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Autore: Kimmy_90    24/01/2011    2 recensioni
Rotolano sotto il cemento i rumori dei Branchi. Ringhiano, graffiano, mordono. Lottano.
Per Gioco.
Fra di loro si chiamano Demoni e Bestie. Sono ragazzi, sono uomini – a volte sono bambini, anche se è raro che un Branco ne accetti uno. Sopra il cemento non ne sa niente nessuno. O quasi.
Fintanto che rimane un gioco, il sangue che cola è semplice divertimento.
Ma ogni gioco viene scoperto, in un modo o nell'altro. E ogni gioco ha le sue regole.
La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.
Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.
Credeva.
"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."
L’idea l’attraeva.
"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

// Fantasy contemporaneo cambientato in Italia tra gli anni '70 ed oggi. //
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. Inno a Venere
 
 
 
 
 
 
 
 
Aeneadum genitrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terra frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
 
 
 
[28 settembre 2004]
 
L'hub di Fiumicino era ghermito di gente.
Sfilavano, scoordinate, famiglie giapponesi con ingombranti attrezzature fotografiche, comici texani in sandali e calzettoni bianchi, indiani un po' persi, uzbeki con bagagli abnormi e via dicendo; turisti entusiasti si mescolavano a uomini e donne in carriera, viaggiatori di professione, che scivolavano rapidi lungo le file dei controlli di sicurezza scegliendo con astuzia la coda più conveniente.
Il piccolo manipolo di polizia aeroportuale si muoveva compatto, risalendo con calma le scale da cui scendeva, a fiumi, chi era appena atterrato in Italia.
Il gate H21 era ancora chiuso: dalle vetrate, gli agenti potevano vedere il 747 dell'American Airlines intento a compiere le manovre di accostamento, di modo che si riuscisse a collegare la proboscide pedonale.
Si appostarono sulla soglia della zona di sbarco, mentre le prime voci dei viaggiatori americani si spandevano lungo il corridoio: entro breve si riversarono nell'atrio, in una sottospecie di fila disordinata, intenti ad andare a caccia del proprio bagaglio.
L'uomo che cercavano era alto e distinto.
Sebbene negli ultimi tempi si erano stati abituati a tirare gli occhi su mediorientali ed africani, trovare chi gli avevano ordinato di fermare si rivelò presto un compito facile: lo videro camminare placido, il volto rilassato, in fondo alla coda; non pareva né allegro né triste, né, tanto meno, dall'espressione imperscrutabile: dava l'idea di essere un uomo in viaggio d'affari, mosso dal dovere, non certo dall'euforia di visitare il bel paese. Alto, spalle larghe, sulla quarantina: il volto era ben rasato, il naso dritto e regolare, e vestiva in giacca e cravatta, con un certo stile: portava sotto braccio un montgomery, e nella mandritta serrava il manico di una valigetta di cuoio. I capelli grigiastri erano ordinati, medio corti e lontanamente mossi: ricadevano sulla fronte spaziosa su cui si allargava qualche ruga, e taluni sfioravano gli occhi ovali, dall'iride castana.
I quattro agenti, già disposti a due a due ai lati della porta scorrevole, mossero un paio di passi per andare a sbarrare la strada all'uomo. Quello si fermò con un minuscolo sussulto, osservandoli perplesso.
«Mister Allen?» domandò uno di loro, in un pessimo tentativo di emulare l'intonation americana.
«... sì?» rispose l'uomo, osservandoli. «Cosa succede?» Allen si esibì in un italiano sciolto con tanto di lontano accento regionale.
«L'immigrazione desidera fare degli accertamenti su di lei.» spiegò una donna del manipolo, esibendo un sorriso che voleva essere tranquillizzante.
Allen la guardò per qualche istante, mentre cercava di capire cosa potesse avere l'immigrazione contro di lui.
«La prego di non opporre resistenza, o le cose possono solo che peggiorare.» dichiarò un agente, grasso e grosso, mentre lo ammanettava.
L'uomo rimase tranquillo, apparentemente pensieroso, ma abbastanza basito da far pensare ai quattro che fosse un normalissimo disgraziato caduto preda della burocrazia di visti e passaporti. Lo accompagnarono lungo il terminal, senza spintonarlo più di quanto non fosse necessario: la donna percepiva un lontano senso di colpa nell'aver fermato, per l'ennesima volta, un innocente.
Almeno questa volta era un bianco, e non il solito povero nero provvisto di kefiah.
 
Si ritrovò dall'altra parte dell'aeroporto, in uno stanzino spoglio che dava l'impressione di voler sembrare una cella: da una parte una branda, il water e il lavandino; dall'altra il nulla. Osservò le sbarre, spesse, e l'agente che sostava seduto ad una scrivania poco più in là, nel corridoio; la luce era poca, gialla ed artificiale: il sole era occultato sia dalle nuvole dense che dal tramonto imminente – e le finestrelle, sbarrate ed alte, erano di un vetro opaco che lasciava trasparire ben poco.
«Mi scusi, non è che potrebbe togliermi le manette?» domandò all'agente, cordiale.
Quello scosse il capo, silente, girando la pagina del giornale rosa shocking che stava leggendo: Allen riconobbe la Gazzetta dello Sport, e prese rapidamente in antipatia l'agente. Rassegnato, voltò le spalle sbuffando: si sedette sulla branda con un tonfo sommesso e cigolante.
 
 
 
[29 settembre 2004]
 
 
L'uomo in cella camminava a passi lenti ed annoiati lungo la sua piccola prigione, soffermandosi ogni tanto a rimirare il muro, il soffitto, o il pavimento. Sul volto iniziava a notarsi la barba, che non tagliava da almeno venti ore: i vestiti andavano sciupandosi - la cravatta lanciata malamente sulla branda, la camicia aperta e spiegazzata, aloni di sudore che si dipanavano sotto le ascelle e attorno al collo.
Un rumore lontano destò la sua attenzione: una serie di passi, superata una porta, si avvicinava.
Allen appoggiò la fronte fra due delle sbarre, cercando di vedere le figure che erano appena entrate nel corridoio: una era l'ennesimo agente, dal passo pesante e rumoroso; l'altra, sulla trentina, i capelli neri e corti, sembrava un impiegato - in giacca e pantaloni grigio scuro.
«Mister Allen?» domandò quello, avvicinandosi alla cella. «Parla tranquillamente italiano, non è vero?»
Allen annuì lievemente, studiando i lineamenti rigidi e secchi dell'altro. L'agente si sedette sulla scrivania, per poi ricevere dall'uomo che aveva accompagnato un invito gestuale ad andarsene: obbedì malavoglia, lasciandoli soli.
«Potrei cortesemente sapere il motivo per cui mi avete trattenuto qui senza concedermi ancora una telefonata?» domandò il quarantenne, nascondendo sotto una calma cordialità vagoni di fastidio pungente.
«Ufficialmente avremmo ancora qualche ora, prima di essere costretti a lasciarle fare la telefonata – ma temo che non siamo nei casi di prassi standard, Allen.» l'uomo osservò l'interno della cella, come a voler controllare qualcosa. «Sono dell'interno. Dobbiamo parlare delle sue ricerche.»
Allen rimase immobile per qualche istante, mentre la sua mente allineava, seppur seccata, i pezzi del puzzle: dopo lunghi secondi di silenzio, si esibì in un sorriso tanto largo quanto spudoratamente falso. Si scostò da dove era appoggiato, in piedi, iniziando a camminare affianco alla linea delle sbarre: lo sguardo basso, il sorriso ancora stampato in faccia, posava un piede davanti all'altro.
«Cercate di mettervi contro l'impero americano – interessante, da parte di un paese che a stento riesce a stare nel G8 e che idolatra gli Iù E's E'i.» sentenziò Allen, scuotendo leggermente il capo. «Ma il fatto che le mie ricerche siano segrete non significa che io sia alle dipendenze dell'intelligence americana, né, meno che mai, un pezzo grosso. Temo che abbiate sbagliato drasticamente il pesciolino da acchiappare, signore.»
«Lei è un cittadino italiano, vero?» domandò retorico l'uomo, che rimaneva serio mentre Allen andava sbeffeggiandolo. «Non ha la residenza americana, solo permessi temporanei per il lavoro.» concluse.
«Vero. Rimane il fatto che non ve ne fate niente, di me.» L'italo americano andava sempre più irritandosi, e seppelliva quell'emozione sotto parole secche e sicure. «E io ho delle cose da fare, detto fra parentesi.»
«Allen, non mi prenda in giro. Sa benissimo di cosa sto parlando.»
«No, non lo so.»
«La Farnesina non giocherà alle super spie come gli americani o i russi, ma non stiamo scherzando. Abbiamo tutte le informazioni per dire che il pesciolino che ci interessa è nient'altri che lei, Allen. E probabilmente abbiamo più informazioni di quelle che lei crede possiamo avere, o addirittura di quelle che lei conosce
Allen, le mani congiunte a causa delle manette che si portava addosso dalla sera precedente, rimase immobile per quasi un minuto a fissare l'altro, gli occhi a fessura e il mento alto.
«Bene.» asserì infine il quarantenne, muovendo tre passi lenti e gongolanti, spavaldo, verso l'uomo. Levò le mani all'altezza del volto, mostrandogli le manette. «Dunque lei sa che queste cose sono assolutamente inutili, vero?»
L'uomo sorrise, divertito e soddisfatto dell'avere finalmente tutte le carte in tavola. «Certamente.» rispose, accondiscendente.
«E dunque lei sa che in realtà non esiste nulla di fisico che mi possa trattenere qui dentro, vero?»
«Chiaro.»
«Bene - allora, mister, io la saluto.» Con un colpo secco spezzò la catena delle manette, andando poi, sciolto, a recuperare la cravatta che aveva lasciato sulla branda.
«Allen, siamo nell'aeroporto di Fiumicino.» gli fece notare l'uomo. «Tolto il fatto che qualunque cosa avventata lei si sognasse di fare sarebbe dichiarabile come attentato con estrema facilità, direi che mettersi a fate scenate teatrali non sia un'idea molto furba.»
Allen sorrise a quel termine: 'scenate teatrali'. Non era certo lui quello che faceva 'scenate teatrali', pensò di sfuggita.
Ad ogni modo, l'evasione, seppur fisicamente possibile, era socialmente impraticabile – a meno di pessime conseguenze: con un sospiro sbuffato ammise di essere fastidiosamente incastrato.
«Bene. Ok. Perfetto – vuol dire che aspetterò che lei mi porti fuori da qui: e prima o poi dovrà succedere, anche se fra cinque minuti prometterò solennemente di seguirla e di collaborare.»
«Lei ci sottovaluta.»
«No, lei sottovaluta me.» l'italo americano si stava stufando in maniera seria. «Non è il capo, vero?» domandò, retorico. «Sa perfettamente trattare ma non ha idea di cosa stia realmente succedendo. Sa cosa sono per vie indirette. E a stento ci credeva, finché non ne ho parlato io e ho sfasciato le manette. La pianti, non mi muovo da qui finché non vedo il boss e l'idiota che ha ideato questa pantomima. E pretendo di poter telefonare, sono venuto in Italia per un motivo preciso, non per turismo. Mi state solo facendo perdere tempo.»
L'uomo rimase impassibile davanti al sibilante discorso di Allen, scrutandolo dietro le sbarre.
Dopo qualche isto di silenzio, il quarantenne inclinò leggermente la testa, fissando il suo interlocutore. «No. C'è dell'altro.» Affermò Allen, con rassegnata convinzione.
L'uomo trattenne magistralmente un sorrisetto. «Dopotutto sto parlando con uno degli psicologi di punta di questo secolo, non è vero?» domandò, retorico.
«Le direi che 'lei non sa chi sono io', ma dopo questo discorso l'affermazione diventa ridondante.» rispose Allen, la mascella serrata e un vago divertimento irato sul volto. «Allora, qual è il suo asso nella manica?»
L'uomo si portò una mano all'interno della giacca, dalla cui tasca cui estrasse una busta sigillata, che gli porse.
Quello la aprì, notando che nemmeno l'altro aveva idea di cosa contenesse: non a caso era stata così ben chiusa – e la carta di cui era fatta, spessa, non lasciava vedere l'interno nemmeno in controluce. Erano furbi, alla Farnesina. Iniziò a pensare di averli sottovalutati.
Ne estrasse una foto, abbastanza grande e ben definita. Un ragazzotto apparentemente scocciato guardava fisso nella fotocamera, il collo tatuato con un tribale che si arrampicava sino allo zigomo; il volto era parzialmente immaturo, e lasciava intendere avrebbe avuto in futuro una mascella squadrata e netta. Una cresta violacea svettava, seppur moscia e malmessa, sul cranio ricoperto da peluria corta rasata a righe geometriche; le orecchie erano state bucherellate qua e là, assieme ad altre parti del viso come le sopracciglia o le labbra, sottili. Gli occhi, nerissimi, erano stretti in un taglio a mandorla, lasciando così una sensazione di discontinuità sul viso occidentale dalla carnagione olivastra.
Allen fissò la foto per qualche tempo, le labbra dischiuse, mentre un intimo sgomento si spandeva nel suo corpo e nello sguardo basito.
Non sapeva più di cosa preoccuparsi. Di sé stesso, braccato dai servizi segreti italiani?
O di come era conciato il ragazzo, e del fatto che quella era una foto segnaletica di un carcere?
Cercò di riprendersi, sforzandosi di non lasciar trapelare troppo l'ondata di disagio e di sconforto che lo investì.
Xander Allen. La data era di tre giorni prima.
Era stato tutto dannatamente calcolato.
«Merda...» sibilò l'uomo, fra sé e sé.
Quell'altro, compiaciuto, realizzò di aver ottenuto quello che doveva ottenere. Allen avrebbe collaborato, e non serviva essere uno psicologo d'alto calibro per capirlo.
 
 
 
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
 
 
 
 
 
[2 febbraio 2006 – Oggi ]
 
 
«Iusti.»
Sara andò in apnea.
Si alzò dalla sedia, impallidita, per poi passarsi una mano sul volto affilato. Fece per andare verso la cattedra, quando, a metà strada, si voltò rendendosi conto di aver dimenticato il libro.
Dimitri, che sedeva accanto a lei, glielo porgeva fissandola di sottecchi.
«Bene, Sara.» fece il professor Riva, offrendole con un sorriso un paio di fogli sgualciti. «Inno a Venere. Dammi i libro.»
Lei espirò, sollevata.
«Aeneadum genitrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa ...» iniziò a leggere - per poi venire rapidamente interrotta dal professore che si esibì in un paio di colpi di tosse.
La ragazza sollevò lo sguardo dal poema latino, scrutando interrogativa l'uomo.
«Ma magari, chessò, dirmi chi l'ha scritto, perchè, quando...?» domandò Riva, con un sorriso leggermente interdetto.
«Uh.» fece lei. «Ah.» Aggiunse. «Sì.» Concluse. «Dunque.» Iniziò. «Lucrezio... lo ha scritto...»
Riva la scrutava da dietro gli occhiali rettangolari.
« - perchè si era fatto una canna, tanto tempo fa.» concluse il professore per lei, spiazzandola. Sara tacque per qualche momento, cercando poi di articolare schiudendo le labbra.
Fallì.
«Dai, Sara, cerca di fare una frase di senso compiuto.»
Lei aggrottò le sopracciglia, interdetta. «No, ok, allora. L'inno a Venere fa parte del De Rerum Natura di Lucrezio, ed anzi, lo apre. Sebbene Lucrezio sia un ateo del periodo – tanto che elogia spesso nel De Rerum Natura la figura di Epicuro, come il primo uomo che si erse contro religioni e superstizioni – apre la sua opera con un elogio alla dea Venere. Va detto però la dea Venere di Lucrezio non è quella della religione convenzionale romana, ma rappresenta piuttosto la natura – quella fisica -, la sua armonia e il suo agire logico e conoscibile: infatti Lucrezio scrisse il De Rerum Natura nell'idea di liberare gli uomini dagli affanni dovuti alle credenze popolari...»
«Ok, va bene, basta così.»
Sara rimase con il discorso a metà, la bocca ancora aperta, interrotta nel momento in cui stava prendendo fiato.
«Saltiamo la lettura e fammi subito la traduzione, che mi sta finendo l'ora – ragazzi, fate silenzio, per cortesia.» richiamò la classe, che andava già parlottando: quelli lo ascoltarono solo parzialmente, facendo calare il livello del brusio di sottofondo.
«Allora,» continuò Riva «O degli Eneadi madre, o degli umani, dei numi voluttà, Venere altrice...» diede l'incipit alla ragazza. Quella, in risposta, rimase momentaneamente silente, studiando il testo.
«Dai, Sara, traduci, che abbiamo meno di cinque minuti.»
«Eh. Sì. Ma non vedo dove è arrivato...» lei non riusciva assolutamente a capire che cavolo stesse a significare 'altrice'.
«Alma Venus, caeli subter labentia signa...»
«Eh. Ok. Dunque... » rimase incastrata per un'altra manciata di secondi, mentre cercava di raccattare il bandolo della matassa dove aveva memorizzato la traduzione dell'inno a Venere. Diamine, eppure lo sapeva: ma, con la traduzione alternativa che aveva recitato il professore, si era completamente persa.
«... Sara...»
D'improvviso si illuminò. «Hah! Sì! Ma certo – ce l'ho!»
Riva la osservò di sottecchi, perplesso. «Eh, dato che ce l'hai, dimmela.»
«Sì, allora, era: - ovunque ravvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi, le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie vivente è concepita e, nata, vede la luce del sole, te, o dea, fuggono te i venti, te le nuvole del cielo, e il tuo arrivo.» - prese fiato - «L'operosa terra fa spuntare per te soavi fiori, a te sorridono le distese del mare e il cielo rasserenato splende di una luce diffusa... Infatti, non appena si svela lo spettacolo del giorno primaverile, e, sprigionato, si ravviva il soffio dello Zefiro fecondatore, gli uccelli dell'aria annunciano prima te, o dea, e il tuo arrivo, colpiti nei cuori dalla tua potenza. Quindi le fiere e gli animali domestici balzano per i pascoli rigogliosi, e attraversano i rapidi ruscelli: così ogni bestia, catturata dal tuo fascino ti segue ardentemente dove intendi condurlo. Insomma, per i mari e i monti e i fiumi travolgenti e le dimore frondose degli uccelli e le pianure verdeggianti, infondendo a tutti nei petti un carezzevole amore fai in modo che trasmettano specie dopo specie le loro generazioni. E poiché tu sola governi la natura e senza di te nulla sorge alle celesti plaghe della luce, nulla si fa gioioso, nulla amabile, desidero che tu sia la mia compagna nello scrivere i versi che tento di comporre sulla natura per il nostro discendente dei Memmi, che tu, o dea, in ogni tempo hai voluto che eccellesse ornato di ogni cosa.»
«Bene, sì, ferma, basta così.»
Sara si bloccò, andando poi ad inspirare ed espirare profondamente, dopo aver sciolinato la traduzione a un ritmo quasi eccessivo.
«Sette.» dichiarò Riva. La ragazza si rabbuiò.
«Ma come sette
Riva la fissò con un sorriso eccessivamente dolce – eppur dannatamente sincero – in volto. «Sette, Sara. Non lamentarti, o ti chiedo un altro passo che non hai imparato a memoria e scendo fino a due, se mi metto d'impegno. Ti ho chiesto di tradurre, non di imparare una filastrocca.»
«Ma...»
«E almeno avresti potuto farmi la cortesia di imparare quella che vi ho fatto in classe, non una a caso. La mia era molto più bella – e sai che sono un vanitoso.»
«Mph... vabè.»
«No 'vabè'. 'Grazie professore che non va ad indagare oltre sulla mia preparazione discontinua ed imprecisa, e mi regala un sette che non mi merito nemmeno lontanamente'.»
Sara trattenne uno sbuffo, dovendo ammettere che in fondo il professore aveva ben che ragione. Anzi, iniziò a sentirsi in colpa; Riva aveva una capacità di far sentire la gente in colpa a dir poco bestiale: soprattutto perché continuava a sorridere placido e posato, fissandola con lo sguardo di chi spiega ad un bambino piccolo che non è bene fare gli egoisti e tenersi tutti i giocattoli per sé.
«Grazie, prof.»
« - 'essore'.» la corresse lui, chiudendo il registro.
 
 
 
Dimitri le porse una sigaretta.
Sara lo guardò con gli occhi a fessura, le labbra arricciate.
«Non è un buon momento per cominciare, eh?» domandò il ragazzo, rimettendola nel portasigarette.
«Mai.»
Dimitri annuì. Si sistemò la coda bionda, che più ch'essere propriamente una coda consisteva in una massa di capelli lunghi, sfibrati e spettinati, privi di una forma qualsiasi.
«E poi, dico, è un sette, mica un quattro.» continuò quella, sbuffando.
«Sei tu che fai la faccia da quattro per i sette, mica io che offro sigarette a caso.»
«Fottuto Lucrezio.»
«Povero disgraziato...»
«Fottuto Lucrezio, ho detto.»
«Povero disgraziato, ho detto. E comunque hai avuto un colpo di culo, cos'altro vuoi?»
«Una media decente.»
«A me sembra decente.»
«Più decente.»
«Potresti studiare.»
«Perchè, secondo te che faccio?»
Dimitri si strinse nelle spalle, accendendosi la sigaretta con l'aria di chi, all'idea di rispondere, sa già che correrebbe un rischio assai grande – probabilmente corredato da qualche livido.
«Non è colpa mia se non sono portata per il latino.»
Dimitri fece nuovamente spallucce. Osservò interessato il fumo della sigaretta, e poi il cielo.
«Mi stai ignorando?» domandò la ragazza, leggermente acida.
Quello annuì.
«Grazie, Dimitri. Tu che sei un vero Amico.»
«Prego.»
Non era una battuta poi così ironica.
 





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[NdA] ciao a tutih :D
volevo ringraziare tantissimo per star leggere questo delirio, soprattutto il mio recensore u.u mi fa incredibilmente piacere :3

Dunque... fine dell'enorme preludio in cui non avrete capito niente. La protagonista ufficiale è Sara, anche se sono estremamente portata ai racconti corali: lei ha una serie di amici che sono soggetti affatto indifferenti – e i ragazzi degli anni '70 sono personaggi che definire Fondamentali è riduttivo. 
E' la prima volta che metto una protagonista 'femmina' in una mia storia (tolta Banana Split, però è un racconto.... relativamente normale, che deve parlare di ragazze per questioni di trama! xD), e diciamo che ho seguito questa linea per evitare fenomeni di Mary Suismo. Per come è fatta la ragazza in questione, che è calibrata per essere "l'anti stereotipo", penso che sia salva. Anti stereotipo, ci tengo a notare, in tutti i sensi: non è semplicemente il 'contrario' di tutti gli stereotipi... almeno, non voglio che sia così. Sara potrebbe essere una vostra compagna di classe, una ragazza di pallavolo – una qualunque, con le sue piccole e immense particolarità. E' stata molto difficile da 'inventare', o meglio, da 'calibrare', cercare di non appiattirla nel rendela normale, di modo che fosse persona e personaggio in contemporanea... spero che non deluda ^.^ perchè alla lunga mi ci sto affezionando

Spero che non vi dispiaccia questo approccio 'scolastico'. Sottolineo che io per prima odio gli high school drama, ma, dopo tutto, a 16-17 anni devi andare a scuola, non c'è storia. E' un mondo, che, anche se siamo in un fantasy, vorrei dipingere nella sfaccettatura che "tre metri sopra il cielo" e menate varie non raccolgono mai – forse perchè non è abbastanza 'fashon'.

Insomma, ho tanti argomenti sotto mano, per non parlare della questione demoni&bestie, di Allen, di Xander, del branco di Alessandro e del mondo ^___^
spero ci sarà da divertirsi. Aprofitterò di Sara anche per spiegare meglio questo 'mondo parallelo' di demoni, bestie, gaia e volui ^_^


Grazie ancora per la compagnia, spero questa storia possa in un qualche modo divertirvi :)






 
   
 
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