Stoffe
brillanti, gioielli splendenti, risa sensuali e passi di danza.
L’immenso
salone era un putiferio di luci e suoni, un frastuono terribile per chi
possedeva
un fine udito come il suo. Le scarpe eleganti delle signore e delle
fanciulle
picchiettavano a tempo sul pavimento in marmo, dando
l’impressione di scivolare
sulle note di valzer voluttuosi e impudichi. Nulla
a che vedere con le danze rigide e formali
dell’aristocrazia inglese, le quali impedivano il minimo
contatto fisico. I
francesi amavano danzare, e lo esprimevano in balli carichi di passione.
Forse
era anche per questo se non aveva ancora avuto il coraggio di
abbandonare la
sua terra natìa, malgrado gli orrendi ricordi che essa
serbava.
Fuori
dalle enormi e preziose vetrate istoriate infuriava una tempesta di
neve, ma i
nobili ospiti non se ne curavano, troppo presi com’erano a
festeggiare l’ultimo
giorno dell’anno. I due camini posti frontalmente ai lati
della sala impedivano
agli invitati di avvertire il freddo gelido di quella notte invernale.
Erano
tutti così scioccamente occupati a divertirsi che nessuno si
era accorto
dell’improvviso arrivo di un estraneo, avvolto in un cupo
mantello nero.
Il
suo soprabito sparì con incredibile velocità,
rivelando l’alta e muscolosa
figura di un giovane mascherato. Il suo nobile volto, come da
regolamento, era
coperto da una preziosa maschera in stoffa tempestata di pietre
preziose, come a
voler sottolineare il suo rango. La squisita fattura
dell’abbigliamento l’avrebbe
escluso da qualsiasi malelingua: un uomo così elegante e di
bell’aspetto doveva
essere sicuramente ospite dei padroni di casa.
Un
valletto, riconoscibile per l’assenza di maschera, gli
passò accanto. Il nuovo
arrivato si impadronì di un calice di
vino rosso, giocherellando con lo stelo del bicchiere mentre scrutava
la folla
accaldata e stanca.
L’aria
era satura dell’odore del loro sangue…
Se
chiudeva gli occhi poteva distinguere il battito del cuore di ciascuno
di loro,
e ballare al ritmo di quella dolce melodia. Era una sinfonia forse
più bella di
quella emanata dai violini.
Respirò
a pieni polmoni e le sue iridi acquisirono immediatamente la stessa
tonalità
vermiglia del vino nel suo bicchiere. Le gengive iniziarono a dolere e
si sfiorò
con la lingua la punta acuminata di un canino, pregustando
già il piacere della
caccia che sarebbe avvenuta di lì a breve.
Adesso
non gli restava che cercare la sua preda.
E,
forse, l’aveva già trovata…
Nascondendo
un ghigno di soddisfazione, si gettò in mezzo agli innocenti
mortali che
continuavano imperterriti i loro divertimenti, ignari della tragedia
che stava
per compiersi tra quelle mura.
Poteva
già sentire il sapore del sangue sul palato.
***
I
miei genitori mi avevano insegnato a sorridere sempre, in qualsiasi
situazione.
Perciò
sorridevo, mentre osservavo la mia amata
sorellastra volteggiare con grazia tra le braccia di un
qualche gentiluomo
sconosciuto, impossibile da riconoscere a causa della maschera che gli
celava
tutto il viso. Ma quella era una notte di inganni – un ballo in maschera, l’ultimo
dell’anno. Per salutare con una vaga
nostalgia l’anno che andava concludendosi e aprire le braccia
al nuovo secolo
che arrivava.
Sarei
entrata nel nuovo anno da sola, così come stavo terminando
il passato. Mentre
Jacqueline l’avrebbe festeggiato con uno dei numerosi
cavalieri che avevano
fatto a gara per rubarle un ballo, addirittura scrivendo con scherzosa
prepotenza il proprio nome sul suo piccolo carnet.
Oh,
la mia sorellastra splendeva davvero in mezzo a tutte quelle luci. Era
una rara
bellezza, come negarlo? Si trovava nel suo elemento: i soffici boccoli
ramati
ondeggiavano ad ogni giravolta, sfuggendo dalla sua complicata
acconciatura e
donandole un’aria ancora più selvaggia e ribelle
che la rendeva molto più
attraente e sensuale di quanto io non sarei mai stata. Ed eccola che
cambiava
un altro cavaliere, scivolando con grazia tra le sue braccia e facendo
ondeggiare il lungo abito di seta azzurra fino a scoprire le caviglie.
Quale
audacia! Se l’avesse vista mio padre l’avrebbe
confinata nelle sue stanze fino
all’indomani mattina.
Quanto
a me… Avevo preferito scegliere qualcosa di meno
appariscente, per quanto
altrettanto bello ed elegante.
Il
semplice abito color panna che indossavo scivolava morbidamente fino
alle
caviglie, ondeggiando ad ogni mio passo come una tenda al vento. Il
vestito
copriva le spalle e lasciava le braccia completamente nude, ma avevo
sopperito
a questa mancanza con dei guanti in organza color crema alti fin sopra
il gomito.
L’orlo della scollatura, quadrata e piuttosto ampia, era
ricamato con piccoli
fregi dorati, mentre una cintura color sabbia si stringeva sotto il
seno,
mettendo sensualmente in risalto le mie forme. Era forse un
abbigliamento sin
troppo audace, anche se non al pari di quello di Annabelle, ma per
quella notte
la mia identità era protetta – e avevo intenzione
di fuggire nella mia stanza
ben prima che lo scoccare della mezzanotte obbligasse tutti gli ospiti
a
rivelare la propria identità.
Un
soffice boccolo dorato scivolò via dall’elegante
acconciatura che aveva
richiesto tre ore di lavoro incessante alla mia cameriera, andando a
posarsi
sulla spalla. Lo sfiorai ma senza rimetterlo a posto, poiché
nessuno avrebbe
potuto rimproverarmelo. Sapevo che i miei lunghi capelli erano stati
sapientemente lavorati dalle dita sapienti della mia dama,
cosicché ai boccoli
si intrecciavano fili di piccole perle e sottili forcine
d’oro. L’unico altro
ornamento che mi ero permessa era un bracciale di perle agganciato al
polso,
regalo di mia madre per quello stesso Natale.
La
maschera, invece, l’avevo fatta confezionare appositamente
per quell’occasione.
Interamente di pizzo bianco, salvo per i bordi dorati abbinati al
vestito, essa
mi copriva il volto dalla fronte alla punta del naso, rendendo
impossibile il
riconoscimento per chi non mi era mai stato presentato.
Raggiunsi,
senza che nessuno mi notasse, la poltroncina vuota accanto alla vetrata
e
lontano dalla confusione degli ospiti, sentendomi subito molto
più a mio agio.
Avrei voluto strapparmi quella maschera di dosso ma non potevo, se non
volevo
che i miei genitori si accorgessero della mia trasgressione alla
regola. Sin da
quando ero venuta a
conoscenza del ballo
avevo temuto proprio di finire a fare da tappezzeria, ed ecco che i
miei timori
si erano rivelati esatti. Già, mia sorella
era molto più espansiva e divertente di me, a dispetto di
tutto quello che
aveva passato. Come potevo biasimare chi preferiva la sua compagnia
alla mia?
Avrei
voluto piangere, ma mi sforzai di mantenere un contegno. Non potevo
lasciarmi
andare in un modo tanto disdicevole, ero pur sempre una fanciulla nelle
cui
vene scorreva sangue nobile.
«Per
quale oscura ragione una simile bellezza non è tra le
braccia di un cavaliere a
danzare un valzer?»
Sussultai,
venendo bruscamente strappata ai miei cupi pensieri e ritrovandomi
improvvisamente a fissare un giovane uomo che aveva osato rivolgermi la
parola
con così tanta impertinenza. Ed era stato tanto sfacciato da
farmi persino un
complimento.
Prima
di rispondergli mi concessi di studiare il suo aspetto. Indossava un
completo
che andava di moda forse trent’anni prima, durante
l’epoca gloriosa di Marie
Antoniette e la sua corte brillante: una redingote, larga dalla vita al
polpaccio, lunga e pesante, di color porpora e dai preziosi ricami
dorati; i
bottoni, grossi come noci, erano d’oro e dalle maniche,
ripiegate fino al
gomito, sbucavano come una cascata preziosi pizzi candidi. La giacca
era aperta
in modo che si vedesse il giustacuore attillato, mentre la cravatta era
formata
da bande di tessuto fine, ornata con pizzi, attaccate alla camicia e
annodate
davanti in un fiocco, sul quale egli aveva appuntato una spilla
incastonata con
un prezioso rubino. I pantaloni, della medesima stoffa della giacca,
erano fermati
al ginocchio da altri bottoni d’oro; le scarpe erano invece
in pelle,
sormontate davanti da una fibbia in metallo, e con un modesto tacco.
L’unico
neo cupo, in quell’intera visione, erano i suoi capelli,
più neri della pece
stessa e assurdamente lunghi. Li portava legati alla base del collo con
un
fiocco color porpora, così come esigeva il suo costume, ma
non avevo dubbi sul
fatto che non si trattasse di una parrucca. Per il resto ogni cosa, in
lui,
suggeriva una visione dove sangue e oro erano mescolati. Ispirava una
certa
deferenza.
«Dovreste
sapere, monsieur, che è piuttosto indiscreto accostarsi ad
una fanciulla sola e
che non vi è mai stata presentata.» Lo rimproverai
infine piuttosto
giocosamente, decidendo di ignorare quella strana sensazione che mi
gridava di
allontanarmi da lui. Avrei voluto pretendere il suo nome ma, in
effetti,
durante quel genere di feste non era possibile né necessario
conoscere tutti
coloro con cui si danzava o si parlava.
Lo
sconosciuto mascherato colse lo scherzo, abbozzando un inchino di scusa
e un
sorriso malizioso. «Non ho cattive intenzioni, mademoiselle,
se non quella di
danzare con voi fino alla mezzanotte.»
Non
potei trattenere un sorriso nell’ascoltare il suo tono
morbido e persuasivo.
Non mi sarebbe dispiaciuto approfondire la sua conoscenza, in effetti,
benché
sapessi perfettamente che non avremmo più avuto modo di
incontrarci ancora: i
miei genitori avevano già provveduto a trovarmi uno sposo,
infatti, che
purtroppo non si era potuto presentare.
«Se
è solo questo il vostro desiderio, allora credo di potervi
accontentare.»
Mormorai, accettando la mano guantata che mi porgeva e alzandomi dalla
poltroncina.
Proprio
in quel momento terminarono i balli di gruppo e il centro del salone si
svuotò,
per dare più spazio ai ballerini di danza in coppia. Il mio
partner sconosciuto
mi accompagnò al centro della sala, sistemandosi come se
già sapesse che
l’orchestra avrebbe suonato un valzer. Portò la
sua mano destra dietro la mia
schiena, sfiorandola e attirandomi più vicina al suo corpo,
e sollevò l’altra
mano all’altezza del viso. Non potei fare a meno di arrossire
per
quell’indecente vicinanza, ma non mi lamentai. Per quella
notte non avrei
dovuto rendere conto delle mie azioni a nessuno.
La
musica iniziò, e sulle note dei violini e del clavicembalo
iniziammo a
volteggiare leggeri come se quasi non sfiorassimo il pavimento, tanta
era la
grazia e l’abilità che il mio compagno aveva nel
danzare. I suoi occhi erano
fissi nei miei, e anche se sapevo che avrei dovuto abbassare lo sguardo
e
arrossire imbarazzata, non riuscivo a distogliere
l’attenzione da quelle pozze
sanguigne, come se esse mi avessero incatenata. Non avevo mai visto
occhi di un
tale colore, ma era anche vero che non mi ero neppure mai trovata in
una simile
situazione di vicinanza con un uomo.
«Insomma…
Non volete dirmi il vostro nome?» Domandai, genuinamente
incuriosita ma
cercando di allontanare la sua attenzione da me. Il suo sguardo
penetrante
aveva un qualcosa di famelico.
Vidi
un guizzo di divertimento attraversare i suoi cupi occhi vermigli e le
sue
labbra piegarsi in un accenno di sorriso. «Questa notte
sarò Giacomo Casanova.»
Sussurrò, insinuante.
Oh,
questo dunque spiegava il suo travestimento. Si era abbigliato come il
famoso
seduttore veneziano, i cui scabrosi diari erano stati fatti sparire
dalla
biblioteca di mio padre quando io avevo iniziato a leggere, e per un
attimo
quella consapevolezza mi provocò un brivido lungo la
schiena. L’unico motivo
per cui non abbandonai la danza fu solo perché non avrebbe
osato comportarsi da
disonesto in una stanza colma di persone e guardie armate.
Sorrisi
accondiscendente, sentendomi incredibilmente al sicuro sotto la
maschera che
indossavo. In una situazione normale non avrei mai osato intavolare una
simile
conversazione con un estraneo, ma ormai l’anno era finito, e
con l’ultimo
rintocco della mezzanotte se ne sarebbe andata anche
quell’ultima pazzia.
Avrei
dovuto fare più attenzione a ciò che stava
facendo. Non avrei dovuto lasciare
che il suo sguardo mi ammaliasse al punto da farmi perdere ogni
cognizione
della realtà, lasciandomi in sua completa balia. Ma la sua
mano sulla mia
schiena era troppo decisa, il suo corpo troppo vicino, la sua tecnica
troppo
affinata perché un’ingenua fanciulla quale ero io
potesse anche solo pensare di
sfuggirgli.
Continuando
a danzare, mi aveva condotta fino all’angolo più
nascosto della sala, laddove
si aprivano le porte delle cucine e quelle che conducevano al piano
superiore,
verso i nostri appartamenti. Senza staccare i suoi occhi dai miei
cessò di
muoversi, aprendo con un gesto di cui non mi accorsi proprio una di
quelle
porte. E, senza che nessuno se ne accorgesse, sparimmo dietro di essa.
Al
buio, e quindi privata del suo sguardo, mi riscossi e tornai in me.
«Cosa…»
Balbettai, incerta. «Che cosa state facendo?»
Non
potevo vederlo, ma avvertivo acutamente la sua presa sul mio braccio,
ed era
una sensazione all’improvviso terribilmente angosciante. Mi
attirò se possibile
ancora di più verso di sé, facendomi sentire il
calore del suo corpo sul mio e
premendomi contro la dura parete. Provai a gridare, ma la sua bocca
calò
voracemente sulla mia, impedendomelo.
«Non
vi sentirà nessuno, mademoiselle.»
Sussurrò sulle mie labbra, facendomi tremare
dal terrore. Mi sforzai di rimanere immobile – temendo che
potesse farmi anche
più male – e subito sentii il suo alito caldo sul
collo, e la punta della sua
lingua percorrerlo con lentezza esasperante.
Un
gemito di disgusto sfuggì alle mie labbra, ed egli se ne
accorse.
«Presto
tutto ciò vi sembrerà eccitante,
credetemi.»
Furono
le ultime parole che gli sentii mormorare prima che i suoi affilati
canini
affondassero nella mia carne, strappandomi un grido che non
riuscì a soffocare.
Quando
riaprii gli occhi, mi accorsi di trovarmi nella mia stanza.
Oh,
si: ero proprio sdraiata sul mio letto, al sicuro, avvolta dalle
morbide
lenzuola di seta che non abbandonavo nemmeno durante la stagione
più fredda.
Sentivo un forte mal di testa, ma forse poteva essere imputato al
troppo
champagne. Dopotutto ero stata ad una festa la notte precedente, vero?
Ma
una rapida occhiata alla finestra mi fece comprendere che la notte non
era
ancora trascorsa. Il mio corpo venne percorso dall’ennesimo
brivido di paura e
mi raddrizzai, mettendomi repentinamente a sedere sul mio giaciglio.
Tremante,
portai una mano a sfiorarmi il collo che mi doleva in un modo
incredibile, e
quando sollevai le dita davanti agli occhi vidi che erano macchiate di
sangue.
Il
mio.
«È
una fortuna che vi siate ripresa così presto. Sapete,
iniziavo ad annoiarmi.»
Sussultai,
voltandomi verso il punto dal quale avevo sentito provenire quella
profonda
voce maschile. Dal buio della stanza emerse una figura, un uomo in
realtà, lo
stesso con il quale avevo danzato per quasi tutta la sera, lo stesso
che aveva
osato… Aveva osato… Oh Dio, mi mancavano le
parole…
Aveva
osato mordermi.
«Voi!»
Esclamai, la voce ridotta ad un flebile sussurro.
«Voi… Cosa…?»
Una
debole risata provenne dalla creatura, mentre si portava finalmente
alla luce –
quel delicato raggio di luna che aveva sfidato lo spessore delle tende
per
introdursi nella mia camera. Si erse in tutta la sua tremenda
imponenza, e mi
maledii mentalmente per non aver avvertito prima quella cupa aura
oscura e
soffocante che sembrava circondarlo.
«Cosa
sono, volete sapere?» Le sue labbra si piegarono in un ghigno
divertito. «Credo
che voi siate molto più intelligente di
così… Avanti, in fondo sapete chi vi
trovate davanti.»
Strinsi
gli occhi, trattenendo le lacrime, e scivolai con lentezza
dall’altra parte del
letto, cercando di frapporre tra me e lui più ostacoli
possibili. «Siete un mostro.»
Sussurrai, portandomi subito
dopo le mani a coprire la bocca – non potevo credere di
averlo detto davvero.
Volevo forse anticipare la mia fine?
Ancora
la sua risata, mentre si avvicinava a me con passo felino, seguendo i
miei
movimenti come una falena attratta dalla luce. «Oh, si.
Immagino di esserlo.» I
suoi occhi cremisi splendevano nell’oscurità,
senza permettermi di sfuggirgli.
Eppure, dovevo tentare.
Ero
quasi vicina alla porta – conoscevo la mia stanza ad occhi
chiusi, e il buio
non mi intralciava – così scattai
all’improvviso e corsi verso di essa,
aggrappandomi alla maniglia d’ottone come se ne dipendesse la
mia stessa vita.
E, in fondo, era proprio così.
Ma
non avevo fatto i conti con la sua astuzia – la porta era
stata preventivamente
chiusa a chiave, forse intuendo un mio simile gesto – e con
la sua
inconcepibile velocità: quando sollevai lo sguardo, cercando
di capire cosa
bloccasse il passaggio, vidi la sua mano posata sul legno bianco
– la teneva
chiusa con la semplice pressione delle lunghe dita affusolate. Feci in
tempo a
vedere un anello sormontato da un rubino brillante, prima che il suo
respiro
bollente tornasse a tormentare la pelle del mio collo.
Era
già alle mie spalle, e non lo avevo sentito muoversi.
«Ah,
ah, ah, Christine.» Mormorò, con lo stesso tono
che usava mio padre per
riprendermi dopo una marachella particolarmente birichina.
«Che cosa stai
facendo? Non è buona educazione andarsene mentre si sta
parlando.»
Mi
resi conto solo dopo che mi aveva chiamato per la prima volta con il
mio nome –
come faceva a conoscermi, se dalle mie labbra non era mai fuoriuscita
una
simile informazione? Mi accorsi di aver ripreso a tremare, e nello
stesso tempo
sentii l’altra sua mano scorrermi lungo la schiena, in una
carezza tanto
impudica quanto minacciosa. Potevo solo intuire
ciò che aveva intenzione di fare…
Non
trovai la forza di emettere alcun suono mentre le sue dita iniziavano
lentamente a sciogliere i lacci posteriori del mio vestito,
accarezzando nello
stesso tempo la pelle che veniva scoperta sapientemente da lui. Mi
ritrovai ad
ansimare, ma non si trattava di piacere: avevo paura, ero terrorizzata,
mi
sentivo come una bambola di porcellana incapace di intendere e di
volere,
costretta a sottostare ai voleri del suo padrone. Perché
rammentavo ciò che era
accaduto prima, nel corridoio, seppur in modo piuttosto confuso: egli
mi aveva
morso e si era nutrito del mio
sangue, i segni sul mio collo lo dimostravano!
Anche
solo pensare di opporsi era fuori
discussione…
Lacrime
di puro orrore misto a rassegnazione iniziarono a scivolare sulle mie
guance, e
ringraziai di essere voltata perché avrei preferito morire
piuttosto che
mostrargli il mio dolore.
La
mano che teneva premuta la porta scivolò sulla mia spalla, e
così pure fece
l’altra: egli mi fece scorrere le maniche del vestito lungo
le braccia, che
solo ora realizzai essere prive di guanti, fino a quando non cadde ai
miei
piedi lasciandomi con una misera sottoveste, indossata più
per guarnizione
all’abito da sera che per reale protezione. La superficie
della mia pelle era
ricoperta di brividi, brividi che aumentarono non appena le sue labbra
si
posarono alla base del mio collo, nel punto più sensibile
che generalmente era
protetto dai miei lunghi capelli sciolti.
La
sua lingua proseguì il percorso tracciato precedentemente
dalle sue labbra,
assaggiandomi con una voluttà che non avrei mai ritenuto
possibile. Gemetti e
mi morsi il labbro inferiore, cercando di trattenere il ribrezzo e la
ripugnanza che il suo tocco mi provocava, ma era quasi impossibile:
avrei
voluto crollare in ginocchio e rigettare tutta la mia anima sul
tappeto, ma
temevo che in quel modo si sarebbe infuriato e avrebbe abbandonato ogni
traccia
di quelle buone maniere che stava
ostentando.
Posai
i palmi delle mani sulla superficie levigata della porta, serrando gli
occhi e
sforzandomi di ignorare le sue carezze oscene e immorali. Se non mi
avesse
uccisa, dopo quella notte nessuno
avrebbe mai voluto toccare il mio corpo impuro – nemmeno lo
sposo che la mia
famiglia mi aveva scelto…
Sentii
sulle labbra le mie stesse lacrime salate e sussultai, spaventata: lui non doveva accorgersene…
Improvvisamente
la stoffa leggera della mia sottoveste si lacerò sotto i
miei occhi, e l’unica
cosa che rimase a coprirmi furono le calze di seta che avvolgevano ogni
centimetro delle mie gambe, arrivando – grazie a Dio
– ad avvolgere la mia
intimità. Mi sembrò di sentirlo sbuffare,
leggermente infastidito; e non potei
impedirmi di emettere un gridolino spaventato quando, con un gesto
rapido e
deciso, strappò anche quel poco che restava del mio
abbigliamento.
Ero
nuda, nuda!, sotto gli occhi di un
essere demoniaco che odiavo!
Mi
portai le mani a coprirmi il viso, morendo dall’imbarazzo e
cercando in questo
modo di trattenere i singhiozzi che premevano per traboccare dalle
labbra
serrate con forza. Fu forse la prima volta che proruppi in un pianto
così
disperato e nel contempo assolutamente silenzioso.
Le
sue mani si posarono stavolta sui miei fianchi, facendomi voltare verso
di lui
con gentilezza ma ferma determinazione. Non avrei mai scoperto il mio
viso
infiammato dalla vergogna, se non fosse stato lui a costringermi a
farlo.
«Mi
dispiace, ma non ti permetterò di nasconderti quando
entrerò in te.» Decise con
voce cupa, mentre nel suo sguardo si leggeva soltanto una cieca e
cupida
lussuria.
«No,
no… Vi prego… No…» Mormorai,
supplicandolo con bisbigli indistinti e tremanti.
Sentii
le sue dita raggiungere ciò che restava della mia complicata
acconciatura e
scioglierla, facendo cadere e rimbalzare sul pavimento le perle che la
mia
cameriera aveva sistemato con cura tra i miei capelli. La mia chioma mi
scivolò
sulle spalle in morbidi boccoli dorati, coprendomi come un prezioso
mantello ma
senza fungere allo scopo di sottrarmi allo sguardo bramoso di quel
demone.
Tra
le lacrime lo vidi passarsi la lingua sulle labbra, come se
già stesse
assaporando come sarebbe stato possedermi – mio Dio, ma per
quale motivo
nessuno si accorgeva della mia assenza
e
veniva a cercarmi?
Erano davvero tutti
così incantati da Annabelle da non rammentare neppure la mia
esistenza?
Chiusi
gli occhi, cercando di non guardarlo mentre mi trascinava lentamente
verso il
mio letto e mi faceva distendere sulle morbide lenzuola, che per la
prima volta
mi sembrarono sporche e sudice del desiderio di quella creatura. Chiusi
gli
occhi, mentre sentivo il materasso abbassarsi sotto il suo peso e la
sua figura
accostarsi a me. Chiusi gli occhi, sforzandomi di ignorare la mano
estranea che
iniziava ad appropriarsi del mio corpo accarezzandolo con consumata
maestria.
Eppure
le lacrime continuarono a colare copiose dai miei occhi rigidamente
serrati, a
dispetto di tutto quello che mi ero ripromessa. Purtroppo non sarei mai
stata abbastanza
forte da impedirmi di piangere davanti al mio carnefice.
«Guardami…»
La sua voce spezzò il silenzio teso che si era creato,
strappandomi dai miei
pensieri.
No!
No, non poteva essere così crudele da chiedermi persino
quello! Non poteva
umiliarmi in tal modo, non poteva obbligarmi a guardarlo negli occhi
mentre
abusava di me e mi prendeva tutto ciò che più mi
era caro… No, non glielo avrei
permesso, non avrei obbedito!
La
sua mano arrivò fino al mio collo, privandolo della
protezione dei capelli e scoprendo
la gola alla sua brama più sfrenata. «Guardami,
Christine.» Mi ingiunse, con
tono autoritario; prima aveva chiesto, adesso aveva preteso. Era finito
il
tempo della gentilezza, se mai vi era stato.
Dischiusi
le palpebre, rassegnata, ritrovandomi a fissare il suo volto a pochi
centimetri
dal mio. Solo ora mi accorgevo che era privo di maschera, e vedere la
sua
disumana bellezza peggiorò la situazione – come
poteva un essere così bello
celare un’indole così malvagia?
Non
riuscii a sostenere la pesantezza del suo sguardo così
distolsi il mio,
puntandolo sulle sue labbra socchiuse dalle quali si intravedevano un
paio di zanne acuminate.
Rabbrividii all’idea
che, probabilmente, le avrebbe affondate ancora nel mio collo, e un
singhiozzo
dispettoso sfuggì al mio controllo.
«Ti
prego…» Balbettai, un’ultima volta.
Ma
conoscevo la sua risposta già prima che la sua bocca ebbe
articolato le parole.
«Ormai il tuo destino è segnato, Christine. Non
puoi fare nulla per
sfuggirgli.» Sussurrò, avvicinandosi al mio viso e
affondando il suo
nell’incavo della mia spalla. Lo sentii aspirare
profondamente il mio profumo,
e la sua lingua riprese ad assaporare la mia pelle nello stesso momento
in cui
le sue dita scivolarono tra le mie cosce, fino a sfiorare la mia
intimità e appropriarsene
senza alcuna remora.
Non
appena mi accorsi di quelle carezze serrai le gambe, posandogli i palmi
delle
mani sul petto e cercando di allontanarlo, inutilmente, dal mio corpo
tremante.
«No, no! Vattene!» Gridai, opponendomi davvero per
la prima volta. Non potevo
tollerare che mi facesse cose così impudiche e volgari.
A
quel punto le mie orecchie udirono un basso e feroce ringhio, e ci
volle poco
per comprendere che proveniva proprio da lui. «Mi stai
facendo arrabbiare!»
Sibilò, afferrandomi entrambi i polsi con una sola mano e
premendoseli contro
il petto. «Ero disposto a trattarti con tutte le premure
possibili, ma il tuo
atteggiamento mi ha fatto perdere la pazienza!»
Si
disfò velocemente dei suoi indumenti, costringendomi poi ad
allargare le gambe
con una sola mano e posizionandosi in mezzo ad esse per impedirmi di
richiuderle. Questa volta fermare le lacrime era impensabile
– sentivo il cuore
battere talmente tanto veloce da temere che volesse uscirmi dal petto
– e mi
morsi le labbra fino a farne uscire gocce di sangue quando, con una
rapida e
violenta spinta, entrò nel mio corpo senza incontrare che un
misero ostacolo
che lacerò con la sua forza. Gridai, incapace di ignorare il
dolore e certa che
sarei morta a causa di quella sofferenza.
Le
sue labbra tornarono sulla mia gola, leccandola e dispensando piccoli
morsi
leggeri come se davvero mi avesse voluta mangiare. Non avevo idea di
quanto
fossi andata vicina alla verità…
All’improvviso,
la sua bocca trovò un punto preciso a lato del collo e vi si
chiuse con
decisione, leccando ancora la pelle già abbastanza
tormentata prima di
affondare le sue zanne animali nella mia carne. Urlai ancora, cercando
di
dibattermi sotto di lui, ma il suo peso mi teneva pressata sul
materasso
impedendomi ogni genere di movimento. Affondò ancora di
più nella mia intimità
e contemporaneamente sentii il rumore del mio sangue che scorreva e
della sua
gola che lo inghiottiva, vorace.
Arricciai
il naso e mi morsi ancora di più le labbra, cercando di
reprimere la nausea devastante
che mi aveva assalito con intollerabili ondate. Mi sentivo lentamente
prosciugare, come se la mia intera linfa vitale stesse scorrendo,
attraverso
quella profonda ferita, dal mio corpo al suo: presto diventai
così debole da
rinunciare a divincolarmi e mi immobilizzai, socchiudendo gli occhi e
sentendo
sulla mia lingua il sapore salato e ferroso del sangue misto alle mie
lacrime.
Ormai
avevo compreso che non sarei sopravvissuta: sentivo le membra diventare
sempre
più pesanti e
persino respirare era doloroso,
così chiusi gli occhi, rassegnata. Mi trovai a biascicare a
bassa voce una
debole preghiera per far sì che almeno la mia anima restasse
pura e indenne da
tutto quel male. Non pensavo che egli potesse sentirmi anche attraverso
la sua
furia.
«Pregare
non ti salverà da una morte certa, Christine.»
Mormorò, allontanandosi dal mio
collo quel tanto che bastava per potermi parlare guardandomi in viso.
Aveva
delle gocce di sangue sul mento, il mio
sangue.
Come
se il mio disgusto non lo sfiorasse minimamente, proseguì.
«Tuttavia, io posso
impedire che la vita abbandoni del tutto il tuo corpo. Mi senti,
Christine?» Lo
sentivo, ma perché la sua voce era diventata improvvisamente
dolce? Forse ero
già morta? Non aprii gli occhi – non ne avevo la
forza.
«Devi
bere il mio sangue, ma petite.»
Sussurrò ancora.
Come
potevo essere in fin di vita e allo stesso tempo pensare
così lucidamente?
Ricordo, come immagini di un sogno confuso, il suo polso squarciato
dalle
stesse zanne che aveva immerso nella mia carne: lo avvicinò
alle mie labbra, e
probabilmente io volsi il capo per non toccare quella sostanza
infernale,
perché il suo ringhio spazientito mi giunse persino
attraverso la pesante
tenebra che mi avvolgeva.
«Bevi!»
Mi intimò, nuovamente irato.
Non
so dove trovai la forza per guidare le mie azioni, poi; tuttavia
riuscii ad
aggrapparmi al suo polso, tremando senza tregua, e ad avvicinarlo alle
mie
labbra che dischiusi con non poco sforzo. Sapevo che ciò che
stavo per fare era
peccato, ma allo stesso tempo
qualcosa
mi spingeva ancora a desiderare di non morire, e nel mio inconscio ero
quasi
sicura del fatto che, se mi fossi nutrita della sua essenza –
del suo sangue,
dunque – la mia vita non sarebbe cessata. E io non volevo,
non volevo morire…
Posai
la bocca sulla sua ferita, e da quel momento in poi seguii solo il mio
istinto
di sopravvivenza – unito alla sua voce suadente che,
sottovoce, continuava a
ripetere «Bevi!» e «Ma
petite chèrie».
Chiusi gli occhi non appena sentii le lacrime pungere le palpebre e
morsi più a
fondo la sua carne, gioendo nel sentirlo gemere, sorpreso. Se potevo
provocargli anche una minima parte del dolore che aveva fatto provare a
me,
allora ne ero più che lieta.
Improvvisamente,
il sapore del suo sangue iniziò a sembrarmi dolce
– seppur leggermente salato.
Più la mia gola ne ingeriva, più ne desiderava, e
fu più per un riflesso
incondizionato che serrai con più vigore la presa sul suo
polso e succhiai con
maggior foga. Che cosa mi stava accadendo? So solo che cessai di
pensare e mi dedicai
solo ad abbeverarmi di lui, convogliando ogni fibra del mio essere in
quell’oscena azione del bere il suo sangue.
Certo
è che non si aspettava un simile cambiamento da parte mia;
infatti, non passò
molto tempo prima che la sua mano sana si posò sui miei
capelli, in una
delicata carezza, e la sua voce sussurrò che ormai era tempo
di smettere – per
lui, avevo bevuto abbastanza.
Ma
il mio corpo non la pensava allo stesso modo. Continuai a succhiare,
sentendo
le unghie conficcarsi nella sua carne – come potevo essere
diventata così forte
e brutale nel giro di un battito di ciglia? – e un ennesimo
ringhio nascere
dalle profondità del suo petto.
«Basta,
Christine, smettila.» Sussurrò, cercando di dosare
la rabbia. «Mi fai male.
Basta.»
Forse
fu solo la stretta improvvisa della sua mano attorno ai miei polsi che
mi
fecero desistere dal disobbedirgli ancora, o forse fu semplicemente la
sensazione di sazietà che mi colse all’improvviso.
Avevo l’impressione di
essermi riappropriata di tutta la linfa vitale che egli stesso aveva
avuto
l’ardire di sottrarmi, e la soddisfazione che provai in
seguito fu a dir poco
impagabile. Mi portai due dita alle labbra – avevo anche
smesso di tremare – e
ve le passai sopra, portando via così i residui di sangue
che vi erano rimasti.
Avrei voluto leccare anche quelli, ma lui fu più veloce
– mi prese la mano e se
la portò alla bocca, asciugando con la lingua le dita
sporche del proprio
sangue.
Ecco,
la sensazione di ribrezzo nei suoi confronti tornò con la
forza di un uragano.
Mi
sottrassi alla sua stretta, rintanandomi contro la testata del letto e
fissandolo di sottecchi, come se temessi che potesse nuovamente abusare
del mio
corpo, ancora nudo. Volevo che se ne andasse! Possibile che non lo
capisse?
Volevo soltanto rimanere sola!
Una
fitta di dolore improvviso mi costrinse a piegarmi su me stessa,
strappandomi
un gemito confuso ad un debole grido. Che cosa stava succedendo? Era
forse la
punizione per aver accettato il sangue di quel demonio? Un altro
spasimo mi
percorse da capo a piedi, lasciandomi tremante e senza fiato: spalancai
la
bocca, cercando di respirare ma senza riuscirci. Per l’amor
di Dio, cosa mi
stava capitando?
Era
questo il male che mi avrebbe uccisa?
L’ennesima
stilettata fece proseguire quel terribile supplizio, facendomi gridare
come
un’ossessa. Mi artigliai il petto con le mani, graffiandomi
la pelle, cercando
di strapparla come se quel dolore avesse potuto diminuire
l’altro, più interno,
che mi distruggeva. Stavo morendo, oh si, lo sentivo…
Mi
accorsi a malapena che l’Essere che mi aveva portato a morire
in quel modo
atroce si era precipitato al mio fianco, avvolgendomi con un lenzuolo e
poi con
le sue braccia: stava sussurrando qualcosa, ma le mie orecchie erano
sorde e
sentivano soltanto il rombo del mio cuore che batteva
all’impazzata e che,
lentamente, diminuiva il suo battito.
Tum
tum. Tum tum. Tum tum.
Tum.
Tum. Tum.
Tum.
Tum.
E fu il buio, e fui morta.