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Autore: Euterpe_12    19/01/2011    2 recensioni
Piangere è come esorcizzare il dolore.
Le lacrime, per lui, erano le braccia forti che non lo potevano stringere quando stava male.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Naozumi Kamura/Charles Lones
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dentro di Me

Ciao a tutti ^_^ sono nuova della sezione, anche se ho scritto una one-shot un bel po’ di tempo fa. Mi piacciono molto alcune storie del fandom e un po’ la nostalgia per questo bellissimo anime-manga, un po’ la voglia di scrivere… mi hanno portata a postare questa one-shot. In realtà ho il progetto di scrivere una long su questi meravigliosi personaggi… ma ho troppe fic in sospeso e per ora finirei per fare un lavoro fatto male! Intanto spero leggerete e apprezzerete questo mio lavoretto. Il protagonista è Naozumi, mio personaggio preferito con Sana e_e, ma non è una NaoxSana… non ho ancora, purtroppo, trovato quella scintilla che possa far scattare l’amore di Sana verso il mio Nao (io di motivi per me ne troverei mille *_*) quindi vedrete una Sana innamorata del suo Akito.

Dato che in questa serie l’anime differisce molto dal manga voglio specificare che mi riferisco soprattutto alle vicende che accadono nella serie tv. Spero che apprezzerete, anche se il personaggio di Naozumi non è amato quanto Akito spero, comunque, di farvelo apprezzare!

, penso di aver detto abbastanza: buona lettura!

Euterpe_12

 

 

Finalmente, Piange

 

  • * * * *

 

Le luci di New York lo abbagliarono. Accesero i suoi occhi, colorando il viso bianco.

Avrebbe voluto sparire.

Attraversò l’aereoporto distrattamente, guardando a destra e a sinistra ma pareva non stesse vedendo nulla se non il pavimento che attraversava. I suoi lineamenti così conosciuti, il suo viso così angelico, quegli occhi dichiarati più volte come quelli più invidiati dagli uomini di tutto il mondo.

Lui, l’attore.

Lui, il premio Oscar.

Solo la sera prima aveva stretto tra le mani la statuetta sorridendo soddisfatto al pubblico di tutto il mondo: aveva vinto l’Oscar! Naozumi si era impegnato tanto per quel film, ed era stato addirittura felice prima di ricevere quella telefonata e vedere il suo piccolo e falso mondo crollare, manco fosse fatto di cristallo sottile.

Aveva abbassato il capo e aveva detto distrattamente che sarebbe subito accorso a New York. Perché papà, aveva detto Cecil, stava morendo.

Papà?

Lui non lo aveva mai chiamato papà.

Mentre saliva sul taxi gli vennero in mente gli occhi grigi di quell’uomo che quando Naozumi era bambino, lo aveva abbandonato: proprio quando avrebbe avuto più bisogno di lui.

Ma davanti a certi avvenimenti, bisogna abbassare il capo e dimenticare il passato.

Aveva pensato proprio questo mentre attraversava il lungo corridoio dell’ospedale ed infermiere e pazienti si voltavano in sua direzione, indicandolo.

-Ma quello è Naozumi Kamura!- dicevano. –Il premio Oscar come migliore attore!- ripetevano in coro. Di solito avrebbe alzato il capo, avrebbe fatto un sorriso di circostanza ed avrebbe addirittura firmato autografi. Ma quello non era certo il momento.

Andò al reparto oncologia, chiedendo del signor Hemilton. Un’infermiera imbarazzata gli disse il numero della stanza e lui ringraziò, gentile, anche in quelle occasioni.

Vide subito la bionda chioma di Cecil: un fiore di donna, ora, con i suoi 25 anni. Al suo fianco Brad non perdeva tempo per starle vicino, ricordandole all’orecchio quanto le volesse bene.

L’amava molto, eppure non era mai riuscito a confessarglie lo davvero.

-Finalmente sei qui!- disse in lacrime la ragazza gettandosi tra le sue braccia. Bagnò il suo giubbotto di jeans delle proprie lacrime, e con singhiozzi strozzati aveva sospirato. Erano due anni che non si vedevano. Due lunghissimi, infiniti anni. Non che si fossero mai visti con cadenza regolare: Naozumi aveva sempre tenuto fede alle proprie parole e aveva fatto la propria strada da solo. E da solo si era meritato il premio Oscar.

Prese ad accarezzarle i folti ricci biondi, sussurrandole all’orecchio.

-Sta tranquilla, risolveremo tutto.- non ne era molto convinto, ma gli dava profondamente fastidio vederla piangere. Cecil gli era sempre parsa simile ad una piccola e delicata bambola di porcellana, pronta a rompersi al primo impatto vero con la realtà. Sentirono Brad che si schiariva la voce e subito dopo Cecil si scansò dalle braccia del fratello.

-Non fa che chiamarti.- disse allora il biondino indicando la porta della stanza di Gary. Naozumi lo guardò incredulo.

-Sì…- sussurrò Cecil annuendo. –Dice di volerti parlare, sembra abbia paura di… di non farcela!- e riscoppiò in lacrime. Le forti braccia di Brad l’accolsero mentre Naozumi si gettava all’interno della camera ospedaliera.

E lo vide.

Il re dei palchi di New York, colui che era in grado di lasciare a bocca aperta chiunque in tutto il mondo con i suoi spettacoli.

Ricco. Serio. Intelligente. Ma incapace di sfuggire alla morte. Perché, in fondo, era solo un uomo.

Naozumi si sentì profondamente piccolo di fronte all’immagine di quell’uomo sdragliato su un letto d’ospedale, talmente indifeso che quasi gli venne voglia di trascinarlo via e dirgli che l’avrebbe aiutato lui. Che l’avrebbe portato in un mondo migliore, senza ospedali e malattie da curare.

Gli si sedette accanto, guardando i suoi occhi chiusi: doveva essersi addormentato. Uno strano impulso lo spinse a stringere la mano del padre, e si sentì subito meglio quando ne percepì il tiepido calore.

Sospirò.

Avrebbe voluto piangere.

Naozumi era una persona molto sensibile. Quando stava male spesso si rifugiava nelle lacrime perché lo facevano stare subito meglio.

Piangere è come esorcizzare il dolore.

 Le lacrime, per lui, erano le braccia forti che non lo potevano stringere quando stava male.

Ma in quel momento, anche se ci provava, non ci riuscì.

Strinse le palpebre forti e quasi i singhiozzi uscirono quando, però, sentì la mano rispondere alla sua stretta.   

-Sei qui…- disse la voce roca di Gary. Lo guardò con un paio di occhi spenti, quasi distrutti. A Naozumi fecero male quegli occhi. –Ragazzo mio, sono orgoglioso di te…- sussurrò ancora a fatica l’uomo, non dando a Naozumi il tempo di rispondergli.

-Sono corso non appena ho saputo.- Gary sorrise.

-C’è l’hai fatta.- tossì.

-No, non parlare!- lo rimproverò il figlio, stringendogli forte forte la mano. L’uomo di tutta risposta fece di no con il capo. Lentamente, debolmente.

-Ti voglio bene Naozumi, come se tu fossi sempre stato accanto a me…- dovette fermarsi per prendere un lungo sorso d’aria. –Mi riempi il cuore d’orgoglio, ed ora non potrei desiderare altro… altro che…- dovette fermarsi ed un paio di lacrime rotolarono lungo le sue guance cave.

-Cosa desideri?- domandò Naozumi, impaziente. L’uomo non riuscì a parlare, troppo stanco. Richiuse gli occhi senza proferire verbo. Il tumore lo stava pian piano portando via. Non c’era niente da fare. Tutti i medici avevano dato lo stesso responso e non avevano potuto fare altro che dargli dei sedativi per far sembrare meno forte il dolore.

Ma il dolore del cuore di un padre, chi l’avrebbe placato?

Non rispose più. Non avrebbe detto il suo ultimo desiderio e Naozumi aveva chinato il capo, non sentendosi in diritto di essere stato l’ultima persona che aveva sentito la sua voce.

Quando si alzò per chiamare i medici purtroppo sapeva già che non avrebbe più guardato dentro gli occhi di Gary.

Si era spento alle 22.13 e un mare di lacrime l’aveva salutato.

Ma lui non aveva pianto. Ci aveva provato, ma nessuna goccia salata rotolava giù lungo le sue guance.

Era come se l’intero  corpo si fosse fermato. L’unica cosa che faceva era quella di dire al suo manager di cancellare tutti gli appuntamenti per quella settimana. Non si sentiva in vena di parlare.

Era stanco di tutto, stanco di vivere.

Aveva salutato Cecil guardandola, mentre piangeva disperata. E gli aveva chiesto di starle accanto, e quando finalmente si era addormentata, Naozumi aveva preso la strada per il proprio albergo.

Guidava tra le strade della silenziosa New York. Era quasi mezzanotte eppure un gran numero di automobili occupava la strada.

Si sentiva solo, tanto solo.

Pensò alla propria storia. Alla scoperta di avere dei genitori, al fatto che finalmente aveva una famiglia.

E poi alla scelta di lasciarla, quella famiglia ritrovata e tanto desiderata.

Perché in fondo, pensò Naozumi, lui si sarebbe sempre sentito solo.

Orfano di se stesso.

E si disse che il suo passato di piccolo bambino senza le braccia di una madre non glie l’avrebbe tolto nessuno, che nessuno l’avrebbe capito.

D’improvviso si fermò nel bel mezzo dell’hall del proprio albergo quando si rese conto che qualcuno c’era che poteva capirlo. E si rese anche conto che l’unico vero periodo felice della sua vita lo aveva trascorso accanto a lei.

-Sana…- aveva pronunciato il suo nome a mezza voce, quasi il destino glie lo avesse strappato via dalle labbra sottili. E poi l’aveva vista avanzare verso di lui, gli occhi sorridenti.

Era un sogno?

Avrebbe voluto allungare una mano verso di lei e toccarla per controllare che non stesse delirando. Per sentire che quella pelle fresca, quegli occhi stupendi e quei lisci e lunghi capelli erano davvero di fronte a lui.

-Nao-chan!- aveva detto con la sua vitalità.

Era lei.

Le parole gli morirono in gola, quasi fossero troppe e troppo confuse per uscire fuori tutte assieme.

-Sana…- ripetè come uno stupido, incredulo di fronte alla sua visione. Sana aveva sorriso e aveva allargato entrambe le braccia.

Lo strinse a sé, come tanto tempo fa.

Ricambiò a fatica l’abbraccio, perdendosi nel profumo leggero di quella giovane donna dalla vitalità incredibile e dalla forza eccezionale.

E chiudendo gli occhi e sentendo con la mano il tessuto sottile della sua maglietta rossa si disse che sì, lei era l’unica a non farlo sentir solo.

-Sono così felice di incontrarti…- singhiozzò lei, poi si scansò. I suoi occhi un po’ lucidi lo intenerirono al punto tale da farlo sorridere.

Ed erano là. Uno di fronte all’altra dopo anni di silenzio. In mezzo all’hall di un albergo sconosciuto, ora fautore del loro incontro.

E Naozumi si sentì improvvisamente bene.

-Ho scoperto che hai vinto il premio Oscar!- battè le mani contenta, gli occhi sempre più sorridenti. Sana non era cambiata molto: il suo sguardo da bambina tradiva i suoi 27 anni, facendola apparire molto più giovane di quanto non fosse. Le labbra leggere, il nasino sottile e la pelle lucente: era sempre lei. E Naozumi abbassò il capo, chiedendosi cosa pensasse di lui. –

Sì, è stata una grande soddisfazione.- incrociò le braccia, fingendo disinteresse. Sana, invece, si guardò intorno.

-Hai da fare questa sera?- domandò, tutta eccitata. Lui fece di no con il capo: aveva in programma di star solo perché sapeva bene che non poteva essere di buona compagnia per nessuno. Ma guardandola si disse che avrebbe fatto volentieri uno strappo alla regola.

-Allora dobbiamo assolutamente vederci! Abbiamo da raccontarci un sacco di cose!- esultò lei.

Si diedero appuntamento nella hall per fare una passeggiata. Non troppo presto, perché i loro fans sicuramente li avrebbero placcati. 

Sana era rimasta famosa. Lavorava per lo più in Giappone per programmi  e spot pubblicitari, ma non mancava di fare ogni tanto una capatina in America.

Naozumi salì nell’ascensore deciso a farsi una doccia e prepararsi per la serata.

Dentro la doccia pensò al suo passato. E pensò a cinque anni prima quando era iniziato il proprio silenzio con lei. Aveva mandato proprio a lui la propria partecipazione per il suo matrimonio con Akito Hayama, suo eterno rivale.

Naozumi poggiò la fronte bianca contro la parete della doccia, sentendo addosso lo strisciare dell’acqua bollente.

Quanto era stato male?

Sana aveva chiamato più volte per ricevere notizie su una sua possibile partecipazione al matrimonio ma lui, vigliaccamente, aveva sempre lasciato squillare quel telefono. Finalmente deciso aveva inviato un mazzo di fiori alla sposa il giorno dopo il matrimonio ed un biglietto con solo due parole scritte sopra:

“Siate felici”

Nello scrivere quelle parole si era deciso a non innamorarsi mai più: ci era stato troppo male.

E fu da quell’istante che si disse che avrebbe rifiutato ogni ruolo che prevedesse una collaborazione con l’attrice dagli affascinanti capelli rossicci; questo non incoraggiò certo la sua carriera: nonostante l’esperienza di New York appartenesse al passato, la coppia Sana-Naozumi faceva ancora scalpore in Giappone.

Ma con il passare del tempo aveva imparato ad accettare la sua mancanza. Solo dopo averla rivista in quell’hall, illuminata dalle luci soffuse dell’albergo, si era reso conto di quanto gli fosse mancata.

Si sedette sul letto, solo l’accappatoio blu dell’albergo in dosso. Decise che quella sarebbe stata una serata come tante: non doveva anche solo immaginare di poter scaturire l’interesse di Sana… era così innamorata del suo Akito. L’aveva compreso subito perché quando i loro sguardi si erano incrociati negli occhi della giovane aveva letto sorpresa, contentezza, ma non amore, o almeno, non amore nei suoi confronti.

Nell’aprire la valigia vide a terra una busta. Alzando lo sguardo notò che era proprio sotto a dove aveva appeso la giacca, per questo immaginò gli fosse caduta da lì. La raccolse poi vide una scrittura sconosciuta sulla busta.

“Scusa Naozumi, questa lettera ti è stata lasciata da Gary, desiderava tu la leggessi dopo , si ecco… dopo che se ne era andato. Non l’ho letta, ovviamente. Brad.”

Strinse le labbra aprendola. Non fece attenzione a non rovinare la carta della busta talmente fu la foga che ebbe nel leggere il contenuto.

“Figlio mio,

Scrivo con difficoltà questa lettera. Ho appena ricevuto il referto del medico che dichiara la mia situazione come senza speranze. Ammetto di aver pianto, ma chi non lo farebbe?

Ho deciso di scriverti questa lettera perché ho pensato a tutto ciò che ho passato nella mia vita.

Perché quando sai di dover morire, ogni tuo più piccolo pensiero o gesto diventa improvvisamente importantissimo.

E mi sono reso conto di essere profondamente soddisfatto di me: ho fatto ciò che desideravo, ho seguito la mia arte, ho avuto successo. Ma il filo dei miei pensieri si è spezzato bruscamente nel momento esatto in cui mi sono reso conto che c’era qualcosa in cui avevo fallito: il mio rapporto con te.

Mi sono sempre chiesto cosa ti abbia spinto a lasciarci, a non accettare la tua famiglia. Poi mi sono reso conto che in fondo non potevo pretendere di essere davvero un padre per te. Mi sono chiesto con quale egoismo io abbia preteso questo. Poi ho capito.

Sei il mio orgoglio. La mia vera consapevolezza: sì, la consapevolezza che, nonostante tutto, io continuerò ad esistere.

Scusami Naozumi se ti ho abbandonato. Scusami se non sono stato davvero un padre per te. Se ho avuto l’egoismo di metterti al mondo e di non occuparmi di te.

Avrei avuto un solo desiderio nella mia vita: sentirmi chiamare dalla tua voce: “Papà”. Mi pare grande come pretesa, ma l’ho sognato spesso quel momento.

Per ora, figlio mio, voglio solo dirti che sei il mio orgoglio, la mia forza. Ti penso e mi dico che devo solo essere felice se una persona così in gamba ha dentro le sue vene il mio stesso sangue.

Sto lasciando questo mondo, ma lo faccio con orgoglio e consapevolezza: la consapevolezza di aver lasciato qui una persona straordinaria.

Ti voglio bene, figlio mio.

Con tutto l’affetto che posso.

Tuo padre.”

Poggiò la lettera sul letto. In tutto era un foglio scritto in bella calligrafia, ora un po’ stropicciato. L’aveva stretta forte forte, quasi avesse desiderato che entrasse dentro di lui, che scorresse nel suo sangue, come colui che l’aveva scritta. Voleva aggrapparsi a quell’ultima prova tangibile dell’esistenza di suo padre che,ora, l’aveva abbandonato… di nuovo.

Una smorfia si dipinse sul suo viso mentre lasciava la lettera su quel letto coperto da un piumino rosso. Si vestì in fretta. D’improvviso maledisse le ore che lo separavano da Sana: pareva quasi non desiderasse altro da anni, inconsciamente.

Rivederla.

E più desiderava rincontrarla, più sentiva che solo lei poteva comprendere il suo dolore. Chissà se sapeva? Forse i giornali avevano diffuso la notizia e lei, seduta nella sua camera d’albergo, avrebbe appreso il tutto da qualche programma di gossip.

Non glie l’avrebbe mai perdonato.

Strinse gli occhi, sdragliandosi sul letto. Prese sonno, ma non dormì. La lettera giaceva al suo fianco e lui, codardo, non aveva il coraggio di prenderla tra le mani e consumarsi gli occhi nel rileggerla.

L’avrebbe tanto desiderato.

Ma aveva paura, questa volta, di piangere.

Quel dolore non voleva esorcizzarlo.

O, almeno, non da solo.

Arrivò finalmente l’ora dell’appuntamento. Naozumi era una persona estremamente precisa, per questo non tardò nel raggiungerla. In dosso una camicia bianca ed un paio di jeans. Guardandosi nello specchio dell’ascensore notò che era pallido, ma questo non faceva che mettere in risalto gli occhi turchesi. Strinse le palpebre forte forte, desiderando che, riaprendole, vedesse riflessa l’immagine di Akito Hayama.

Come lo invidiava!

Sapeva che non lo avrebbe mai ammesso a se stesso, ma era così.

Invidiava i suoi occhi, che potevano guardarla ogni giorno.

Invidiava le sue mani, che potevano toccarla ogni notte.

Invidiava le sue orecchie, che potevano ascoltare la sua voce.

Ed invidiava, più di tutto, le sue labbra che potevano sfiorare quelle di Sana ogni volta che lo avesse voluto.

Si decise a godersi ogni sua parola, ogni suo gesto e più piccolo respiro, almeno per quella sera.

Sana, ovviamente, non era ancora arrivata. L’attendeva di fronte all’entrata dell’albergo, a quell’ora piuttosto silenziosa. Dovette firmare un paio di autografi aspettandola ma decise di non essere scorbutico: doveva conservare la sua immagine di bravissimo ragazzo.

-Eccomi!- Sana arrivò. Naozumi doveva riabituarsi alle sue entrate in scena incredibili: correva forte sulle sue ballerine argentate. In dosso una gonnellina nera a pieghe e un golf grigio chiaro.

Semplice ma bella, come solo lei sapeva essere.

I lunghi capelli castano-rossicci giù lungo le spalle, a  ordinarli un cerchietto nero.

-Sei meravigliosa.- le disse sottovoce e lei arrossì.

-Nao-chan sei il solito anche dopo tutti questi anni!- lo abbracciò di nuovo. Si vedeva che le mancava la sua amicizia.

Naozumi la strinse forte a propria volta.

-Allora, dove si ?- chiese lui. Tentò di non guardarle la mano sinistra che sfoggiava l’anellino d’oro che consacrava la sua unione con Akito.

-Humm…- riflettè lei guardando verso l’alto. –Che ne dici di andare verso la baia?- domandò. Per quella giornata di aprile, in effetti, non era niente male come idea. Naozumi tirò fuori dalla tasca le chiavi della sua Golf e Sana lo seguì. L’auto si trovava dentro uno dei garage appositi dell’albergo,  controllata dal personale.

-Allora Nao-chan, cosa mi dici?- chiese lei camminando al suo fianco. –Dovrei tirarti le orecchie: non ti sei più fatto vivo!- esclamò fingendo di essere arrabbiata. Dentro di sé Naozumi sperò che fosse davvero dispiaciuta per la loro lontananza.

-Lo so.- rispose lui. –Ma sono stati anni un po’ burrascosi.- terminò guardandola. Sperava di comunicarle che gli era tanto mancata. Sana probabilmente lo intuì dato che lasciò cadere il discorso. Fece di no con il capo.

-Va bene, ma desidero non accada mai più.- Naozumi annuì salendo in auto. Probabilmente, per pura cortesia, avrebbe dovuto domandarle come fosse la sua vita con Akito. Ma a Sana nemmeno passò per la mente: se era una persona estremamente sveglia nella vita di tutti i giorni, c’erano però due cose in cui era lenta e capiva poco: la matematica e i sentimenti.

Uscirono dal garage illuminato per immettersi tra le strade di New York.

-Non posso crederci.- interruppe il silenzio Sana. –L’ultima volta che siamo venuti qui insieme… avevamo poco più di 12 anni.- riflettè più con se stessa che con lui. Naozumi annuì. Affogò nei ricordi, mentre l’immagine del volto del padre alimentava la sua sofferenza.

-Abbiamo avuto un sacco di esperienze insieme…- riflettè allora Naozumi, non certo per alimentare in lei l’affetto nei suoi confronti. Sentiva di non averne bisogno perché sapeva di esserle stato abbastanza vicino nella sua giovinezza da suscitare in lei un affetto incondizionato, sempre.

Nonostante gli anni, nonostante ora siano grandi.

-Mi dispiace che tutto si sia spezzato.- Sana non parlò con la malinconia nello sguardo, non era certo da lei. Il suo continuo ottimismo e la voglia di fare che l’avevano sempre contraddistinta avevano fatto si che quella constatazione arrivasse con uno strano luccichio nei suoi occhi.

Presero a parlare dei vecchi tempi. Naozumi ascoltava la sua voce ed intanto guardava la strada di fronte a sé. Le luci incredibili di New York illuminavano i loro sguardi che spesso si cercavano per scoprire una nuova espressione che anni prima non c’era; un nuovo modo di sorridere; un nuovo tono di voce.

-Non sei cambiato: sei rimasto un gran bel tipo!- gli aveva detto ad un certo punto dandogli una pacca sulla spalla. Naozumi per poco non si scontrò con un’altra auto e dovette contare su tutte le proprie forze e riflessi per non incappare in un incidente. –Ops!- esclamò lei ridendo.

Arrivarono alla baia.

Più avanti il porto, illuminato dalle tante auto che circolavano per raggiungere Manhattan. Com’era viva, New York. La città che per sempre sarebbe stata luogo di strane sensazioni nel cuore di Naozumi.

Presero a camminare lungo il porto. Si raccontarono della loro vita soffermandosi sui tanti lavori, sui colleghi che avevano avuto in commune e Sana si dichiarò dispiaciuta per non aver più lavorato con lui. Naozumi ascoltava rapito la sua voce, finchè non incapparono nel discorso “Akito”.

-Credo che tutti sapessero che prima o poi io e lui saremmo finiti insieme.- disse ad un certo punto Sana mentre si sedevano su una panchina lungo il porto. –Quando ho detto il famoso “sì tutti avevano sospirato: per i nostri strani caratteri erano sicuri che ci sarebbe stato qualche strano colpo di scena!- rise divertita. –Ma invece no: sono cinque anni che abbiamo imparato a scavare l’uno dentro l’altra e più gli sto vicino più mi rendo conto che, effettivamente, io l’ho sempre amato.- aveva abbassato lo sguardo nel dire quelle parole importanti.

Naozumi strinse un pugno.

Ma chissà se a me, Sana, un po’ m’hai amato?

Si fece quella domanda per tutto il tempo in cui Sana parlò.

E più l’ascoltava e più si sentiva in colpa nel desiderare di avvicinare il proprio sguardo al suo.

-Io ho detto tutto quel che dovevo dire.- dichiarò lei ad un certo punto. Naozumi si era perso a guardare un punto fisso: il mare di notte. Era particolarmente calmo, ma l’acqua era ancora più scura per via di tutti i gas di scarico delle navi attraccate. Prolungò il proprio silenzio.

-Allora Nao-chan, tu sei innamorato?-

No Sana, non dovevi chiedermelo.

Chiuse gli occhi, mentre un sorriso amaro gli colorava il viso. Sarebbe stato difficile dichiarare che l’unica persona che avesse mai amato era stata lei.

-Ho avuto un paio di storie.- decise di andare sul vago. –Ma ora come ora non credo di essere pronto per il grande amore.-

E dentro di sé, sapeva che non sarebbe mai stato pronto.

Sana l’aveva rapito con la sua vitalità. Con il suo viso fresco e pulito anche dopo tutti quegli anni. Ma, più di tutto, l’aveva rapito per il suo essere così empatica con lui. Il fatto che fosse l’unica ad aver condiviso un sentimento simile come la perdita dei genitori per Naozumi era sempre stata una gran cosa.

Ma non per lei, evidentemente.

Avrebbe voluto voltarsi e dirle tutto, ma ovviamente non lo fece. Si limitò a prenderle la mano e stringerla forte forte, quasi avesse paura che l’immagine di Sana seduta accanto a lui sparisse improvvisamente.

Un po’ di vento scompigliò i loro capelli, e Naozumi respirò forte.

Stava male, ma al contempo infinitamente bene.

-Poco lontano c’è un posto speciale, o almeno lo è stato per un po’ di tempo.- disse Sana ad un certo punto. La voce spezzata.

-Sarebbe?- si voltò lui. Non sapeva per quanto tempo fossero stati seduti l’uno accanto all’altra in silenzio, ma sapeva che non gli aveva fatto per niente male.

-Si chiama “Ellis Island” è un isolotto qua vicino, ospitava gli immigrati che venivano sin qui per trovare una nuova vita.- rispose allora Sana con aria sognante. –La chiamano “L’isola delle lacrime”, credo, perché gli immigrati non venivano trattati un granchè bene. Pensa che triste: attraversi mezzo mondo per trovare un sogno, il tuo sogno qua in America… per essere trattato, poi,  come un animale.- riflettè ancora lei.

Naozumi guardò lontano, come stesse cercando proprio quella valle di lacrime.

-Sì, io credo che piangerei se si spezzasse un sogno così grande.- dichiarò. Sana annuì.

-Ma dopo le lacrime bisogna ricominciare, asciugarle e rimboccarsi le maniche.- strinse ancora di più la sua mano cercando lo sguardo di Naozumi. Lui si voltò verso Sana affogando nei suoi occhi così grandi, così belli.

Lei aveva capito che stava male.

-Coshai Nao-chan?- sussurrò allora, quasi quella domanda le fosse rimasta incastrata nella gola esattamente dall’ultima volta in cui si erano visti.

Poverina, pensò Naozumi, quella domanda era rimasta là, a disturbarla, per tutti quegli anni.

-Sana…-

E finalmente le sentì, le lacrime.

Bussavano da dietro le palpebre, spingevano per uscire.

-Sana…- ripetè frastornato, mentre dagli occhi scivolavano gocce salate.

Lacrime.

-Sana…- e finalmente la strinse a sé, con foga, con trasporto.

Voleva solo sentire il suo abbraccio, sentire che aveva qualcuno vicino dopo che suo padre l’aveva abbandonato.

Sana gli accarezzò i capelli, gli occhi chiusi e un’espressione di comprensione dipinta in viso.

Non sapeva con precisione cosa gli fosse accaduto, ma gli sarebbe stata accanto, qualunque cosa fosse.

Gli voleva bene, tanto bene.

E rimasero là. Appesi ad una sofferenza sconosciuta, sotto, un baratro di incertezza.

Ma Naozumi poteva respirare il suo profumo, la dolce fragranza della sua pelle che, nonostante il tempo, non aveva mai dimenticato.

Si salutarono distrattamente con la promessa di rivedersi presto. Naozumi non era così sicuro di essere in grado di mantenere la parola data, ma non era riuscito a dirle di no.

Anche a lei si erano bagnati gli occhi di lacrime durante quell’abbraccio che era durato tutta un’eternità. Si era commossa di fronte alla sua sofferenza, così tangibile nonostante gli anni trascorsi dall’ultima volta che si erano visti.

Eppure, aveva riflettuto lei, nonostante il tempo la loro sintonia non era sparita.

Sana si sedette sul divanetto della propria camera d’albergo togliendosi poi le ballerine argentate. Si mise a gambe incrociate, riflettendo. Decise allora di accendere la televisione perché aveva bisogno di un po’ di compagnia: una compagnia discreta, però.

Ma la tv non fu così discreta come pensava: la notizia che vide non la lasciò per nulla indifferente. E pianse ancora di fronte alla notizia che Naozumi era rimasto orfano, di nuovo.

Il giorno seguente Sana si era precipitata verso il corridoio dell’albergo cercando la camera di Naozumi. Voleva consolarlo, ancora. Pareva indossasse una nuova consapevolezza dopo quel che aveva scoperto.

Bussò alla camera 233, quella di Naozumi, ma nessuna risposta.

Che stesse ancora dormendo?

Insistette.

-Signorina Kurata.- disse un cameriere gentile. Sana si voltò.

-Sì?- chiese.

-Se sta cercando il Signor Kamura, mi dispiace, ma è andato via molto presto.-

-E’ uscito? Tornerà?- domandò lei. Uno strano fiatone le aveva preso la gola.

-No Signorina, era diretto a Los Angeles.-

Sana strinse il pugno. Era arrivata in ritardo e lui non aveva voluto salutarla. Trattenne le lacrime, sorridendo al cameriere. Lo ringraziò poi si diresse verso la propria camera.

E si disse che mai più avrebbe permesso che Naozumi restasse solo, a piangere.

   
 
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