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Autore: Black.Mamba_MaF    23/01/2011    3 recensioni
Una ragazza, Ada. Una vendetta. Un incidente. Un nuovo mondo. Mischiate tutto questo assieme, e aggiungeteci qualche chiave magica, un pizzico di incantesimi e tanti, tanti combattimenti.
Buona lettura! =D
Genere: Azione, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io? Bè, non c’era molto da dire su di me. Ero sempre stata una ragazza solitaria, molto vendicativa, e maledettamente orgogliosa. Ed è stato per il mio stupido orgoglio che un giorno mi ritrovai, sola e senza spiegazioni, a Irecath.

***

 

Era una mattina soleggiata e calda. Napoli risplendeva sotto i raggi primaverili. Amavo la mia città, nonostante tutti i suoi problemi. Mi affacciai alla finestra dell’aula. Si vedeva quella scimmia urlatrice del bidello annaffiare rabbiosamente le piante del giardino.

All’epoca avevo diciassette anni ed ero al penultimo anno del liceo classico. Già tremavo all’idea che, quasi un anno dopo, avrei dovuto sottopormi agli esami per la Maturità. Non avevo di certo idea, che presto, quella notte stessa, le mie idee per il futuro sarebbero brutalmente crollate.

«Mannello, vorrebbe cortesemente ripetere alla classe ciò che ho appena detto?»

La domanda della professoressa d’Arte mi lasciò spiazzata. Non avevo propriamente ascoltato con attenzione le sue ultime parole. In realtà non avevo ascoltato proprio nulla.

«Ehm, io … professoressa …  veramente …»

«Allora, presti più attenzione, oppure non mi lascia altra scelta che chiamare sua madre.»

Sgranai gli occhi, terrorizzata. Mia madre no. Tutto, ma non mia madre. Non avevo nemmeno paura dei rimproveri. Ciò che mi intimoriva era la delusione che avrei letto nel suo viso.

La professoressa mi guardò con una certa aria compiaciuta. Sapeva che in quel modo mi avrebbe avuto in pugno.

Il resto della lezione passò con una lentezza scoraggiante. Fortunatamente, l’idea che quella fosse la penultima ora, mi rendeva la noia più sopportabile.

Quando suonò la campanella tirai un sospiro di sollievo. Di sentire tutte le innovazioni che il Romanticismo aveva apportato all’arte europea non avevo particolare voglia.

Mi alzai dal banco. Ora avrei avuto Educazione Fisica e, poi, finalmente, a casa.

Presi lo zaino e andai in palestra chiacchierando con una ragazza decisamente brutta che dicevo mia amica, ma che in verità consideravo a mala pena tollerabile.

Quel giorno avevamo la partita, come sempre d’altronde. Il professore ci divise in quattro squadre: due femminili e due maschili. Eravamo ventiquattro in classe, per cui, i gruppi erano quasi sempre perfetti.

Iniziammo a giocare prima noi ragazze.  Odiavo giocare con loro. Il loro livello a pallavolo era pari a zero.  Secondo il professore ero la femmina più brava. Infatti, a volte, metteva me a giocare con i ragazzi e un tipo sfigato, che a parere di tutti era ermafrodito, a giocare con le mie compagne.

Michela, l’ “amica” di cui parlavo prima, mentre mi buttavo a prendere la palla, mi fece lo sgambetto, facendomi cadere col viso a terra.

Il naso bruciava da impazzire, era come quella volta in cui Armando, a Taekwondo, me lo aveva quasi rotto con un calcio in combattimento.

Mi misi in ginocchio, portandomi le mani al viso. Sentivo il sangue colare dappertutto.

Nel frattempo quegli disgraziati dei miei compagni non avevano niente di meglio da fare che ridere come dei pazzi della situazione. Lorenzo, addirittura, si era buttato a terra cercando di simulare la mia caduta. Non c’era nessuno che si preoccupasse di me. Bella l’amicizia, vero?

 Sulle guance, mescolandosi al sangue, scendevano lacrime di rabbia. Io non piangevo mai:  l’ultima volta mi era successo quando, a quattordici anni, era morta mia nonna, cercando di evitare di farmi investire.

Dopo un po’, vedendomi a terra, il professore mi si avvicinò. Notando lo stato del mio naso, mi accompagnò all’ospedale, dove mi misero una specie di impalcatura sulla faccia, e mi rimandarono a casa, raccomandandomi di non fare movimenti bruschi per almeno due giorni. Strinsi i pugni. Il giorno dopo avevo una gara di Taekwondo. Erano mesi che mi allenavo in previsione di quella gara, che avevo intenzione di vincere. E, ora, per colpa di quella puttana di Michela, avrei dovuto rinunciarvi.

Ah, ma mi sarei vendicata. Senza dubbio. E a qualsiasi costo.

 

***

 

Inspirai profondamente. Quel che stavo per fare era profondamente sbagliato. Eppure incredibilmente giusto.

Lessi l’ora dalla sveglia. Era l’una di notte.

Perfetto.

Mi alzai dal letto già vestita. Al mio posto, per non far insospettire i miei, misi una vecchia bambola gigante con cui giocavo quando avevo sei anni, ma che non avevo mai avuto il coraggio di buttare.

Mi legai i capelli in una coda veloce, presi il grimaldello acquistato il giorno prima dal ferramenta per metterlo in borsa ed uscii.

L’aria fresca mi sferzò il viso. Mi calai meglio il cappuccio sul viso.

La casa di Michela stava a pochi minuti di cammino da casa mia. La raggiunsi in fretta.

Mi guardai intorno sperando che nessuno mi vedesse. Ero ancora in tempo per andare via e fingere di essere lì per caso.

Coraggio, ce la posso fare. Mi ripetei quelle parole come una litania infinita.

Presi dalla mia borsa un panno e lo posai sulla telecamera vicino al cancello. A quel punto, afferrai il grimaldello e forzai l’inferriata. Per riuscire nell’impresa senza fare rumore mi ci vollero alcuni minuti, che a me sembrarono secoli.

Ora, non voglio che pensiate che io fossi una criminale abituata ad entrare nelle case della gente così.

Credetemi, era la prima volta, purtroppo non l’ultima, che facevo una cosa simile.

Ero una brava ragazza, diamine, ma la vendetta è pur sempre vendetta!

Piccole gocce di sudore mi imperlavano la fronte, e cadevano negli spazi vuoti tra la fasciatura e il naso, dandomi un prurito terribile. Preferii non badarci, mentre, cautamente, mi infilavo nell’edificio.

Salii le scale che dal giardino portavano alla casa, e mi preparai al lavoro davvero duro. La porta sembrava blindata. Poi mi venne un’idea.

Una volta Michela mi aveva detto che sua nonna, che viveva con lei e la madre, metteva sempre la chiave di casa dentro il portaombrelli.

Mi guardai intorno alla ricerca del suddetto. Quando lo trovai, mi preoccupai di infilare dei guanti, per non lasciare impronte, e presi le chiavi.

Era un mazzo bello grosso, ma verso il quinto tentativo riuscii ad aprire.

Mi misi le chiavi in tasca ed entrai.

La casa era ben arredata, con tutti mobili antichi di legno.

Se la memoria non mi ingannava, la stanza della mia compagna era la seconda a sinistra dell’ingresso.

Schiusi piano la porta per controllare di aver ragione. Notai la chiazza di lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino. Sì, era decisamente Michela.

Sorrisi tra me. Si avvicinava il momento della rivalsa.

Feci per entrare, ma non avevo fatto i conti con la gravità, che quel giorno sembrava accanitasi con me.

Infatti, il dislivello che non avevo notato mi fece cadere con un tonfo insopportabile.

Cazzo … è finita.

Michela si rigirò nel letto.

Benedetto sonno pesante.

Sospirai.

Mi alzai, posando a terra la borsa. La aprii, e afferrai le cesoie da giardino di mia madre.

Mi avvicinai lentamente alla testata del letto.

Michela aveva un unico orgoglio, e quello era la sua capigliatura biondo intenso.

Le afferrai una ciocca di capelli, tagliandola praticamente alla radice. Fu lo stesso destino di tutti gli altri ciuffi.

Ghignai silenziosamente. Io non avrei potuto fare la mia gara, ma lei avrebbe dovuto mettere cappelli per almeno altri sei mesi.

Il mio spirito malvagio esultò, estasiato dalla mia opera.

In quel momento, la mia distrazione mi fu fatale.

La punta delle cesoie andarono a tagliare un pezzetto di pelle del viso di Michela, facendola svegliare.

Dio volle che avessi ancora il cappuccio ben disceso sulla faccia, così che la ragazza oramai pelata non mi riconoscesse.

Quindi, cesoie e borsa in mano, scappai.

Mentre correvo via e buttavo le chiavi della loro casa a terra, sentii le urla che provenivano dalla stanza.

Mi sembrava di volare. Sentivo i piedi muoversi veloci come non avevano mai fatto. I polmoni bruciavano, ma non osavo fermarmi, qualcuno  avrebbe potuto raggiungermi.

Un sasso. Non avevo visto un malaugurato sasso. E di nuovo la gravità a fare reclamo dei suoi diritti su di me. Ma questa volta non sentii la terra come pensavo di sentirla.

Fu più che altro la sensazione di galleggiare nell’aria. E vedere i contorni che sfumavano, confondendosi fra loro e creando una nebulosa grigia.

Era poco dire che mi sentivo confusa.

E,poi, finalmente, il terreno. Duro, compatto, erboso. Un attimo. Erboso?

«Benvenuta a Irecath, nella regione di Amaphlion. Mi fai vedere il permesso di spostamento e il foglio di identificazione?»

 

 

 

 

 

My Corner

Eccoci qui, con il primo capitolo di questa entusiasmante(?) FanFiction. Non ho molto da dire, se non che questa è la mia prima creazione del genere Fantasy e spero possa piacere.

Fatemi sapere che ne pensate!

A presto,

              Mafra

   
 
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