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Autore: nefert70    01/02/2011    2 recensioni
Il racconto della vita di Anna d'Este, duchessa di Guisa e di Nemours, che ha ispirato il personaggio della principessa di Cleves di M.me de La Fayette.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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- Questa storia fa parte della serie 'Anna'
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Rimasi ad Annecy solo il tempo di piangere sulla lapide della mia bambina, ai primi di agosto ero nuovamente a Parigi convocata dalla regina madre.
Il caldo era opprimente in quell’agosto 1572 le finestre della stanza da letto della regina erano spalancate nella speranza di cogliere un po’ di refrigerio.
La regina era stranamente sola e mi rivolse la parola in italiano, come faceva solo quando trattava argomenti incresciosi.
Questa situazione mi ricordava i giorni antecedenti la morte di re Enrico e mi preoccupai, che stesse per succedere di nuovo qualcosa di terribile?
La regina cominciò a parlarmi della situazione che si era venuta a creare tra re Carlo e Coligny, ormai il re era completamente succube dell’ammiraglio.
Confidai alla regina che anch’io temevo il peggio da questa situazione e fu allora che la regina disse “Avrei dovuto comportarmi diversamente nove anni fa, ma mai avrei pensato che la situazione degenerasse a tal punto. E’ necessario porvi rimedio” poi tacque aspettando la mia reazione.
Io capii immediatamente a cosa si riferiva, la mia famiglia aspettava da nove lunghi anni quelle parole.
Improvvisamente ridiventai la duchessa di Guisa, credevo di aver riposto la sete di vendetta in un angolo nascosto del mio cuore risposandomi, invece alle parole della regina tutto il mio odio verso Coligny era riaffiorato.
Dissi solo “La corona revoca il veto?” La regina mi fissò negli occhi e poi “La corona è all’oscuro di tutto e così dovrà sempre essere ma siate sicura che nessuno pagherà per quell’atto di fedeltà”.
M’inchinai con gli occhi fissi in quelli della regina e uscii dalla stanza.
Andai immediatamente al palazzo di Guisa e feci convocare i miei figli e i loro zii.
Raccontai loro dell’incontro con la regina, Enrico non mi fece neppure finire di parlare che si alzò rovesciando la sedia e battendo le mani sul tavolo e disse “Finalmente mio padre sarà vendicato” .
Poi cominciammo a discutere dell’organizzazione, Enrico avrebbe voluto sfidarlo a duello ma era impensabile provocarlo fino a tal punto.
L’unico era l’attentato, colpirlo magari alle spalle com’era accaduto a Francesco.
Bisognava però trovare l’attentatore, Enrico propose “Madre, voi dovreste essere la mano vendicatrice”. Io risposi di getto “No”, poi vidi lo sguardo truce di mio figlio e capii di essere stata troppo avventata e spiegai “No, figlio mio. Nessuno dei presenti potrà eseguire materialmente l’attentato. Già saremo i primi sospettati. Nel momento in cui Coligny sarà ucciso, dovremo essere tutti a corte, ben visibili” e poi continuai “E poi la mia mano non è abbastanza sicura, non vorrei rischiare di ferirlo solamente”.
Il prescelto fu un certo Maurevert, che già una volta aveva tentato di uccidere Coligny, ma aveva sbagliato bersaglio.
La cosa avrebbe dovuto metterci in allarme, invece non ci ponemmo il problema, eravamo convinti che questa volta non avrebbe sbagliato.
Ingenui, il destino era contro di lui e contro di noi.
Decidemmo di agire subito dopo la fine dei festeggiamenti per il matrimonio della principessa Margherita con Enrico di Navarra.
Le nozze ebbero luogo il 18 agosto in un’assolata Parigi.
Fu una cerimonia davvero originale, in chiesa entrò solo la sposa e i membri della corte cattolica, gli ugonotti aspettarono fuori, sul sagrato.
Enrico di Navarra non udì il sì della sposa, in realtà neppure i presenti in chiesa lo udirono perché Margherita quando le fu posta la fatidica domanda rimase muta e volse lo sguardo verso mio figlio Enrico, temetti il peggio.
Re Carlo, impaziente, le diede un colpo sulla nuca facendole abbassare il capo, quel movimento fu interpretato come un assenso. Margherita era regina di Navarra, io potevo ricominciare a respirare.
Ci furono quattro giorni di feste poi la vita di corte tornò alla normalità.
Fin dal 21 agosto avevamo fatto appostare Maurevert presso il Cloitre de Saint Germain l’Auxerrois, abitazione di un vecchio precettore di mio figlio Enrico.
Questa abitazione, infatti, era posta lungo la strada che l’ammiraglio Coligny percorreva ogni giorno per andare e venire dal Louvre.
Il 22 agosto, fu il primo giorno che il consiglio si riuniva nuovamente, verso le dieci fu sciolta la riunione e l’ammiraglio tornò a casa.
La mia famiglia era a corte e attendeva, apparentemente tranquilla, la notizia della morte dell’ammiraglio.
Mio figlio Enrico stava giocando a pallacorda con il re, io mi intrattenevo con la regina e i miei cognati erano ben visibili.
La notizia che ci giunse non fu quella che ci attendevamo.
Maurevert aveva sparato, Coligny nello stesso istante si era abbassato per allacciarsi una scarpa e così invece di rimanere ucciso, la pallottola lo aveva solo ferito ad un braccio e gli aveva staccato un dito.
Il re corse al capezzale del suo amico seguito dalla regina madre e dal duca d’Angiò.
La mia famiglia doveva decidere il da farsi, in realtà non sapevamo come affrontare la cosa, fosse morto sarebbe stato tutto diverso. I miei cognati ed io consigliammo ad Enrico di lasciare Parigi e così fece.
Parigi traboccava degli spettatori che avevano  assistito alle fastose nozze e, nel contempo, la carestia che affligge le campagne aveva  spinto in città folle di affamati in cerca di cibo e riparo.
Il malcontento era palpabile. I predicatori popolari provvedevano a fomentarlo ulteriormente,   scagliandosi con veemenza contro i protestanti, affluiti in città in gran numero.
Nel frattempo la notizia del ferimento si diffondeva per tutta Parigi ed il   nome dei Guisa era sulla bocca di tutti. I cattolici lo scandivano esultando,   i protestanti lo maledicevano, reclamando vendetta.
La canicola opprimeva ancora di più gli animi, esasperava  l’insofferenza ed infiammava facilmente il sangue dei più facinorosi.
Il giorno successivo a corte e per le strade di Parigi la situazione era insostenibile, ovunque c’erano tafferugli, persino nei corridoi del Louvre gli ugonotti cercavano di attaccar briga con le guardie del re.
Decisi di rinchiudermi nel palazzo di Nemours dove si trovava anche mia madre, giunta per le nozze della principessa Margherita.
Cosa accadde lo seppi solo molti giorni dopo, dopo il sangue e il terrore.
Mio figlio Enrico, che io credevo lontano, rientrò nottetempo a Parigi e si rinchiuse nel palazzo di Guisa in attesa.
L’ordine arrivò, la regina Caterina aveva ottenuto dal re l’autorizzazione ad uccidere tutti i capi ugonotti. Finalmente Coligny sarebbe morto.
La notte tra il 23 e il 24 agosto, la notte di San Bartolomeo, allo scoccare dei  rintocchi del campanile di Saint Germain l’Auxerrois finalmente Coligny fu tratto dal letto e ucciso dal sicario Besmè, poi fu gettato dalla finestra. Il corpo cadde proprio di fronte a mio figlio che scese da cavallo e guardò il volto dell’assassino di suo padre e disse “E’ proprio lui. Finalmente mio padre è vendicato”.
Nel frattempo al Louvre e in tutta Parigi venivano uccisi tutti i capi ugonotti, come da ordine reale.
Furono salvati solo Enrico di Navarra ed Enrico di Condè, in quanto principi del sangue, ma fu imposto loro che si convertissero immediatamente e andassero a seguire la messa, così fecero.
Quello che per ordine reale doveva essere l’esecuzione dei soli venti capi ugonotti diventò una carneficina, a  Parigi la violenza dilagava. Il popolo di Parigi si abbandonò ad una vera e propria caccia all’uomo, dove gli odi e i rancori trovarono sfogo nel sangue.
Scatenati gli istinti più brutali, la popolazione era   ormai divenuta incontrollabile. Il re tentò di fermarla ma inutilmente.
Altrettanto fece mio figlio Enrico al suo rientro. Subito dopo la morte di Coligny si era lanciato nel  vano inseguimento di Montgomery e quando rientrò restò sgomento per le condizioni della città  e tentò tutto il possibile per fermare gli assassini.
Questo bagno di sangue durò più di tre giorni nei quali io rimasi chiusa nel palazzo di Nemours, protetto dagli uomini di mio marito.
Alla mia porta bussarono molto fuggiaschi, come potevo rimanere sorda alle loro preghiere? Ordinai che li lasciassero entrare, tra di loro molti erano vecchi amici e conoscenti, come mademoiselle del’Hospital, figlia del mio vecchio amico Michel.
La ragazza era terrorizzata, non smetteva di piangere per ciò a cui aveva assistito e anche per ciò che immaginava potesse accadere ai suoi genitori e fratelli fuori Parigi.
Io la rassicurai ma quando la situazione si tranquillizzò un po’ non riuscii a trattenerla dal volerli raggiungere.
Non potevo aprirle i cancelli e lasciarla uscire, dovevo aiutarla ma cosa potevo fare?
Decisi di chiedere aiuto a mia madre, l’unico modo per uscire da Parigi era usare la sua carrozza, di fronte allo stemma di Renata di Francia, figlia di un re, zia del re e nonna di Enrico di Guisa non avrebbero avuto il coraggio di attaccare. Così fu.
Il 25 agosto un arbusto di   biancospino nel cimitero degli Innocenti fiorì miracolosamente dopo essere   stato sterile per diversi anni. Molti credettero che la Vergine stessa avesse   voluto quel prodigio.
Il re, la regina madre ed il duca d’Angiò si recarono   sul luogo in processione, ma non riuscirono a valersi neppure di questo evento per far   cessare la strage. Anzi, laici e chierici lessero nella straordinaria   fioritura un segno del favore divino allo sterminio degli ugonotti. La   carneficina quindi riprese con rinnovata foga.
Giacomo non era con me a Parigi in quei giorni, appena saputo della situazione però si mise in viaggio riuscendo a raggiungermi solo il 26 sera quando la furia   omicida aveva cominciato a sopirsi, abbandonando Parigi alla desolazione.  
Nei giorni successivi mia madre ritornò a Montargis protetta dagli uomini di mio marito, tentammo di ottenerle di poter professare la religione riformata, ma dopo il massacro il re era irremovibile, neppure per sua zia avrebbe fatto eccezione, doveva tornare cattolica.
Il 2 novembre detti alla luce il mio ultimo figlio, Enrico.
Durante questa gravidanza ingrassai in modo eccessivo, dieci gravidanze in poco più di vent’anni avevano trasformato il mio corpo, ormai non ero più la leggiadra Anna d’Este che era giunta alla corte di Francia.
Quando mi guardavo allo specchio temevo che il mio sposo non potesse più amarmi, per mia fortuna il suo amore era così profondo che nulla cambiò fino alla fine dei nostri giorni insieme.
A febbraio del 1573, accompagnai mio marito a Torino dove fummo ricevuti con tutti gli onori, il nostro ultimogenito fu investito, in quella occasione, della contea di Saint Sorlin.
Dalla Francia purtroppo giungevano notizie poco rassicuranti e io comincia a temere per l’incolumità di mia madre, che nonostante tutto continuava a professare la religione riformata.
La guerra tra cattolici e protestanti non si era fermata dopo la notte di San Bartolomeo anzi, i protestanti riuniti a La Rochelle  tenettero testa all’assedio compiuto dal duca d’Angiò.
Ritornammo a Parigi dove, nel frattempo, il duca d’Angiò era stato nominato  re di Polonia.
Nel luglio del 1573 fu conclusa la pace di Boulogne.
La regina Caterina era felice per la nomina del suo figlio prediletto alla corona di Polonia, il duca d’Angiò molto meno.
La regina decise di organizzate per l’agosto successivo una cerimonia di incoronazione fastosissima, purtroppo le casse dello stato erano prosciugate dalle lunghe guerre, nuovamente chiese aiuto alla mia famiglia.
In questo caso fu Giacomo a porre rimedio alla situazione, chiese e ottenne per la corona un lauto prestito dai mercanti di Lione, così il 19 agosto 1573 quando la delegazione polacca portò la corona al suo nuovo sovrano trovò un’accoglienza che posso solo definire incredibilmente grandiosa.
Il mio sposo ed io assistemmo all’incoronazione e poi tornammo alla nostra Annecy. 
  
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