mia sorella arrivò al paese un ragazzino pallido e sporco. Era magrissimo. Giunse nella piazza del paese, esausto, e prima di svenire, pronunciò, in un sussurro, il nome di mia madre. Così fu portato da lei.
Io non ero ancora nata, ma mi si racconta che mia madre si impegnò a fondo per curare quel ragazzino e quando lui, un paio di giorni dopo il suo arrivo, fu di nuovo in forze, tirò fuori da una tasca nascosta nella suola della scarpa, un biglietto, tutto stropicciato e logoro.
Alla scogliera, la sera del compleanno di Sara. Sta’ attenta”.
Era la grafia di mio padre.
Era già un anno che non aveva sue notizie, e quando ricevette quel biglietto mia madre lo lesse, poi lo strinse fra le mani e tirò un profondo sospiro, ringraziando il cielo che mio padre fosse ancora vivo.
Quella sera indossò il suo abito più scuro. L’austerità era già diventata parte di lei, il viso era pallido, le labbra dure e bianchissime. Le sue mani erano fredde e nervose. E la sua bocca non sorrideva più da tempo.
Quando lo vide, alla scogliera, quasi non lo riconobbe. Era molto dimagrito e portava una barba ispida e incolta. Ma i suoi occhi erano ancora gli stessi. E il suo sguardo la trafiggeva e la deliziava, come sempre.
Quando si incontrarono non dissero una parola. Si fermarono ad un paio di metri l’uno dall’altra. Si guardarono, si scrutarono e poi si vennero incontro, abbracciandosi, e in quell’abbraccio entrambi sorrisero, sereni.
Stettero, fermi, in silenzio, finché non iniziarono a sentirsi dei rumori.
La guerra, a quel tempo, era agli sgoccioli, e mio padre sperava di poter tornare stabilmente a casa entro l’anno. I Combattenti vincevano nettamente sui Nemici, e si diceva che da lì a poco sarebbe stato firmato un armistizio.
Ma proprio un paio di giorni prima di quel loro incontro, un gruppo di Nemici in fuga aveva occupato tutta la campagna circostante il paese. Mia madre aveva pensato di rimandare l’incontro, ma non aveva come rintracciare mio padre.
Così andarono le cose: quell’abbraccio, alla scogliera, fu sciolto da mio padre, non appena sentì rumore di passi.
Sussurrò a mia madre “ti amo”, poi l’allontanò da sé, la spinse, le disse di nascondersi, poi iniziò a correre, ma lei rimase ferma, impietrita dalla paura, e vide tutta la scena. Mio padre iniziò a scappare verso la macchia che si estendeva a non molta distanza dalla scogliera, ma un colpo di pistola lo raggiunse ad una spalla. Cadde, e rimase a terra, fermo.
Mia madre corse verso di lui, disperata ma in silenzio, poi venne raggiunta e accerchiata da un gruppo di Nemici.
Allora iniziò a gridare e cercò di divincolarsi, ma due di quegli uomini la tenevano per terra.
E mentre un terzo iniziava a sbottonarsi la giacca, mia madre riuscì ad alzare la testa e, nel chiarore di quella luna piena, vide il corpo di mio padre sobbalzare sotto i colpi della pistola di uno di quei soldati, fermo, in piedi, davanti a lui.
Quando gli spari cessarono –erano stati sette, forse otto-, mia madre smise di gridare, di piangere, di pensare. Smise di divincolarsi e aspettò, immobile, che quei Nemici finissero di usare il suo corpo.
Non la uccisero.
Era quasi l’alba, quando andarono via. Lei aspettò il sole, poi cercò di mettersi in piedi, ma fece due passi e cadde, svenuta.
Fu il ragazzino a portare mio nonno alla scogliera, l’indomani mattina. Ma quando quel vecchio la vide, svenuta fra i sassi e piena di polvere, con la camicetta strappata che lasciava intravedere i seni e il sangue, che le appiccicava i capelli al volto, chiuse per un attimo gli occhi. Poi fece il segno della croce ed andò via.
Il ragazzino allora la soccorse e la portò in casa della zia lavandaia, che si prese cura di lei.
Mio nonno decise che né mia madre né i miei fratelli avrebbero più messo piede in casa sua e quando seppe della mia nascita dichiarò che se solo mi avesse vista non si sarebbe lasciato impietosire dalla mia tenera età e mi avrebbe uccisa, perché lo meritavo, da piccola bastarda quale ero.
Mia madre appena fu in forze lasciò la casa della zia e andò a vivere in una vecchia casa abbandonata, nei pressi del faro.
Continuò a lavorare come lavandaia, continuò la sua vita di sempre, ma non sorrise mai più.

E nonostante tutto mia madre mi amò come mai amò nessun altro. E costruì per me un mondo tutto di bugie, ma che l’aiutava ad andare avanti.
Mi raccontava che mio padre suonava il piano, mi diceva che era bello e raggiante e che lei lo amava moltissimo. Mi diceva sempre di quanto il mio papà era stato coraggioso a combattere contro i Nemici della nostra patria, e quando me lo raccontava quasi tremava, sembrava trattenere dei singhiozzi asciutti, senza lacrime, e perdeva, ogni volta, quel suo sguardo nel vuoto.
Mi guardava e mi scrutava dentro, mia madre, e rivedeva in me lo sguardo di colui che non era mio padre. Ma lei lo vedeva, lo vedeva in me, ne era sicura.
Mi diceva di quando avevano vissuto in città, e dei club di ricchi dove mio padre suonava, ed è così che io l’ho sempre sentito dentro, quel papà pianista, così divertente e affascinante, l’ho sempre sentito dentro come parte di me, nonostante non fosse mio.
Ha sempre fatto di tutto, mia madre, per farmi sentire figlia dello stesso padre dei miei fratelli.
Poi ogni tanto iniziava a fissare questi miei occhi irrimediabilmente azzurri; allora lasciava tutto e correva da me e mi abbracciava e mi stringeva, come non faceva con nessuno dei miei fratelli, come se a me mancasse qualcosa che invece, loro, avevano; ma in realtà era un qualcosa che mancava a lei.
Una volta eravamo sul portico di legno che aveva fatto costruire dopo che era morta sua zia, con i soldi che lei le aveva lasciato in eredità assieme alla lavanderia.
Mia madre stava rammendando dei calzini e ricordo che mi affacciai sulla porta di casa e fui pervasa da quel vento marino e da quel tramonto estivo.
Il sole ci era di fronte e faceva apparire mia madre solo come una sagoma nera e sottile, nella luce rossastra.
La chiamai, “mamma?”
E allora lei lasciò tutto e mi venne incontro. Si inginocchiò sulla soglia e mi abbracciò e mi tenne stretta, dondolandosi un po’. Canticchiava.
“Tuo papà era uno splendido pianista”, mi disse. “Suonava divinamente. Sembrava che le sue dita fossero alate. Mi sorrideva, ed io arrossivo dalla gioia. Era bello, il tuo papà, tanto bello, con quei suoi occhi profondi e neri. Tuo papà era l’ultimo uomo buono della terra…”.
Non era vero, ma andava bene lo stesso.

 Poi, una sera, mia madre scomparve fra le onde, e mai nessuno seppe se fossero state le onde stesse a rapirla e trascinarla via, o se piuttosto fosse stata lei ad abbandonarsi ad esse.
La verità, mia madre, non me la disse mai, ma io vivo con uno splendido ricordo dentro, come fosse mio, di lei, e del mio papà pianista.

   
 
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