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Autore: Valpur    02/02/2011    3 recensioni
Come nelle fiabe, no? "C'era una volta"...
Ma anche no. Niente principesse, niente elfi, fatine, cavalieri, niente bei tenebrosi o unicorni o draghi. Niente. Nada de nada.
In compenso nell'iperuranio c'è chi si annoia di brutto. Anzi, magari si annoiasse.
E così succede che le frustrazioni degli Immortali vanno a riversarsi su qualcuno di molto, molto sfigato e inadatto.*Storia scritta in occasione del NaNoWriMo 2010*
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un campanile lontano batté tredici rintocchi.

Sara camminava a testa china sul marciapiede e sapeva che ne avrebbe avuto ancora per almeno dieci minuti, oltre i venti che aveva già macinato. Suo fratello non la aveva aspettata –come al solito, del resto- ed era uscito un’ora prima per una supplenza. Così, di nuovo, si ritrovava a tornare a casa da sola.

I piccoli auricolari, infilati a fondo nelle orecchie, rimbombavano di musica celtica a volumi intollerabili per chiunque non vi fosse più che abituato. Sara non ascoltava musica se non riusciva a farla sentire anche ai passanti.

Una farfalla sbiadita e stanca le passò vicino. Concentrandosi, Sara cercò di comunicare con l’insetto, che finì dritto in bocca a una delle ultime rondini ritardatarie.

Sia fatta la tua volontà, Madre.

Il marciapiede svoltò a sinistra, fiancheggiando una lunga fila di villette con giardini ben curati.

Qualche cane abbaiò al suo passaggio, lanciandosi contro le recinzioni scodinzolando o ringhiando.

In breve Sara raggiunse un incrocio; sull’angolo più vicino campeggiava una  casa intonacata di giallo, con un pino di dimensioni ragguardevoli nel piccolo giardino davanti. Sara raggiunse il cancelletto, spense il lettore mp3 e si frugò in tasca per qualche istante, estraendone un mazzo tintinnante di chiavi agganciato a un piccolo pipistrello di peluche nero. Infilò la chiave più lunga nella toppa e la girò, senza mai alzare gli occhi.

Entrò, si chiuse la porta alle spalle e, ancora voltata verso la porta, allungò il braccio verso sinistra per lasciar cadere le chiavi nella solita, piccola ciotola sulla cassapanca.

Il mazzo di chiavi si schiantò al suolo con un sonoro sferragliare.

Sara trasalì e guardò per terra.

Le chiavi campeggiavano, lucide e scintillanti, contro il marrone fangoso di un pavimento di terra battuta.

Restando immobile la ragazza trasse un lungo, tremulo respiro e quasi soffocò per l’intenso odore di sudore stantio, urina e fumo. Lentamente voltò la testa e la mandibola le calò progressivamente lasciandola con l’espressione stupita del cefalo a primavera.

Davanti ai suoi occhi non c’era il lindo salotto con il televisore a schermo piatto, la Wii, il lettore dvd, il divano rosso e i tappeti. Al loro posto si estendeva una squallida stanza dalle pareti di pietra annerita da anni di fuliggine; era, nel complesso, molto più piccola della stanza che ricordava, e le scale per il piano di sopra erano sparite.

Sulla parete di fronte alla porta faceva mostra di sé un grosso camino incrostato di sporco, la grossa trave di sostegno ormai nera. Il fuoco era acceso ma la cappa, apparentemente, funzionava male.

Appeso all’interno c’era un grosso calderone di peltro grigio scuro, pieno di una sostanza dall’intenso odore di cavolo che sobbolliva lentamente.

Non c’erano mobili, solo un tavolo con rozze sedie di legno e una madia.

E lì, su uno sgabello posto sotto l’unica, piccola finestra priva di vetro, c’era un mucchio di stracci.

Sara si appoggiò con le spalle alla porta, ansimando.

Quella non era casa. Decisamente non era casa.

Si rigirò verso la porta e cercò una maniglia che non c’era. Spinse il battente di legno rovinato e consunto che cigolò in maniera allarmante e si affacciò verso l’esterno.

La luce cruda la investì e la abbagliò per un attimo. Ebbe una fugace visione di una via non lastricata immersa in un paesaggio verde –ben diverso dall’orizzonte di case e palazzi che campeggiavano nella sua via, in fila dietro la lingua d’asfalto nero della strada- quando fu distratta. Prima dal passaggio di un gruppo di tre uomini a cavallo, il cui incedere pesante e affrettato sollevò nuvole di polvere tali da farli quasi sparire alla vista; poi, con suo sommo terrore, dall’abbaiare furioso di un cane nero e macilento. Ebbe giusto il tempo per fare un passo indietro e richiudersi la porta alle spalle, tirando il paletto del chiavistello, prima che il cane infuriato la raggiungesse. I latrati rabbiosi non cessarono, accompagnati dal suono di unghie canine che raspavano contro la porta.

Dove sono finita? Dove cazzo sono finita? si chiese Sara mentre il fiato le usciva a rantoli acuti.

Non aveva sbagliato strada, quella era la solita via che percorreva ogni santo giorno da cinque anni per andare a scuola. Non aveva bevuto o fumato o assunto farmaci… forse la febbre? Si portò la mano alla fronte, ma, a parte uno strato appiccicoso di sudore, era fresca.

Si fece avanti nella stanza, guardandosi attorno senza parole.

Quella decisamente non era casa sua. E nemmeno una casa che conoscesse, o che almeno teoricamente avrebbe potuto conoscere o frequentare. Niente TV, e vabbÈ, ma il pavimento era di fango, e non c’erano lampade o un rubinetto o nient’altro!

L’istinto le suggerì di scappare… ma dove?

Lacrime isteriche iniziarono ad affollarsi contro le sue palpebre. Girò su se stessa per un istante, con lo zaino che le scivolava inesorabile lungo la spalla grassoccia.

“C’è… c’è nessuno?” pigolò. La voce non era più che un sussurro. Roco, per giunta.

Tossicchiò. Non ottenne nessuna risposta.

Prese un lungo respiro e ci riprovò.

“Ehi! C’è qualcuno in casa? Chiunque?”

In quel momento, il mucchio di stracci si mosse.
Sara fece un balzò indietro urlando. Il mucchio di stracci perse un pezzo, rivelando un volto giallastro e rugoso.

La vecchia guardò Sara. Sara guardo la vecchia. Negli occhi di entrambe una certa paura.

E poi, all’unisono, urlarono.

 

“Ehi ehi ehi… aspetta”.

Gesù si riscosse. “Che c’è? Cosa succede?”

“Non può capire!”
“Mi sembra che fin qui ci fossimi già arrivati”.

Madre Natura sbuffò.

“Non hai capito…”
“Nemmeno io? Certo che qui nessuno capisce niente!” ridacchiò Gesù con un sorrisetto.

“Uffa! Smettila! Allora, noi abbiamo scaraventato la scemetta mille anni indietro. E come pensi che possa comunicare?”
“Ma così è più divertente, dai!”
“Invece no, già non capisce una fava di suo, se poi neanche la lasciamo parlare con la gente questa ci muore di fame in quattro e quattr’otto… e io non credo di volerlo”.

Questa volta fu il turno di Gesù di fare un piccolo sbuffo.

“E va bene, che ci vuole? Tanto il dono delle lingue ormai va di moda. To’, tieni”, concluse agitando la mano verso il buco tra le nuvole.

“Ora possiamo tornare a guardare?”
“Ok!”

 

“Strega!” gridò la vecchia.

Sara si strozzò col grido. Ormai piangeva apertamente, ma quel singolo epiteto riuscì a farle recuperare un minimo di autocontrollo.

“Sì, e allora?”

“Tu… tu sei una…”
“Strega, sì. Da quando sono nata. E non me ne vergogno neanche un po’. Problemi?”
“No! Ti prego, non farmi del male!” gemette l’anziana facendosi convulsamente il segno della croce. “Non far inacidire il latte, non rendere sterili le mie vacche, non uccidere i miei figli!”

Sara inarcò un sopracciglio.

“Io non… non sono quel tipo di strega! Io non…”
Ma si interruppe. Che la temessero, dunque! Un senso di orgoglio la pervase, nonostante il naso arrossato e gocciolante per il pianto appena terminato.

“Non trasformerò nessuno in rospo se…”
La vecchia si rannicchiò un po’di più e squittì.

“Ai rospi non avevo pensato! Santa madre di Dio proteggimi tu!”

“Dicevo. Non ti trasformo in rospo se tu mi dici dove sono. Devo… aver commesso un errore con un incantesimo e sono arrivata nel posto sbagliato”.

“Q-questa è Aruna”, e si segnò di nuovo. “Siamo… siamo… insomma, sull’altura c’è il monastero e…”
“Questa non è Arona! Io vivo a Arona e posso garantirti che non è affatto così! Ci sono strade e macchine e lampioni e…”
“Oh per l’amor di San Graziano! Una formula oscura! Che gli angeli ci proteggano tutti!”

La vecchia ormai era talmente appallottolata su se stessa da non essere poi molto diversa da un porcospino pelato.

“Smettila!” strillò Sara, isterica. “Mi dai i nervi! Sa la Dea se ci sto capendo qualcosa…”
Per un attimo regnò un silenzio molto pesante, rotto solo dallo scoppiettare del fuoco, dal borbottare della sbobba di cavolo e dagli ansiti dell’anziana terrorizzata.

Sara guardò brevemente fuori dalla finestra. Le fu sufficiente: intravide il lago. E se quello era il lago… dov’era la stazione? Lì c’era un campo con una folta siepe, ma… no, non poteva essere.

Si affrettò verso la finestra, facendo quasi cadere la vecchia dal suo trespolo, e si aggrappò alla cornice di pietra che la circondava.

Lì doveva esserci la stazione, lo sapeva benissimo. Da casa sua la vedeva… era lontana, ma la vedeva. E il grande parcheggio poco più avanti… era solo un pantano. Fece arretrare lo sguardo. Il libraio. Non c’era, al suo posto una casupola di legno… anzi, neanche proprio al suo posto.

Le venne di nuovo da piangere.

Quella non era casa sua. Non era la sua città.

Lo sarebbe stata… in futuro.

Le tremavano le mani.

Lo zaino le scivolò fino all’incavo del gomito e si schiantò a terra, riversando sul pavimento quaderni, penne e portafogli.

“Che…”
“AAAHHH! Non uccidermi!”
“No, ‘spetta. Che…”
“Non voglio finire all’inferno!”
“Sì, vabbÈ… che…”
“Indietro da me, demonio!”
“Senti, io…”
“AAAAHHHH!”

“BASTA!”

La vecchia tacque.

Sara non si spostò dalla finestra.

“Che… che giorno è?”
“M-m-m…”
“Martedì?”
“Eh?”
“No?
“No. M-Mancano quattro giorni all’equinozio d’autunno”.

Sara fece una smorfia.

“Lo sapevo. Ma che…”
Le si incastrarono le parole in gola. Sospettava drammaticamente di aver capito, o almeno intuito, dove –anzi, quando- fosse finita.

“Che anno è?”

La vecchia si accigliò, e il viso rugoso si accartocciò su se stesso come una vecchia prugna. Sembrava perplessa.

“Come ‘che anno è’?”

“Mi sembra chiaro”.

“È il… bho, non so contare molto bene. Qualcosa come poco dopo l’anno mille, comunque. Mille e qualcosa dopo la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo che scaccerà i demoni e le streghe come te e ti manderà negli inferi dove soffrirai e ti pentirai per le tue stregonerie tra le fiamme e le grida dei dannati!”

“Mille e… mille e qualcosa? Intendi Duemila, dico bene?”
“Mah… no, sono abbastanza convinta. Due è così, no?” chiese sollevando due dita artritiche.

“Sì”.

“E allora ho ragione io. Il prete dice che siamo sopravvissuti all’anno Mille, quindi il mondo non finirà ancora per un po’.”

Anno Mille.

Sara si staccò dalla finestra e travolse la vecchia mentre indietreggiava precipitosamente. Le sembrava di non vederci più, di non sentirci, di essere circondata solo da un mondo strano e grigio e deforme.

Abbandonò lo zaino per terra e corse fuori, dimentica del cane ringhioso. Che tutto sommato rimase un po’sconvolto da un grassoccio tifone di tulle nero e viola che correva attraverso il prato secco e la strada polverosa, tanto da limitarsi a un paio di latrati perplessi.

Sara scappò via, a stento consapevole delle svariate paia di occhi che si affacciavano dalle povere case circostanti, incuriosite e spaventate da quell’insolita apparizione. Corse oltre le case e in mezzo ai campi e non si voltò mai indietro.

Se l’avesse fatto, forse si sarebbe accorta che la vecchia si era staccata dal muro e si era messa a tocchicciare i resti dello zaino e del suo contenuto con le molle del camino.

“Cosa sta succedendo?” chiese una voce maschile dalla finestra. “Ti ho sentita urlare”.

“Figliolo”, disse la vecchia senza guardare l’uomo barbuto e col viso segnato dalle intemperie, “c’è una strega in paese. Abbiamo le prove. Vai a parlare con l’abate Felino, sono sicura che vorrà saperlo. E mentre vai chiama il prete, voglio far ribenedire la casa… e possa Dio aver pietà delle nostre anime”.

 

“Stavate parlando di me?” chiese Dio comparendo alle spalle del figlio e di Gaia con il triangolo di sghimbescio sulla testa e un cocktail con ombrellino rosso in mano.

“No, papà”, borbottò Gesù guardando altrove. “Sbronzo?”
“Nah, non ancora. Che fate di bello, ragazzi?”
“Ciao, Dio”, lo salutò Madre Natura. “Guardiamo la Terra così, per sfizio”.
“E succedono cose carine laggiù?” continuò sporgendosi. Sporgendosi un po’troppo, visto che incespicò in una nuvola e finì mezzo affacciato dal buco.

“Papà, cacchio, stai attento! Lo sai che quando fai così compari sulle fette di pane ammuffito! Torna su, dai!” Gesù afferro il Padre per la tunica bianca e lo tirò con vigore finché, con una mano da parte di Gaia, riuscì a riportarlo al suo posto.

“Oooops! Grazie, ragazzi. Siete in gamba. Oh, io torno alla festa. C’è Alì Babà che racconta le barzellette sconce. Venite con me?”
Gesù e Gaia si guardarono per un attimo.

“Tra un minuto, pa’. Grande festa, fighissima, ma vorrei stare un po’lontano dalla ressa”.

Ma Dio si era già allontanato cantando con voce tenorile “Bella Ciao”.

   
 
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