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Autore: LarcheeX    19/01/2011    6 recensioni
Rin è agorafobica, cioè ha paura degli spazi aperti, e non è mai uscita di casa nei suoi diciannove anni.
e allora che ci fa invischiata in un pazzo e sconclusionato viaggio on the road per tutta l'Europa?
e, ancora, cosa potranno mai Kagome, Inuyasha, Kikyo, Naraku, Shippo, Shiori, Miroku, Sango, Koga, Ayame, Kagura, Bankotsu, Jakotsu, Suikotsu e soprattutto Sesshomaru darle di importante nella vita?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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On the Road.

1. Rapimento.

 

Mugugnò soddisfatta, mentre scorreva giù con il mouse per visualizzare tutta la pagina del computer, dove era impegnata a vedere il risultato del suo esame finale. Ed eccolo lì, campeggiare sovrano in testa alla classifica:

 

Rin Jordan: 100 con lode.

 

Si alzò con aria trionfante, disinfettandosi le mani che erano state a contatto con la tastiera, si infilò le pantofole e schizzò in cucina dalla madre: “Mamma, ho superato l’esame con il massimo dei voti!” esclamò, alzando un pugno in aria con fare vittorioso. Isabella si girò, sorridente, mentre finiva di mescolare con il mestolo l’impasto per una torta: “Brava tesoro.”

Rimasero un po’ così, con Rin che guardava la madre, curiosa, e lei che girava e girava con il mestolo nella ciotola.

Dopo qualche minuto fu la madre a prendere la parola: “Senti, stavo giusto pensando… ora che hai diciannove anni, non credi che sia tempo che cominci a vivere normalmente? Intendo… non vuoi guarire?”

Il volto della giovane si rabbuiò: sua madre faceva quelle storie da quando ne aveva memoria, ma lei, Rin, aveva un unico, insormontabile problema che si chiamava agorafobia. Non era mai uscita di casa, e aveva sempre studiato a casa con un professore pagato (tanto) per non farla uscire.

Il fatto era che bastava solo un alito di vento, una macchina, una goccia di pioggia per farla schizzare dentro le sue confortanti quattro mura domestiche. E, soprattutto, aveva il terrore dei germi.

“Noo, io sto bene così!” esclamò, mettendo le mani avanti. Guarire significava prima di tutto andare da un dottore. E andare da un dottore significava uscire. Quindi no.

Isabella la fissò, obliqua, mentre diceva: “Ho il tuo regalo per il diploma.” A quella frase Rin si fece pensierosa: in teoria doveva essere felice, ma le occhiate oblique di sua madre le facevano paura. Sia perché il viso di Isabella metteva un cipiglio inquietante, sia perché le idee di sua madre non si potevano certo definire sicure, considerata la sua delicatezza.

“Oh, che bello… cos’è?” chiese, curiosa. La madre guardò l’orologio, che segnava le nove e mezza di mattina del dieci giugno, con un sorrisetto per niente rassicurante: “Arriverà tra poco.”

Rin non sapeva se esserne felice o meno.

Fece per dirigersi di nuovo in camera, ma fu fermata dalla voce della sua cara mamma: “Rin, ma perché non ti metti qualcosa di più estivo?” lo sguardo della diretta interessata scese sul maglione di lana blu che si ostinava a mettere per paura di un raffreddore, la gonna verde a pieghe della divisa, le calze verdi, gli scaldamuscoli blu e le ballerine con il tacco nere. “Io sto benissimo così!” esclamò. Avrebbe giurato che la madre avesse scosso la testa sconsolata. Ma, per lei, anche se c’era il sole c’era il rischio di prendersi un malanno.

Ad un certo punto suonò il campanello.

Rin si irrigidì: chi stava suonando alla porta era portatore di germi, anche se probabilmente avrebbe portato il suo regalo. Si sedette sul divano, mentre la madre correva ad aprire, con lo stesso sorrisino poco rassicurante che aveva poco prima.

Sulla soglia della sua casa igienicamente asettica apparve un uomo che sembrava gridare tutto il contrario, e che le ricordava vagamente il rozzo motociclista di qualche film degli anni ottanta: era un ragazzo di circa vent’otto anni alto, con i capelli scuri legati in un codino e gli occhi blu profondi come il mare. Ma la cosa più sconvolgente e preoccupante era il suo abbigliamento: era vestito con una maglietta a maniche corte rossa, macchiata qua e là, pantaloni che somigliavano vagamente a jeans molto rappezzati e un paio di anfibi infangati. Con il dito della mano destra reggeva una giacca di pelle scura dall’aria vissuta. Una persona da storcere il naso. “Ciao Miroku!” esclamò Isabella, sorridendo. Rin si rabbuiò ancora una volta: chi era quell’uomo? Non era un rimpiazzo di suo padre, vero? Perché in tal caso non l’avrebbe perdonata: suo padre era morto e doveva conservarne la memoria!

“Rin, lui è Miroku, il figlio di una mia amica.” Lo presentò lei, e la ragazza si vide costretta a risvegliarsi e stringere con un sorriso che aveva un che di schifato la mano di sicuro impolverata del ragazzo, che sorrise a sua volta, marpione. Si sentì immediatamente a disagio. “Pia… piacere…” piagnucolò, cercando di evadere strisciando lentamente sempre più lontano da lui, che le mise una mano sulla spalla, gioviale: “Su, Rinuccia! Vedrai che ci divertiremo!” esclamò lui, tutto euforico.

Ci? Che razza di storia è questa? Pensò, disperata. Quella faccenda sapeva terribilmente di congiura. Rivolse un’occhiata bieca alla madre, che ridacchiò divertita. Allora era una complice!

“Dove sono le valigie?” chiese il ragazzo, parlando questa volta a Isabella. “Di sopra. Accomodati.” Rispose, indicandogli le scale che conducevano alla camera di Rin.

La povera vittima lasciò che l’indesiderato ospite si dirigesse a profanare il suo tempio per poi rivolgersi furente alla madre: “Che storia è questa? Di che valigie andava blaterando?” sibilò, attenta a non farsi sentire da Miroku. Isabella sorrise, ridacchiò e socchiuse gli occhi, per poi rispondere: “È il tuo regalo.” La ragazza non fece in tempo ad aprire di nuovo bocca che il ragazzo scese, portando in mano quella che era una valigia scura piuttosto grande, che sembrava piuttosto vissuta, come se avesse viaggiato molto. Miroku aveva un ghigno terribilmente affabile dipinto sul volto: “Bene, Rinuccia, ora andiamo? Ci aspetta l’avventura!” disse poi, uscendo un attimo per posare il bagaglio nel retro di una macchina grigia e scalcinata. Lei scosse violentemente la testa: “Noo, io rimango qui e non esco.” Disse, più a sé stessa che a qualcuno in particolare, anche perché la madre la stava spingendo verso la porta. Lei si opponeva in ogni modo ma, avendo trascorso tutti e diciannove gli anni della sua vita in casa, in quanto a muscolatura scarseggiava, e ogni sforzo risultava inutile, almeno finché non si aggrappò allo stipite dell’uscio aperto. Poi intervenne anche Miroku a tirarla per le caviglie.

La scena vista da fuori, poteva essere assai comica: Rin era aggrappata alla porta con tutte le sue forze, anche se le sue gambe ormai stavano fuori, Miroku la tirava per le caviglie, sforzandosi di non pensare a quello che poteva esserci sotto la gonna che portava la ragazza, e Isabella che spingeva da dentro con la schiena.

Alla fine al ragazzo venne l’illuminante idea di prendere la ragazza sul groppone.

“Cosa fai!? Lasciamiii!” gridò Rin, scalciando in aria e battendo i pugni sulla schiena magra del suo rapitore, mentre guardava inferocita la madre che salutava con la mano. Cominciò a inveire molto acidamente su Miroku, che sembrava il più divertito della scena, mentre i passanti si giravano, sconvolti dal linguaggio colorito della ragazza: “Ciao Rin, ci vediamo a settembre!” cinguettò la signora Jordan, sventolando un fazzoletto.

“Cosa!? Settembre?! Lasciamiii!” gridò ancora la ragazza, battendo ancora i suoi inutili pugni sulla schiena di Miroku, che la scaraventò nella sua auto, nel posto accanto al volante, legandola con la cintura. Cercò di divincolarsi, pensando che quella era una macchina, dove regnavano i germi, e magari dove il cosiddetto Miroku faceva le sue cose con le sue donne, ma il ragazzo salutò veloce sua madre e partì a cinquanta all’ora.

Cominciò a tremare, e forte anche, sia perché era in uno di quei trabiccoli orribili e pieni di germi, sia perché, a quanto pareva, stava partendo per fuori con uno sconosciuto con la faccia da maniaco.

“Picchi forte. Sembravi la mia ragazza.” constatò Miroku, dopo qualche minuto di silenzio. Lei si allontanò, per quanto possibile, da lui, facendosi ancora più piccola di quello che già non fosse.

“Ma dai, non sei contenta?” parlò ancora lui. Rin le rivolse la sua occhiata più feroce, cattiva e acida, ma non fu notata visto che il ragazzo sembrava preso dalla strada.

Però Miroku sembrava incline a volerla distogliere dalla sua paura degli spazi aperti: “Pensa all’aria fresca!”

“Raffreddore.” Rimbeccò lei, imbronciata.

“Al bagno nei mari limpidi!”

“Meduse.”

“Ai concerti!”

“Folla.”

“Alla montagna!”

“Orsi.”

Lui sembrò ridacchiare: “Agorafobica fino all’eccesso, eh? Con questo viaggio guarirai.”

Rin assunse un’espressione del tipo non credo proprio e si appuntò mentalmente che, una volta tornata, avrebbe dovuto chiudersi per sempre dentro la sua camera. E soprattutto impedire alle persone di nome Miroku con la faccia da maniaco di mettere piede in casa sua. E, inoltre, si appuntò di farla pagare alla madre, perché infondo è lei che aveva organizzato tutto quello.

“Dove stiamo andando?” chiese dopo un po’ infarcendo il suo tono calmo con l’acidità più velenosa che riuscisse a simulare. Lui ci mise tutto il suo tempo per rispondere, gettandole prima un’occhiata divertita, poi sbuffando leggermente: “A Londra.” Al nome della città la ragazza sobbalzò. Così lontano? Si chiese, sgomenta. Già era tanto se era uscita si casa, e ora la portavano addirittura a Londra? Qualcuno forse la voleva indurre al suicidio. Senza il forse.

“E perché andiamo a Londra?” chiese ancora, con lo stesso tono di prima, anche se cominciavano a sentirsi le prime incrinature di nervosismo. Lui ridacchiò: “Per prendere un aereo.”

Il passero mangiava tranquillo il suo verme sul suo albero. Almeno finché non passò un’auto un po’ scalcinata dalla quale provenne un urlo disumano: “CHE COSA?!?!?!?!?!?!?!”

Il passero, ormai traumatizzato, cadde a terra, vittima di un ictus, un infarto e perché gli era andato di traverso il verme che stava mangiando.

Miroku sembrava trattenersi con tutte le sue forze dallo scoppiare a ridere, cosa che Rin trovò terribilmente irritante: “COSA TI RIDI???? SONO IN UNA SITUAZIONE DEGENERE E TU RIDI!!!” strillò, con voce acuta.

A quel punto il sorriso di Miroku si fece un po’ più serio: “Guarda che le uniche cose degeneri siete tu e la tua malattia.”

Rin si accasciò sul sedile della macchina, sconfitta. A quella frecciatina non poteva certo ribattere.

Il silenzio piombò di nuovo nella macchina, mentre Miroku imboccava l’autostrada. Rin cercava di non pensare che stava fuori, con un tipo con la faccia da maniaco, e che, a quanto pare, se ne stava andando da qualche parte con un aereo. Cercava di chiudere gli occhi, ma le sue palpebre sembravano riluttanti ad abbassarsi a causa del nervosismo. Si accorse poi di tremare.

Un grido soffocato provenne poi dalla giacca di Miroku, sembrava quasi la voce di un cantante rock piuttosto alta, poi Rin capì che si trattava del cellulare del suo rapitore che squillava.

 

Everybody's got their problems,
Everybody says the same thing to you.
It's just a matter of how you solve them,
And knowing how to change the things you've been through.

I feel I've come to realize,
How fast life can be compromised
. *

Con tutta la calma del mondo il ragazzo infilò la mano nella tasca e ne tirò fuori un cellulare che urlava a tutta potenza. “Sango, che piacer…” provò a rispondere, ma fu interrotto da una voce squillante e ancora più alta della suoneria stessa: “MIROKU, QUANDO CASPITA CI METTI A RISPONDERE?” a quel punto il diretto interessato sobbalzò, facendo sbandare lievemente la macchina. Rin artigliò le mani al sedile.

“Ehm, Sango…” provò a spiegare lui, ma fu interrotto di nuovo dalla stessa voce, questa volta più calma: “Comunque. A che ora partiamo?”

“Alle due e venti.”

“E credi di riuscire a venire per le due e venti in aeroporto?” questa volta la domanda era leggermente sarcastica.

“Sì.”

“Ok. Ci vediamo lì. Ti amo.”

“Ti amo anch’io. Ciao Sanguccia.”

Rin era sconvolta. La persona al telefono cambiava umore alla velocità della luce: prima gridava così forte che a momenti rompeva il telefono, poi diceva ‘ti amo’… valla a capire, certa gente.

Miroku intascò il cellulare con l’espressione beata di chi sa di avere tra le sue braccia l’anima gemella, o forse era davvero così, Rin non avrebbe potuto saperlo, visto che, non uscendo mai di casa, non si era nemmeno mai innamorata. Certe volte si sentiva davvero vuota, se così poteva esprimersi, ma il solo pensiero di uscire la inchiodava in casa.

Ma una domanda ancora persisteva nella sua testa: che cosa doveva fare su un aereo a Londra? Dove doveva andare? Perché sarebbe tornata a settembre? A pensarci bene le domande erano tre.

Aprì bocca, ma fu interrotta: “Suppongo ti stia chiedendo perché tu stia partendo.” Constatò Miroku, con il sorriso sghembo di chi la sa lunga che gli incurvava leggermente le labbra. Annuì.

“Beh, faremo un bel viaggetto in tutta Europa, dalla Francia alla Russia. Senza lasciare la Grecia.” Cominciò: “Tua madre aveva detto alla mia che doveva trovare un modo per farti guarire dalla tua irrazionale paura degli spazi aperti e poi sono spuntato io, che stavo organizzando questo viaggio “on the road” con alcune persone che avevano risposto al mio annuncio sul giornale, e quindi ben presto sei stata scritta nella lista dei partecipanti, tua mamma ha pagato la quota e mi ha pregato di non dirti nulla. Poi il giorno del risultato dell’esame, che era anche quello della partenza, come hai visto, sono venuto e ti ho…”

“Rapito.” Completò Rin, sconsolata. Ecco risolto il mistero. Sarebbe andata in giro per l’Europa per tre mesi, grazie a una congiura tramata da sua madre e quel pervertito di nome Miroku. Non sapeva perché lo chiamasse così, ma la sua faccia le faceva pensare a qualcuno di fin troppo libertino.

Miroku ridacchiò e aumentò la velocità della macchina, mentre canticchiava ancora le dolci note della sua suoneria.

 ***

Londra era grigia. Ora ne aveva anche la prova. Lo aveva sempre saputo, considerato il fatto che leggeva tantissimo, ma vederla dal vivo era tutta un’altra cosa. Avrebbe preferito rimanere a casa.

Miroku parcheggiò, circa tre ore più tardi, alle dodici e quaranta, sotto una casa che sapeva di vecchio. Probabilmente la sua, ma, visto il proprietario, Rin non avrebbe comunque messo piede dentro. Ci sarebbero voluti comunque molti sforzi per convincersi a uscire in un luogo pieno di germi come quella città. Non aveva smesso di tremare per tutto il tempo, e lo faceva anche adesso. Aveva paura. Sentiva ovunque l’oppressione tipica dei grandi palazzi di città, e questo le faceva venire il panico.

“E ora andiamo all’aeroporto.” Annunciò Miroku, prendendo il suo bagaglio, uno zaino enorme, e consegnando la valigia a Rin, che non appena la prese in mano crollò a terra. Ma quanto era pesante? Che ci aveva messo dentro sua madre?

Quando vide un autobus fermarsi davanti a loro e Miroku intento a salirci il panico salì a cinquecento: lei, in un autobus dove chissà quante persone che erano salite e chissà quante ne sarebbero salite?

“Devo riprenderti in braccio?” chiese Miroku, lievemente scocciato. Per paura di una figuraccia, la ragazza salì sul mezzo, riluttante.

Il suo rapitore si era tranquillamente seduto su uno dei posti liberi, non senza prendere il giornale che se ne stava abbandonato sul sedile prima di lui. Lo aprì come se niente fosse e cominciò a leggere. Dopo un po’ se ne uscì con un “NOO!” che fece sobbalzare tutte le persone che stavano lì vicino. Rin si mise un pugno in bocca per evitare di strillare per lo spavento. “Il City… ha perso di nuovo.” Gemette poi Miroku, abbassando il giornale quel poco per bastava per scorgere il volto incazzato nero della ragazza, che sembrava dire: ma vaffanculo!, e si nascose di nuovo dietro i fogli.

“Potresti cadere.” Disse poi, rivolgendosi alla sua recalcitrante accompagnatrice, che non osava né appoggiarsi a uno dei sostegni, né sedersi, per paura dei germi. Lei scosse il capo, ostinata: “Chissà quanti germi ci sono…” disse. Vide Miroku alzare gli occhi al cielo.

 

Erano le tredici e dieci quando finalmente riuscirono a farsi fare il chek-in e imbarcare i bagagli. Erano arrivati correndo, dribblando tutti, sgomitando, gridando, ma alla fine ce l’avevano fatta. Anzi, diciamo che Miroku aveva corso e aveva trascinato una Rin stravolta, dribblando tutti, sgomitando e gridando frasi di convenienza quando atterrava nella sua corsa spericolata qualche disgraziato di passaggio, ma alla fine era arrivato.

“Bene, ora aspettiamo qui le due e venti.” Disse poi il ragazzo, sedendosi in uno dei posti davanti al gate 7, dove spiccava a caratteri cubitali il volo

 

Londra-Parigi ore: 14.20

 

“Vedi, quello è il nostro volo, quello che ci porta a Parigi.” Illustrò per poi tornare al giornale che aveva cominciato in autobus.

Rin, dal canto suo, tremava come una foglia. Non era mai uscita di casa, e come prima volta quella bastava a farle pensare che sarebbe stato meglio se si fosse murata viva dentro la sua camera. Non osava sedersi per paura dei germi, quindi passeggiava avanti e indietro per il nervosismo. Anzi, no, per il panico. Era talmente impanicata che non si accorse della ragazza bruna che si stava avvicinando a Miroku, trasportando un borsone gigante rosso senza alcuna fatica.

“Interessante?” chiese al giovane, abbassando gli il giornale. Miroku sembrò metterci qualche secondo per riconoscere la persona che gli si era parata davanti, con il suo seno prosperoso, ma poi gridò, saltando in piedi: “Sanguccia!” Almeno tre persone si girarono divertite, mentre altre dieci soffocavano nella bibita o nel panino che stavano mangiando, per lo spavento.

“Wow, mi hai riconosciuto.” Ridacchiò quella. Non sembrava molto offensiva.

Quindi quella era Sango, la ragazza di Miroku, quella che a momenti rompeva il suo cellulare con la sua delicata voce. Non era assolutamente brutta: era alta, con un fisico slanciato e muscoloso, tipico di chi fa molto sport, capelli color castagna legati in una coda e due vispi occhi da cerbiatta. Era vestita con un paio di shorts in jeans, una canottiera sportiva che le evidenziava le curve e un paio di scarpe da ginnastica.

Rin, in un momento di debolezza come quello in cui si trovava, avrebbe davvero voluto essere come lei: alta, sicura di sé, atletica, ma allo stesso tempo bella. Non poteva dirsi una sua fotocopia, piuttosto il contrario: lei era minuscola, non superava il metro e cinquantacinque, aveva un fisico sottile e piuttosto delicato, forme più o meno normali, niente di che, e soprattutto, era agorafobica. Mai aveva rimpianto l’esserlo, e purtroppo questo non l’aiutava, anzi aumentava il suo timore nei confronti dell’esterno.

“Oh, che scemo…” disse Miroku: “Lei è Rin, viaggerà con noi.” La presentò, prendendola dal suo angolino e portandola davanti alla sua ragazza. Sango sorrise.

“Pia-piacere.” Balbettò. Non era mai uscita di casa e non aveva avuto altre relazioni sociali oltre quelle con la madre e con l’insegnante che le faceva da maestro. Come avrebbe fatto?

 

* “The Hell Song” by Sum 41





























beh, era ora che dessi il mio stupido contributo con una long fic a questa sezione XD
no, vab, scherzi a parte, spero che vi piaccia :)
  
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