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Autore: Miss Demy    09/02/2011    25 recensioni
New York City. La città che non dorme mai. Forse perchè è proprio di notte che si accendono le luci del Moonlight.
Un incontro improvviso, un ritrovarsi in un luogo inaspettato.
In una città, dove l'amore è solo una leggenda metropolitana, vengono meno le certezze del bel Marzio Chiba, crolla il suo Mondo e se ne crea uno nuovo, uno migliore.
Dal cap.2:
- Nessuno parlava, riuscii a sentire il suono della cintura che veniva slacciata. Non poteva essere. Seiya voleva…
Non riuscivo neanche a pensarlo, figuriamoci a dirlo.
Non mi importava delle conseguenze, aprii la porta, o meglio, ci provai.
Purtroppo era chiusa a chiave. Disperazione. Ma perché? Non la conoscevo, non sapevo nulla di lei. Eppure il cuore mi batteva forte se ripensavo al suo sguardo e alla sua dolcezza di quella maledetta-santa mattina.
“Seiya, apri questa porta. Subito. Muoviti!” ripetevo, battendo pugni sulla porta, facendo intendere che avrei continuato finché non mi avesse lasciato entrare.
Il mio respiro si faceva sempre più affannato, la mano iniziava a farmi male. Non mi importava però. Io dovevo proteggerla.

Dal cap.11
-Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Moonlight'
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Cap. 11: Promesse da mantenere


Si era stretta a me, voltata sul fianco sinistro, con la testa sul mio cuore, una mano sul mio petto e l’altra sul mio collo.
Era servita la mia rassicurazione “Sono qui con te Bunny, non ti lascio più” a renderla serena allontanando, così,  tutti i pensieri e le preoccupazioni, e a farla abbandonare – con un dolce sorriso sulle labbra – nel mondo dei sogni.
La guardavo dormire beata, rilassata, e mi sentivo un uomo felice.
“Se solo le cose potessero andare diversamente, se solo potessi aiutarla…” pensavo fra me non riuscendo a toglierle gli occhi di dosso.
Il suo viso candido, quasi di porcellana, le sue labbra rosee e carnose mi ipnotizzavano e, il suo respiro sul mio collo mi mandava in estasi.
Avrei voluto accarezzarla e, non me ne vergogno a dirlo, rubarle un dolce bacio. Ma non sarebbe stato giusto. Lei si fidava di me e per me ciò significava tutto. E così mi accontentai di sfiorare il suo viso col mio, percependo il suo odore inebriante di petali di rosa.
Rimanemmo in quella posizione per un paio d’ore.
Lei stretta a me e io, con un braccio attorno alla sua schiena e l’altra mano sulla sua nuca, ad ammirarla in tutta la sua beltà desiderando che il tempo si fermasse.
Purtroppo Chronos, dio del tempo, non fu dalla mia parte e, ad un tratto, Lei iniziò a muovere, ancora assonnata, il viso accarezzando così il mio.
Lentamente aprì gli occhi, accorgendosi di me che la osservavo estasiato.
Era ancora confusa.

“Ben svegliata principessa Serenity” le dissi, dolcemente, con un sorriso, guardandola negli occhi.
“Principessa Serenity?” chiese, con voce assonnata, non capendo e aggrottando la fronte.
“Sembravi il ritratto della serenità…” risposi ironicamente.
Sorrise, capendo il gioco di parole che io, in quanto scrittore, riuscivo sempre a fare. Solo dopo si rese conto di essere ancora tra le mie braccia.
So che non avrebbe voluto ma, tolse le sue mani dal mio collo e dalla mia schiena, portandosi seduta sul letto. Indifferente.
“Che ore sono? Mi sono addormentata senza neanche rendermene conto.”
Cercava l’orologio con gli occhi, sistemandosi i codini ormai sfatti.
“Sono le 14.00, eri stremata e ti sei addormentata sul divano.”
Non mi guardava, ricordava tutto e si sentiva in imbarazzo, come se ciò che mi avesse chiesto dicendomi ‘Non lasciarmi andare’ potesse compromettere tutto.
La rassicurai.
“Bunny, è tutto ok, ti ho portata qui solo per farti riposare meglio.”
Ma lei, voltata alla sua destra, continuava a fissare il balcone senza dire nulla.
Mi alzai dal letto, cercando di provarle che per me non c’erano stati fraintendimenti, che l’averla tenuta stretta a me non avrebbe riaperto discussioni ormai chiuse.
“Preparo qualcosa da mangiare, va bene?” le chiesi in tono rassicurante.
Si voltò verso di me, triste, con gli occhi lucidi:
“Grazie, Marzio, ma devo proprio andare adesso.”
Chiusi gli occhi istintivamente, concentrandomi per riuscire a mandare giù quelle parole amare.
Annuii e, con tono apprensivo: “Va bene. Promettimi che mangerai, però.”
I suoi occhi divennero ancora più lucidi anche se Lei cercava invano di non farlo notare.
Annuì alzandosi dal letto e, senza dir nulla, uscì dalla camera passandomi accanto, quasi sfiorandomi.
Le andai dietro, in silenzio, col cuore a pezzi, senza riuscire a dire nulla.
Rimanendo immobile dietro il divano, la vidi indossare il cappotto e frettolosamente abbottonarlo mentre tentava di trattenere le lacrime.
Prese la borsa e si voltò verso di me, notando il mio sconforto stampato in viso.
Sorrise, almeno ci provò:
“A presto, Marzio. Grazie, ancora, di tutto.” E si avviò verso l’uscita.
“Bunny… ” la chiamai a voce alta non appena mi accorsi che aveva già aperto la porta d’ingresso.
Si bloccò, voltandosi verso di me e trovandomi dispiaciuto.
“Bunny, è tutto apposto fra noi, vero?”
Ero spaventato e la mia voce rivelava la mia paura.
Non riusciva a parlare. Se lo avesse fatto le lacrime sarebbero uscite dai suoi occhi azzurri e la sua voce l’avrebbe tradita.
Si limitò ad annuire, sforzandosi, ancora una volta, di sorridere.
Solo dopo, uscì richiudendosi la porta alle spalle.

E di nuovo solo. Di nuovo senza di Lei.
Mi sedetti sul divano, portando le mani alla testa. Volevo trattenermi ma non ci riuscii e iniziai a piangere.
Per Lei, per quella maledetta situazione, per noi.
Lasciai uscire tutto il mio sconforto, il mio dolore. Averla vista trattenere le lacrime mi fece male. Avrei voluto fare qualcosa per renderla felice, o almeno per donarle un po’ di serenità, ma purtroppo, in un modo o nell’altro, riuscivo solo a farla stare male.
Rimasi in quella posizione, con i gomiti sulle gambe e le mani a sorreggermi la testa per qualche minuto, poi, un’idea balenò improvvisamente nella mia testa.
Mi sentii un perfetto idiota per non averci pensato prima.
“Ma certo!” pensai ad alta voce, ora che, finalmente, quell’idea aveva aperto una nuova speranza, una via verso la soluzione di tutto.
Poi, razionalmente e con molta riflessione, un dubbio tremendo e un’innata paura che tutto fosse inutile mi resero titubante e disilluso.
Mi alzai ugualmente dal divano e, dopo aver preso il cappotto, uscii di casa.
Magari non sarei riuscito ad aiutarla.
Però, per Lei, per noi, dovevo almeno provare.
 
Memorial Sloan Kettering Center – Upper East Side
Ore 16.00
 
Avevo appena finito di parlare, dietro il bancone della reception, con il  professor Tomoe che, gentilmente, mi aveva spiegato meglio le condizioni di Usa. Non che Bunny non l’avesse fatto.
 Semplicemente, avevo bisogno di sentirmi dire, in tutta franchezza e onestà, il parere professionale circa le sorti della bambina e la probabilità della sua guarigione.
Mi stavo dirigendo verso l’uscita dopo aver salutato il professore - che era ritornato nelle stanze della degenza - quando le porte scorrevoli dell’ingresso si aprirono. Il mio cuore si fermò.
Camminando a fatica, con gli occhi persi nel vuoto, Bunny entrò in ospedale, facendo sì che le porte si richiudessero non appena fu abbastanza distante da esse.
Rimasi incredulo, scioccato più che altro.
Fino a due ore prima l’avevo lasciata bene, almeno fisicamente. Cosa le era successo da ridurla in quelle condizioni?
Mi diressi spaventato verso di lei e, una volta fatto il giro del bancone, mi accorsi di un borsone che teneva in mano a fatica. Dalla bombatura intuii che fosse pieno e abbastanza pesante.
“Bunny, che è successo?” chiesi allarmato quando le fui di fronte.
Istintivamente lasciò cadere il borsone a terra, destandosi dallo stato di shock in cui si trovava.
Mi guardò. Il suo viso, i suoi occhi non lasciavano trasparire emozioni.
Non rispose. Mi fissava soltanto. Tornò di nuovo in quello stato di assenza dalla realtà.
Presi il suo viso fra le mani, cercando di farla tornare in sé.
“Ahi!” sussultò dolorante, lasciando uscire una smorfia, quando le mie dita premettero troppo forte vicino l’occhio.
Le tolsi subito, prendendole le mani e sperando che il contatto con me potesse farla riprendere:
“Bunny, ti prego rispondi, cosa ti è successo?”
Sbatté le palpebre un paio di volte e dopo, sembrò essere tornata definitivamente in sé:
“Niente Marzio, sto bene.” Cercò di sorridere, tentando di rassicurarmi dopo essersi accorta del mio viso spaventato e dei miei occhi pieni di dispiacere.
“No, non stai bene, dimmi cos’è successo.” Il mio tono era alto - non volevo che mi mentisse davanti all’evidenza - e allo stesso tempo apprensivo.
Volevo che si fidasse di me confidandosi.
“Voglio sedermi” disse sofferente abbassando lo sguardo e avviandosi a fatica verso le sedie sulle quali quella stessa mattina c’eravamo seduti.
Le misi il braccio destro sul fianco, facendola appoggiare a me.
Dopo essersi seduta, lentamente, stropicciò le labbra chiuse per trattenere un lamento di dolore.
Mi sedetti accanto a lei e cercai di farmi guardare in viso:
“Bunny, dimmi cos’hai. Basta fingere. Non sono stupido.”
Mi guardò con gli occhi lucidi e spenti. Quella luce piena di speranza, di serenità, che ero riuscito a donare ai suoi occhi, era scomparsa di nuovo.
“Prometti che non dirai e non farai nulla se te lo dico?”
Era spaventata.
Annuii velocemente.
Prese coraggio e si confidò:
“Quando sono tornata al Moonlight lady Amy mi ha fatta chiamare, così sono andata nel suo ufficio. Sidia era lì con lei.”
Abbassò lo sguardo, asciugando le lacrime che avevano iniziato a scenderle sulle guance. Poi riprese:
“Sidia ha raccontato tutto a lady Amy. Le ha detto di averti visto uscire una mattina dalla mia camera. Le ha anche raccontato tutto di ieri sera. E dato che Sidia è la donna di fiducia di lady Amy, questa le ha creduto subito.”
Non potevo crederci, non volevo crederci. Il mio cuore iniziò a battere forte e una moltitudine di sensi di colpa mi assalì.
Avevo minacciato la puttana di non farla più soffrire o l’avrebbe pagata cara, ma solo in quel momento mi resi conto del mio ingenuo sbaglio.
Solo che a pagarne le conseguenze era stata colei che non avrei mai voluto soffrisse.
Le ravviai dietro l’orecchio una ciocca di capelli, ormai sciolti e simili a una cascata di fili dorati, che le ricoprivano la schiena e le spalle:
“Che ti hanno fatto, piccola?”
Dalla mia voce, dalla mia espressione, riusciva a notare il mio rammarico, la mia completa disperazione.
Con lo sguardo basso e le braccia incrociate sulla pancia, rispose:
“Lady Amy mi ha solo punita. Mi ha detto che è molto comprensiva ma guai a tradire la sua fiducia. E io l’ho tradita facendoti dormire con me e ‘scappando via come una bambinetta disturbando il lavoro altrui’. Ecco come ha definito quello che è successo ieri sera.”
Era in imbarazzo. Iniziò a strofinare le mani sulle braccia incrociate.
Cercava di non far fuoriuscire le lacrime.
“Mi ha detto che la mia punizione consiste nel non poter vivere al Moonlight per una settimana.”
Iniziò a piangere, inevitabilmente, piena di sconforto:
“Ha scelto questa punizione perché sa che ora non ho un posto dove andare a dormire.”
E pianse ancora, cercando, inutilmente, di asciugare le lacrime.
La spinsi delicatamente verso di me, portando il braccio destro sulla sua spalla sinistra.
Lei si appoggiò al mio petto, in cerca di conforto, continuando a piangere.
Le accarezzai i lunghi capelli, cercando di rassicurarla:
“Non piangere Bunny, ci sono io con te, non devi preoccuparti per il posto dove stare. Starai da me.”
Sollevò la testa di scatto, incontrando i miei occhi.
Era stupita. Voleva dire qualcosa ma la precedetti:
“Bunny, è inutile fare obbiezioni. È deciso. Verrai a casa mia per una settimana. Ho una stanza per gli ospiti. Non ci sono problemi.”
Ero duro e deciso. Non le avrei permesso di controbattere.
“Posso chiedere a Morea di ospitarmi. Le farà piacere” cercava di convincermi.
“No. È fuori discussione. Sono più tranquillo sapendoti a casa mia. E poi l’ospedale è vicino. Sarà più comodo per te. Ti prego, fidati di me.”
Ero sempre più serio e fermo nella mia decisione alla quale a lei non veniva data possibilità di replica.
Annuì, ritornando con la testa appoggiata a me.
“Grazie Marzio, sei un tesoro.”
Mi sciolse il cuore con quelle parole dolci e con quel tono triste.
Ripresi ad accarezzarle i capelli lisci e morbidi: “Bunny, cos’è successo dopo? Chi ti ha fatto del male?”
 Volevo sapere tutto, prendere a pugni chiunque le aveva fatto del male.
“Quando lady Amy ha finito di parlarmi, sono salita in camera a preparare il borsone. Puoi prenderlo e portarlo qui, per favore?”
Fece cenno con la testa verso l’entrata.
Solo allora notai che era rimasto davanti alle porte scorrevoli. Andai a prenderlo e quando tornai da lei chiesi:
“E dopo?”
Si strinse nuovamente a me, mantenendo la testa bassa:
“Sidia è entrata nella mia stanza e mi ha preso per i capelli. Io… io non me lo aspettavo e son rimasta immobile. Come una stupida.”
Una pausa, poi:
“Mi ha sbattuto a terra, prendendomi a calci nella pancia e dicendomi che le piaceva farmi male e farmi piangere e che la sera precedente non era stato abbastanza divertente.”
Iniziò a piangere, a singhiozzare, abbracciandomi ancora più forte.
E io non riuscivo a muovermi. Ero amareggiato, incredulo, un imbecille completo.
Era colpa mia, tutta colpa mia. Mia. Che avevo cercato solo di proteggerla, e invece…
“Bunny perdonami, è tutta colpa mia, ho cercato di proteggerti e ho combinato solo guai.”
Alzò la testa, specchiando i suoi occhi, tristi e spaventati, nei miei, pieni di rimorsi.
“Ti prego non dirlo a nessuno, per favore Marzio, per favore.”
Tremava.
Annuii, cercando di non farle notare la rabbia che covavo dentro.
“Va bene, sta’ tranquilla adesso. Devi farti vedere da un medico.”
Scosse la testa: “No, no, per favore. Se si viene a sapere ci saranno altri problemi. Marzio, per favore… sono soltanto indolenzita.”
Non sapevo come comportarmi. Avevo fatto già troppo danno.
Le asciugai le lacrime, accarezzandole il viso.
E, dopo un dolce bacio sulla guancia, la avvolsi in un abbraccio sussurrandole:
“Va bene, come vuoi tu. Ora però calmati o Usa si spaventerà. Non aver paura, mi prenderò cura io di te questa settimana.”
Annuì, strofinando la guancia sul mio petto.
Rimanemmo in quella posizione per un po’, approfittando del fatto che fossimo gli unici all’interno della stanza.
Lentamente il suo respiro si fece meno affannato, i singhiozzi rallentarono fino a quando si rasserenò. Apparentemente.
Solo allora, si allontanò da me e, con auto ironia disse:
“Sarebbe stato meglio se non mi avessi incontrata. Sono una frana. Una piagnucolona sempre triste. E una stupida che non riesce a difendersi.”
Passai nervosamente una mano fra i capelli e, con tono serio:
“Bunny, vorrei risponderti ma non posso. Ho promesso che mi sarei comportato da amico. Perdonami.”
Mi fissò per un istante con gli occhi colmi di stupore. Non si aspettava una simile risposta. E arrossì, voltando lo sguardo dall’altra parte.
“Come mai eri qui?” chiese cercando di cambiare discorso.
“Volevo far visita a Usa, sempre se per te va bene.”
Annuì sorridendomi dolcemente con gratitudine.
Lasciai andare un sospiro di sollievo. Non mi aveva fatto ulteriori domande e, quindi, non fui costretto a mentirle.
Il professor Tomoe uscì dalla porta che conduceva alla degenza e, sebbene mancassero ancora venti minuti, fece cenno a Bunny, permettendole di andare dalla sorella.
Si alzò a fatica, le costole erano indolenzite ma lei cercava di fingere che tutto andasse bene. La presi per il fianco e la feci appoggiare a me.
Solo così superammo la porta e ci ritrovammo presto nella stanza numero 30.
 
All’apertura della porta, Usa si voltò di scatto.
Non appena ci vide, un sorriso le si manifestò in quel tenero viso pallido e sciupato. I suoi occhi si riempirono di gioia.
A Usa, bastava sapere di avere accanto chi le volesse bene per essere felice.
Bunny, facendo in modo che il dolore alle costole non fosse percepibile dalla sua espressione, le si avvicinò mostrandosi serena. Si piegò per baciarla e la piccola le cinse il collo con le braccine.
“Come sta la mia piccolina?” chiese, con amore, stringendola a sé.
Nonostante la sofferenza, era quel piccolo tesoro a darle la forza per andare avanti.
Usa le baciò dolcemente la guancia:
“Bene, ho colorato tutto il quaderno!”
“Ciao piccola” le dissi, avvicinandomi a lei e accarezzandole la testa.
Guardandomi con entusiasmo, sempre fra le braccia di Bunny:
“Sono contenta di rivederti, Marzio!”
“Sono contento anche io” risposi donandole un sorriso.
Ci mostrò i suoi disegni e ci raccontò dei cartoon che aveva guardato quel giorno.
Sembrava stare bene. Il professor Tomoe mi aveva spiegato che spesso, nei casi come quelli della bambina, si alternavano momenti di apparente benessere a crisi e peggioramenti.
E Bunny lo sapeva bene e la coccolava, si prendeva cura di lei con la paura nel cuore che ogni giorno potesse essere l’ultimo.
 
Alle 19.00 trasmettevano l’anime preferito di Usa. Le protagoniste erano un gruppo di guerriere che salvava la Terra dai mostri. Bunny prendeva la piccola in braccio e, sulla poltroncina accanto al letto, lo guardavano tutte le sere abbracciate. E Usa, riscaldata dall’immenso amore della sorella, si incantava davanti allo schermo del televisore.
Quella sera, sedendomi accanto a loro, guardammo l’anime assieme.
Una delle protagoniste era molto buffa e spesso un sorriso divertito fuoriusciva anche dalle labbra di Bunny.
In quei venti minuti di programma, anche Lei cercava di non pensare a nulla, godendosi quel momento di profondo affetto con la persona a lei più cara e preziosa.
La guardavo e mi chiedevo ancora una volta come fosse possibile che una ragazza all’apparenza così fragile e indifesa in realtà fosse così coraggiosa e piena di forza di volontà. Dove trovava tutta quella grinta?
Poi posai lo sguardo su quella piccola creatura accoccolata a Lei e trovai le risposte.
Quell’angelo biondo era entrato senza volerlo, senza che io lo volessi, nella mia vita. E ne aveva creata una migliore.
E io? Anch’io volevo far parte della sua. Della loro.
Volevo stare con loro, crescere con loro. Sognare con loro *.
Ogni tanto, avvertendo il mio sguardo su di sé, si girava a guardarmi. E sorrideva.
C’era complicità. Tanta complicità. Forse troppa per due come noi, costretti a restare soltanto amici.
Ogni sera, alla fine dell’anime, Usa lasciava andare un sospiro di dispiacere e attendeva con ansia il giorno seguente.
“Uffa, è finito” esclamava triste e impaziente.
“Domani ce ne sarà un altro” le rispondeva Bunny baciandole la fronte e cullandola fra le braccia.
 
“Bunny, mi porti alla finestra? Vorrei guardare le stelle!”
Lei cercò di alzarsi, prestando attenzione a non far male alla bambina e a non farle notare la sua sofferenza.
La fermai prima che si alzasse:
“Usa, posso portarti io a guardare le stelle?”
Annuì contenta, allungando le braccia verso di me.
 E Bunny mi guardò, perdendosi nel mio sguardo pieno d’amore, ancora una volta e, soltanto per Lei.
Presi in braccio Usa e la portai alla finestra.
 
Manhattan era piena di luci, sembrava incantata.
Di giorno i rumori delle auto, delle sirene delle ambulanze, degli elicotteri, la rendevano caotica. Le migliaia di persone che camminavano a passo svelto per raggiungere case, uffici, scuole, la caratterizzavano come città frenetica.
Ma la notte, Manhattan era descrivibile con una sola parola…
Magica.
 
Usa mi cingeva il collo con le sue piccole mani, osservando estasiata quel panorama spettacolare.
E Bunny, dopo essersi alzata a fatica, mi venne dietro e, senza dire nulla, incrociò le sue braccia attorno al mio busto, premendo i suoi seni sulla mia schiena e appoggiandovi la testa.
 
Un sussulto al cuore, una pace nell’anima.
 
Rimanemmo in quella posizione di infinita tenerezza per un po’, non so dire quanto. Sarei voluto restare così per molto tempo, ma si sa, gli attimi da ricordare con gioia e calore nel cuore sono sempre troppo brevi.
Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
 
Purtroppo, la porta che venne aperta, fece terminare quel momento di magia.
Un medico, forse uno specializzando, entrò.
Bunny si voltò, liberandomi dal suo abbraccio.
Notai il modo in cui lui la guardava, la squadrava dalla testa ai piedi, con aria maliziosa.
 
"Signorina, mi scusi, dovrebbe venire a firmare dei consensi informati."
Bunny annuì, ogni tanto doveva occuparsi anche di firmare i moduli per acconsentire alle varie terapie sulla piccola.
Lui continuava a fissarla. E io iniziai a odiarlo.
 
Dopo aver passato la mano tra i capelli ramati di Usa disse:
"Torno subito, piccola."
E con il dottor Ale - Alex era il suo nome ma preferiva farsi chiamare Ale - che sulla soglia della porta sperava in un contatto fisico, uscì dalla stanza, imbarazzata, cercando di mantenere basso lo sguardo.
 
Rimasi solo con Usa che mi chiese di rimetterla a letto.
Le rimboccai le coperte. Solo allora mi confidò:
"Al dottor Ale piace Bunny. La guarda sempre."
Mi sorprese. Usa era davvero attenta a tutto, molto intelligente e perspicace.
Le sorrisi, cercando di nascondere la mia gelosia:
"Le da' fastidio? Si comporta male con lei?"
Scosse la testa:
"No, è simpatico, a volte mi aiuta a colorare."
Mi sedetti accanto a lei.
Mi faceva piacere che quel dottore fosse gentile con Usa ma, al tempo stesso, non sopportavo l'idea che potesse provarci con Bunny.
"Vuoi guardare un altro cartoon?" chiesi cercando di non pensare più a ciò che avevo visto prima.
"Marzio, anche a te piace Bunny, vero?"
E mi stupii ancora. Un sorriso carico d'incredulità uscì spontaneo dalla mia bocca.
La guardai senza sapere cose risponderle.
Era incredibile come una bimba di cinque anni potesse mettermi in imbarazzo.
"Dai, ammettilo che ti piace, è così evidente!"
Rideva divertita. Contagiò anche me con la sua risata cristallina che le fece brillare gli occhi color nocciola così belli e ingenui.
"Ah sì? E da cosa sarebbe evidente?"
"Ma Marzio, è semplice. Da come la guardi, da come le parli. Si vede che ti piace tanto. Poi, Bunny è tanto bella!"
Sempre col sorriso e con tanta consapevolezza:
"Sì, hai ragione. Bunny è bellissima. La ragazza più bella di tutta NYC."
Annuì soddisfatta e d'accordo con me.
"Anche tu piaci a lei! Tantissimo!"
"Ah sì? E tu come fai a dirlo?"
Mi mostravo indifferente. Ero consapevole del fatto che Lei mi amasse e sapevo che il mio amore per Bunny era evidente dalla luce che emanavano i miei occhi quando ero con Lei o anche quando, semplicemente, la pensavo.
"Lo so, lo vedo. Si capisce da come guarda te e come il dottor Ale. Saresti perfetto come fidanzato di Bunny."
Cercai di sviare il discorso. Usa non sapeva tutto ciò che era accaduto in quei giorni, non sapeva quanto, io e Bunny, soffrissimo capendo di non poter stare assieme. Nonostante la sua perspicacia, non credo avrebbe mai potuto immaginarlo:
"Io pensavo che preferissi il dottor Ale, visto che ti aiuta a colorare!"
"No, no, tu sei più simpatico e più bello! Dimmi che anche a te lei piace, così poi sto più tranquilla…"
Il suo entusiasmo iniziale aveva lasciato posto al senso di apprensione verso la sorella.
Mi alzai dalla poltroncina e mi sedetti sul bordo del letto, accarezzandole i capelli:
"Ti confido una cosa. Sono innamorato di Bunny. Davvero tanto."
La gioia provata nel cuore al suono delle mie parole si manifestò anche sul suo visino, lasciando fuoriuscire un sorriso di sollievo e soddisfazione.
 
Subito dopo la porta fu riaperta e Bunny entrò richiudendola alle sue spalle.
Voleva apparire calma, ma leggevo nei suoi occhi che qualcosa non andava.
Quando fu di fronte a me, cercai di rialzarmi, per cederle il posto accanto a Usa.
Mi bloccò posando le mani sulle mie spalle e, con la dolcezza di sempre:
"No, resta, io mi siedo qui accanto."
Usa rise divertita e quando ci voltammo a guardarla mi fece l'occhiolino.
Capii, e sorrisi anch'io.
Bunny aggrottò la fronte, con capendo.
"Mi spiace Bunny, ma è il nostro segreto!" rispose Usa con aria furba.
Ma Bunny era troppo scossa per tutto ciò che era successo quel giorno per prestare attenzione e mostrare interesse.
Si limitò ad sorridere.
 
Alle 19.30 salutammo la piccola. Le promisi che sarei tornato a trovarla presto.
Quando mi abbassi per baciarle la guancia, mi cinse il collo e mi sussurrò all'orecchio:
"Promettimi che la bacerai sulle labbra!"
Rimasi senza parole, meravigliato, guardandola con occhi sgranati.
Mi lasciò rialzare e, con occhi tristi:
"Promettilo..."
"Usa, che c'è? Cosa deve prometterti?"
Bunny riuscì persino a preoccuparsi, temendo chissà cosa, mentre indossava il cappotto.
Ma Usa continuava a fissarmi, con sguardo dolce, in attesa di risposta.
Annuii:
"Te lo prometto."
Quasi mi pentii di quella risposta.
Conteneva una promessa contrastante con quella fatta a Bunny quella  stessa mattina.
 
Sorrise, più serena. E noi, col pensiero alla sua serenità, uscimmo dalla stanza, rincuorati.
 
Appoggiata a me, arrivammo nel mio appartamento.
 Sembrava a disagio.
"Bunny, va tutto bene?" le chiesi una volta richiusa la porta.
"Sì. Sì, va tutto bene."
Cercava di convincermi col suo dolce sorriso, ma i suoi occhi erano troppo sinceri per me.
"Vieni. Ti mostro la casa."
Mi seguì e, dopo aver ammirato la stanza di fronte alla mia - dalle pareti color pesca, le tende bianche con lavorazioni dorate che coprivano le vetrate del balcone e il letto matrimoniale col copriletto color oro -esclamò:
"Marzio, è stupenda..."
La guardai negli occhi pieni di meraviglia:
"Sono contento che ti piaccia. Credo sia adatta a te."
Il mio tono, il mio sguardo eloquente, le parlava dicendo che in qualsiasi momento avrebbe potuto trasferirsi lì. E rendermi, così, felice.
Si appoggiò alla parete, con le braccia incrociate dietro la schiena. Voleva parlare, ma sapeva che poi sarebbe stato tutto complicato.
Lo compresi, accettandolo.
"Fa' come se fossi a casa tua, Bunny" le dissi, rasserenandola, passandole accanto e dirigendomi a preparare la cena.
 
Davanti a due piatti di spaghetti al pomodoro e due bicchieri di vino rosso iniziammo a chiacchierare, come due buoni amici.
"Sei bravissimo a cucinare, sono ottimi!"
disse dopo la prima forchettata.
"Amo la cucina italiana" le risposi asciugandomi le labbra con un tovagliolo di stoffa blu come la tovaglia.
Sembrò ipnotizzata da quel gesto. Portò il bicchiere da vino alle labbra, svuotandolo.
Sorrisi lievemente.
"Bunny, quando sei ritornata nella stanza eri preoccupata. E' successo qualcosa? Il medico ti ha dato fastidio?"
Per un secondo sembrò non capire, poi:
"No. Tutto apposto. È solo che, ogni volta che firmo tutti quei moduli mi intristisco un po’..."
Le versai altro vino e, dopo averne bevuto un sorso continuò:
"Scusa, che c'entra il dottor Ale?"
Girando la forchetta nel piatto, per raccogliere gli spaghetti, spiegai:
"Non mi piace come ti guarda. Lo ha notato anche Usa. E' in gamba la piccola."
Sorrise, riprendendo a magiare.
"E' simpatico. Solo che dopo avermi vista al Moonlight ha iniziato a guardarmi... diciamo... diversamente."
Alzò le spalle e con una smorfia di amarezza:
"Pazienza, sono i rischi del mestiere."
Non risposi. Non sapevo che dire. Terminammo di cenare in silenzio.
Solo allora mi alzai, leggendole uno sguardo pieno di vergogna per ciò che mi aveva appena spiegato.
Mi guardava e, quando le fui accanto in piedi, le dissi: "Vieni, alzati." Le avrei voluto far vedere il mio primo libro pubblicato, di cui andavo fiero. Almeno per cercare di distrarla un pò.
Ci provò ma poi, una volta in piedi, si portò una mano alla fonte:
"Mi gira la testa, mi sa che non reggo l'alcool."
Rideva, abbandonando i pensieri e le preoccupazioni e lasciandosi trasportare dalla leggerezza provocata dal vino.
Sembrava persino spensierata.
La avvolsi in un abbraccio, cingendole la vita:
“Ce la fai? Ti porto in camera?” le sussurrai sensualmente con la fronte a contatto con la sua.
Incrociò le braccia dietro la mia nuca:
“Marzio… sto bene, non devi preoccuparti sempre… sono soltanto un pò indolenzita. Quel bicchiere di vino ci voleva. Adesso mi sento più serena.”
Sorrideva.
Sorrisi divertito anch'io, prendendola in braccio:
“Ho capito, non ce la fai.”
La portai nella sua stanza e la adagiai dolcemente sul letto.
Mi guardava. Mi voleva. Mi amava.
“Siediti qui, vicino a me…” chiese implorando, battendo il palmo della mano sul letto.
Le obbedii, continuando a guardarla.
Un’infinità di pensieri, di desideri vagavano nella mia testa.
Tutti da dover reprimere.
Iniziò ad accarezzare con i polpastrelli il mio braccio che la manica della camicia rialzata lasciava scoperto.
“Bunny, ti prego… non fare così.”
Con voce supplichevole cercavo di non cedere alla tentazione di abbracciarla, baciare quelle labbra carnose e farla mia per tutta la notte. Dovevo resistere. L’avevo promesso.
Ma lei mi guardava piena d’amore, di desiderio.
E i suoi occhi mi rispondevano mentre, con quel gesto, continuava a provocarmi brividi, non soltanto al braccio ma su tutto il corpo.
“Bunny, ti ho promesso che mi sarei comportato da amico. Che lo avrei fatto per te. Non farmi questo.”
Il mio respiro, alla vista di Lei che mi guardava con l’altra mano chiusa a pugno sul cuore - mentre una cascata di fili dorati le ricopriva il corpo finendo sul copriletto - si fece affannato. Era così ingenuamente sensuale che il cuore mi batteva forte. Non volevo deluderla. Dolevo resistere.
“Perché?” chiese dispiaciuta.
“Sono tuo amico. Ma sono un uomo. Un uomo che ti ama da morire.”
Si mise seduta sul letto e, con le braccia sul mio collo iniziò ad accarezzarmi i capelli con entrambe le mani:
Il suo viso sfiorava il mio, le sue labbra si facevano sempre più invitanti, soprattutto quando con lingua, sensualmente, le inumidiva. Le guardavo, a pochi millimetri di distanza dalle mie che volevano accarezzarle, morderle, renderle gonfie.
Poi le schiuse, sussurrando:
"Lo so Marzio, ti amo anche io." Una pausa, poi: "Cos’hai promesso a Usa?”
La guardai, perdendomi nei suoi occhi colmi di una nuova luce:
“Che ti avrei baciata sulle labbra.”
La mia voce aveva tremato, mentre i battiti del mio cuore divenivano sempre più accelerati.
Altre carezze sui miei capelli, poi una mano scivolò sul mio viso finendo sulle mie labbra:
“Manterrai la promessa?”
Era perfettamente lucida e mi stava provocando. Lei aveva sentito chiaramente le parole di Usa e aveva voluto che io le ripetessi per provocarmi.
Capii che non era l'effetto del vino a farla comportare così, ma semplicemente l'amore per me che non riusciva più a frenare, che non voleva più reprimere. Ma donarmelo. Solo dopo tale riflessione, portai le braccia all’altezza dei suoi fianchi e  infilai le mani sotto la sua felpa, spingendola a me.
Al contatto della sua schiena con le mie mani, un respiro le morì in bocca.
Inarcando la schiena premette i suoi seni al mio petto e intrecciò le sue dita tra i miei capelli.
 Stringendola a me la feci sdraiare, finendo sopra di Lei:
“No… se tu non vuoi.”
I suoi occhi nei miei, il suo cuore all’unisono col mio, i suoi sentimenti per me perfettamente ricambiati, la fecero lasciare andare:
“Lo voglio, Marzio. Ti voglio.”
Il suono di quelle parole per un attimo mi spiazzò. Temevo fosse un sogno, uno scherzo beffardo della mia testa.
La guardai inizialmente incredulo ma poi, quando sorrise piena di tenerezza, un’esplosione di sentimenti, di emozioni fuoriuscì dal mio corpo tramite un sorriso di immensa felicità.
Chiuse gli occhi. E io, baciandole le labbra con dolcezza, mantenni la promessa.
 

Note:
*: frase tratta da ‘La vittoria dei sogni’ - Sailor Moon serie 4.


Il punto dell'autrice
 
Carissimi lettori questo capitolo è stato un vero travaglio.
Avevo ingarbugliato la matassa così tanto che, riuscire a trovare un modo per sistemare tutto è stato difficile perché temevo di scendere nel banale.
Spero vi sia piaciuto!
Vi informo che il prossimo capitolo verrà pubblicato sotto forma di raccolta (insieme di one-shot per il rating rosso) intitolata
Moonlight Uncutted, in modo che io non debba modificare quello della storia principale (cioè questa).
Ovviamente il proseguo sarà comprensibile anche senza leggere
Moonlight Uncutted (scritto solo per i maggiorenni).
Va bene, dopo questo piccolo spoiler,
vi abbraccio e vi ringrazio per l’affetto che quotidianamente mi dimostrate!
Un ringraziamento speciale va a Valeria, per questa splendida immagine che ha realizzato per me con tanta pazienza e gentilezza.
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, le vostre recensioni mi fanno sempre tantissimo piacere!
Un bacio e a presto!
Demy

 

 


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