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Autore: Jo_March_95    15/02/2011    2 recensioni
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Primavera:
Una donna con la manicure appena fatta mi si avvicina, e mi prende il palmo della mano nelle sue, per vedere cosa non và. Le sorrido e la mando via con un gesto. I suoi occhi castani mi guardano gentili. Sono verdi quelli che vorrei vedere. Ancora un po’ di pazienza mi ripeto. Aspetto con ansia che il sole faccia il suo giro nel cielo e che firmi la mia uscita. Aspetto il momento in cui potrò tornare a casa, aspetto il momento in cui le mie mani non saranno più vuote.
Estate:
<< Promettimi che un giorno ti sforzerai, che terrai una delle mie rose. >>
<< Si, Francis-san. Un giorno terrò una delle tue rose. >>
<< Merci Kiku! >> Gli sorrido, contento e orgoglioso.
<< Il giorno del mio funerale potrai poggiare una rosa sulla mia tomba, e non la toglierò mai più. >>
Autunno:
E vorrei che la mia morte fosSe come quella delle foglie, non un’esPerienza dOlorosa, ma il Semplice ritorno Al mittente, al quale bacerò i piedi e le Mani per ringraziarlo di avermI inviato a te. E infine vorrei che tu rileggessi le ultime frasi della lettera e facessi particolare attenzione ai caratteri scritti in grassetto, e vorrei tanto che rispondessi non con le parole, ma permettendomi di insidiarmi una volta e per sempre nel tuo cuore, di scavarmi senza farti troppo male un posticino caldo e confortevole dal quale poter essere tutto ciò di cui hai bisogno e tutto ciò che ami.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1: primavera

Il sole caldo del mattino mi abbraccia. I raggi lambiscono il mio corpo stremato. Stremato sì, ma dall’amore.
Tra i miei arti stringo la cosa più preziosa della mia vita: un inglesino.
Un inglesino biondo, con delle sopracciglia dalla dubbia natura e lo sguardo di un bambino che è cresciuto troppo in fretta e che non è disposto a farsi fregare una seconda volta.
Ogni sera lo devo pregare – e a volte costringerlo con la forza – per farlo rimanere con me.
Il suo cuore ha una ferita che non mi sento in grado di guarire, ma che sono sicuro possa combaciare con la mia.
Mi alzo dal letto, piano, per non svegliarlo. Perché so che se mai dovesse aprire gli occhi mi lancerebbe la prima cosa che gli capita tra le mani.
E di bernoccoli ne ho già abbastanza. In più in questo periodo ho degli strani dolori.
La mattina mi viene la nausea, e se non fossi uomo sospetterei di una gravidanza.
Poi senza preavviso spesso mi esce sangue dal naso, e mi stanco subito, qualsiasi cosa faccia.
Il medico ha detto che non è niente, solo stress, ma Arthùr ha insistito così tanto che stamattina andrò a fare le analisi.
Mi avvicino alla porta del bagno e la apro. Piano. Nella doccia c’è una ragazza. Si chiama Seychelles, vivremo insieme fino a che Arthùr non deciderà che la nostra relazione è abbastanza stabile per convivere.
O il suo cuore abbastanza forte da sopportare un’eventuale rottura.
La sua debolezza emotiva mi intristisce, perché non riesco a renderlo forte, ma al tempo stesso mi conquista.
<< Bonjour Seychelles! >> Mimo il gesto di togliermi il cappello non appena la vedo.
<< Ehy Francesino! Stanotte avete fatto baldoria tu e Arthùr >> Mi fa l’occhiolino.
Lei è una nostra fan. Dopo le tante persone che ci hanno ostacolati è arrivata lei ad appoggiarci.
E’ capitata nella nostra vita come manna dal cielo.
<< Spero di non averti disturbata mentre studiavi Mademoiselle >> rispondo mentre mi avvicino al lavabo.
Lei fa un gesto con la mano ed esce, avvolta in un asciugamano blu.
La guardo mentre si allontana. E’ proprio una bella ragazza.
A volte, quando Arthùr non c’è ci teniamo compagnia.
Ormai non è più un segreto la cotta che Sey prova per me.
Apro il rubinetto e inizio a sciacquarmi la faccia.
Quando alzo lo sguardo e noto la mia immagine nello specchio quasi non mi riconosco.
Sono sempre stato un bell’uomo, inutile perdersi in falsa modestia.
Capelli biondi, mossi, sulle spalle; occhi azzurri e profondi, perfetti per andare a caccia di sera; e una leggera barbetta che mi sto facendo crescere da un po’ di tempo a questa parte.
Mi dà un’aria più matura.
No, non è vero, lo faccio solo perché ad Arthùr dà fastidio che lo punga con i miei peli mentre ci baciamo.
In questo periodo però ho le occhiaie e il volto sempre stanco.
Lo tocco cercando di fare qualcosa per rimediare.
Non ho bisogno di andare da un medico per saperne il motivo. Il fatto è che ultimamente nessuna casa editrice vuole più pubblicare le mie storie.
Tutto questo perché la persona che amo non ha le curve morbide e i capelli fluidi.
Tutto questo perché la persona che amo è un uomo. E’ Arthùr.
Ora che si è sparsa la voce e che è uscito un articolo sul giornale nessuno vuole più saperne niente di me.
Ma io non mi arrendo e non mi lamento con Arthùr, anche perché non sarebbe una buona idea, permaloso com’è.
Ingoio tutte le offese e vado avanti. Finisco di lavarmi e vado in cucina, per preparare la colazione.
Faccio un po’ di caffè e metto sul vassoio – oltre ai biscotti ed al giornale – anche una rosa.
Ad Arthùr non piacciono le mie rose, ma io gliele regalo lo stesso.
Fanno una brutta fine, sì lo so, ma si sacrificano per la Patria, sono delle martiri.
Mi avvicino al letto e poso un bacio delicato su quelle altrettanto delicate labbra inglesi.
<< Bonjour Arthùr >>
<< Quante volte devo dirti di non chiamarmi così! Damn Frog! >>
Frog è il modo ‘’affettuoso’’ con cui mi chiama. Dice che sono una rana.
Io spero che lo dica perché vede un possibile principe in me, ma so che non è così.
<< Ti ho portato la col->>
<< Devo andare excuse me. >> Non mi dà neanche il tempo di finire, si alza dal letto e si richiude la porta alle spalle.
Ormai ci sono abituato, alle sue fughe, ma nonostante tutto ci resto sempre un po’ male.
Decido di vestirmi anche io ed esco di casa senza fare colazione, tanto devo fare le analisi.

Odio gli ospedali. Puzzano di tempo perso. Tanta gente che spreca momenti preziosi per farsi accertamenti che alla fine gli diranno che gli rimane poco tempo da vivere.
Una visione un po’ drastica di questi luoghi di sanità, lo so, ma è che ho una voglia tremenda di rivedere Arthùr e stare qui da solo mi deprime.
 << Venga signore, mi segua. >>
L’infermiera sembra Bielorussa. E’ carina in volto, ed ha un bel fisico. Forse in ospedale non è solo tempo sprecato.
<< Tu es très jolie mademoiselle >> Le dico mentre passa l’alcool sul mio braccio.
<< Non capisco quello che hai detto, ma da come l’hai detto sembrava un complimento >> Mi sorride.
<< Oui, era un complimento amour >> Ribatto contento che stia la gioco.
<< Come ti chiami, ragazzo? >> Il tocco con il cotone sembra diventato tutto ad un tratto più piacevole, quasi erotico. Con una faccia del genere tutto sarebbe eccitante.
<< Francis Bonnefoy Mademoiselle, ma devo fermarla prima che mi faccia proposte sconce parce-que sono un uomo occupato >> Là butto lì sul ridere, per non farla illudere quando..
<< Sai, Francis Bonnefoy, uomo occupato, io detesto i complimenti >>
E detto questo si vendica con l’ago.

Mentre mi massaggio all’incavo del gomito penso alla lezione che ho appreso stamattina: Mai far arrabbiare l’infermiera che ti sta facendo le analisi.
Anzi, no meglio, mai provarci con le infermiere, sono donne spietate.
I risultati me li daranno tra una settimana, spero che non sia la Bielorussa a consegnarmeli, sarebbe capace di tirarmeli direttamente in faccia.
Anche se una con il suo carattere sarebbe interessante a letto..
<< FROG! >> Una vocetta isterica mi riporta alla realtà.
<< Chenille >> Gli prendo la borsa dalle mani.
<< Sei in ritardo, sai che stacco di lavorare alle sei! >>
<< Scusa amour, ma ho perso tempo a contrattare.. >>
Alza le spalle. Sa quanto sia precaria la mia situazione lavorativa. Anche se non sa che è così a causa della nostra relazione.
Lui invece fa il ragioniere, un lavoro che non attira, ma che non dà neanche problemi.
Forse anche lui ha un sogno, ma forse non ha il coraggio di seguirlo come faccio io.
Lo guardo mentre tutto concentrato entra in macchina, imbarazzato dal fatto che gli tenga lo sportello.
<< Non devi farlo >> Borbotta. E’ diventato paonazzo.
<< Invece oui, è per farmi perdonare! >> Gli do un bacio sulle labbra e chiudo lo sportello.
La gente attorno a noi mormora, ma a me non interessa. Ad Arthùr sì però.
Nasconde il viso dietro la valigetta che si porta sempre a lavoro e inizia a piangere, cercando di non farmene accorgere.
<< Aujourd’hui è proprio una bella giornata. >> Non mi risponde, occupato com’è a reprimere i singhiozzi.
<< Ti andrebbe una gita al lago? >> Scuote la testa.
<< Perché no? >> Insisto mentre mi accendo una sigaretta.
Lui si asciuga gli occhi.
<< Fa troppo freddo. >>
Poi mi toglie la sigaretta dalla bocca e la lancia dal finestrino.
<< Era l’ultima >>
<< Sai che non mi và che fumi, Frog >>
<< Fumo perché mi innervosisci! >>
<< Se ti faccio questo effetto perché allora non mi lasci, eh? >>
Eccoci ritornati al punto di partenza. Quante litigate così ci sono capitate? Tante.
Ho sempre pensato che Arthùr sia un po’ masochista e che abbia paura di essere felice, solo perché una volta la felicità gli è stata negata.
Pensa di non averne più diritto. Ho forse ha paura che possa ricapitare. Non lo so e non lo saprò mai se non me lo dice.
<< Perché fai così? >>
Accosto la macchina e scendiamo.
Il sole sta tramontando e non è vero che fa freddo.
<< Ho freddo, torniamo a casa. >>
<< No se prima non ci chiariamo. >>
Mi guarda con aria di sfida ed io lo avvolgo nell’abbraccio più caloroso di cui sono capace.
Lui nota il cerotto sul mio braccio.
<< Hai fatto le analisi stamattina? >>
<< Oui, l’infermiera era una tale sadica.. >> Scuoto la testa.
<< Perché non me l’hai detto? >> Sembra offeso.
Di nuovo.
Mi stacco dall’abbraccio.
<< Perché non c’era bisogno che te lo dicessi visto che me l’hai preso tu l’appuntamento. E poi te ne sei andato prima che potessi chiederti di venire avec moi. >>
Lui si guarda la punta delle scarpe, in difficoltà.
<< Portami a casa. Ho freddo. >>

Il sole è svanito, il sipario della notte è calato e il disco dorato è andato a dare da supporto alla luna. Lei da sola non può brillare, ma lui sta dietro le quinte e l’aiuta, le fa prendere il merito nonostante sia lui a fare tutto il lavoro, e non si aspetta che la luna lo ringrazi.

Mi risveglio solo nel letto. E’ passata una settimana e Arthùr ancora non si è fatto vivo. A volte capita nel nostro rapporto che ci siano pause come queste. Ma ogni volta mi uccide. Suonare, invece mi strema. Meglio stanco o meglio morto? Non ho passato la notte solo però. E me ne vergogno. Sono un uomo debole. O un amante forte, ancora non l’ho capito. La bottiglia di vino è vuota sul mio comodino, anche le sigarette sono finite. Seychelles è andata a dormire da un’amica quindi per la serata ho dovuto chiamare una prostituta. Non mi piace ridurmi in questo modo. Mi alzo a fatica dal letto, una volta in piedi però le gambe non mi sorreggono e mi accascio al suolo.
<< Francis! >> Mani delicate, mani dolci che mi schiaffeggiano il viso per farmi rinvenire.
<< A.. Arthùr.. >> Un fiume di capelli neri mi avvolge. E’ Seychelles.
<< Mi hai fatto spaventare, cosa ti è successo? >>
<< M.. mi sono addormentato.. >> Si dice che un uomo medio menta dalle 9 alle 12* volte al giorno. Credo di superare di molto questa percentuale.

Eccomi di nuovo in ospedale, a pregare che non ci sia l’infermiera Bielorussa però.
Sono seduto sulla mia sedia, con il mio taccuino raccogli- idee in mano quando un’ombra mi sovrasta.
<< Salve, io sono il dottore Alfred. F. Jones. Ma mi chiami solo Alfred. Lei invece è? >>
Mi alzo e gli stringo la mano che mi porge.
<< Je suis Francis Bonnefoy Monsieur. >>
<< Giusto, c’è scritto anche sulla sua cartella clinica.. >> Si gratta la testa confuso e rilegge sulla cartelletta.
Un medico un tantino deficiente mi hanno mandato..
<< Presumo di si.. >>
<< Signore, scusi, può.. può venire con me nel mio ufficio? Vorrei parlarle. >>
<< Mais oui, non ci faccia l’abitudine però, sono un uomo impegnato. >>
A lungo andare questa battuta risulta squallida persino alle mie orecchie, ma non è ho un’altra e finché non l’avrò trovata dovrò accontentarmi di questa.

Il vento soffia sulla mia pelle. L’aria mi sembra più pulita del solito, il sole più limpido.
L’ospedale alle mie spalle ormai è solo un ricordo lontano. I fiori mi sorridono, per quanto sia strano che degli organismi senza volto lo facciano.
Mi arrivano risa di bambini alle orecchie. Non ho mai pensato di essere padre, non l’ho mai desiderato. Non ho mai considerato l’idea. Lo rimpiangerò?
Mi avvio a passi lenti verso casa, mentre il sole mi accarezza la pelle.
La Primavera è la stagione del Risveglio. Tutto è più vitale, tutto si riscalda.
Credo che ricorderò questa Primavera per sempre.

Mi fermo a comprare un mazzo di rose al negozietto vicino casa. Se Arthùr ha intenzione di farmi visita gliele sacrificherò, altrimenti le metterò sul davanzale della mia finestra a condividere con me i baci del sole. E’ immensa la gioia che provo quando vedo una testa bionda spuntare dal muro che circonda il palazzo. Forse paragonabile solo alla delusione di scoprire che quei capelli non appartengono al mio Arthùr. Dovrebbe tingerseli, così non rischierei di confonderlo. E di farmi prendere questo tipo di infarti.
<< Pensavi fossi io, eh Frog? >>
Di sicuro non ha l’aspetto di un angelo, ma per me è come se la sua voce fosse paragonabile solo a quella degli abitanti del cielo.
<< Oui, mais non era così. >>
<< E’ tanto che ti aspetto. >>
<< Oggi almeno non fa froid, hai solo preso un po’ d’aria fresca. >>
Non mi risponde, imbronciato com’è entra nel portone e prende le scale.
Resto un attimo inebetito a guardarlo, con le rose ancora in mano. Non pensavo che si ravvedesse tanto presto, in genere le sue “crisi” durano molto più tempo.

La luce del sole lo illumina mentre sta seduto sulla mia poltrona a sorseggiare il the. Lamentandosi di come è stato preparato. Io, seduto di fronte a lui, indosso il mio tipico abbigliamento da “artista fallito”. Cappello nero a scacchi grigi e verde acqua, sciarpa sul marroncino e cappotto nero. Sotto braccio tengo la cartella con i miei racconti e dietro l’orecchio una penna. Indosso anche gli occhiali, nonostante non ne abbia bisogno, ma mi danno un aura di mistero e fascino. Anche Arthùr la pensa così, ne sono sicuro. Solo non lo dà a vedere. Rimaniamo in silenzio a guardarci. Non perché non sappiamo cosa dire. O almeno io, io ne avrei tante di parole. Ma taccio, ho paura di rovinare tutto come mio solito. Dall’esterno sembra quasi che lo faccia apposta, ogni volta a trovare la cosa più sbagliata da dire nel momento meno adatto, per farlo fuggire. Ma non lo faccio volontariamente. E’ solo che non sono abituato a pesare e misurare le parole, così và a finire che ne esce una di troppo, e Arthùr dà in escandescenza. E ogni volta ci soffro, solo che la mia sofferenza si manifesta in modo diverso. Assomiglia tanto a quella che gli altri chiamano tranquillità. Sempre dall’esterno. Perché all’interno.. non dirò le solite frasi fatte sull’inferno e il dolore fisico. Perché non è così. Quello che provo io è una sensazione di gelo. Freddo, nel cuore, nel cervello. Le mani. Non mi sento capace di accarezzare più nessuno. Non mi sento capace, eppure lo faccio. Sfioro persone che non conosco, solo per ritrovare un po’ di fiducia, solo in attesa della guancia perfetta che è nata per riempire l’incavo della mia mano. Solo aspettando che Arthùr ritorni.
Quando il the che sorseggia finisce mi rendo conto che non ho più voglia di parlare.
Mi alzo e gli levo la tazza dalle mani, come suo solito lui si mostra infastidito, e come mia consuetudine ignoro tutto e proseguo, finché il risultato non sono due corpi nudi su un letto che non si vergogna di loro.

Ancora luce, ancora sole. Chiarore tenue, rossastro. E’ l’alba. Mi alzo lo stesso. Ho un appuntamento.
Guardo Arthùr dormire e un po’ mi dispiace lasciarlo solo così. Ma è per lui che lo faccio. Per noi. Mi vesto in silenzio, qualcosa di sobrio, una maglia nera aderente e un paio di jeans comodi. Il cappello però non lo lascio, mi rassicura. Prendo anche la borsa con i miei libri, mi aiuteranno a passare il tempo. Lego i capelli in una coda, ma prima mi cullo nello spazzolarli. Imbocco la porta e sono fuori.
Sul comodino ho lasciato un biglietto:

                                                                Ho degli incontri di lavoro, non torno per pranzo. 
                                                                 Ce soir puoi vendicarti come vuoi.


Ho il sospetto che la media delle mie bugie giornaliere si alzerà vertiginosamente in questo anno.
Guardo fuori dalla finestra mentre il tempo scorre.
I vari bip e flap scandiscono il mio tempo. Le rondini volano attorno agli aquiloni che i bambini reggono concentrati.
Le coppiette si danno la mano e si baciano.
Osservo le mie dita, e mi rattristo nel vedere che stringono il vuoto.
Una donna con la manicure appena fatta mi si avvicina, e mi prende il palmo della mano nelle sue, per vedere cosa non và.
Le sorrido e la mando via con un gesto. I suoi occhi castani mi guardano gentili. Sono verdi quelli che vorrei vedere. Ancora un po’ di pazienza mi ripeto.
Aspetto con ansia che il sole faccia il suo giro nel cielo e che firmi la mia uscita.
Aspetto il momento in cui potrò tornare a casa, aspetto il momento in cui le mie mani non saranno più vuote.

Un odore familiare mi accoglie alla porta. Bè non posso lamentarmi, dopotutto sono stato io ad istigare la sua vendetta con il mio biglietto. E’ una serata fresca, fresca come il mio animo. Mi sento bene. E male. Ma la parte negativa preferisco lasciarla perdere.
<< Spero che tu abbia fame >> Mi sorride sincero. Poverino, lui pensa che il suo cibo sia buono, ma solo perché non ho mai avuto il coraggio di confessargli quanto faccia vomitare. Sono l’unico per cui cucina, e nel bene o nel male questo è un privilegio destinato solo a me, perché rovinarlo?
<< Mais oui >> Due. Conto mentalmente il numero delle bugie che gli ho raccontato da stamattina. Non male per due che si sono visti giusto cinque minuti.
Vado in bagno a lavarmi le mani. Mi sciacquo anche il viso già che ci sono. Mi spruzzo un po’ di profumo e prendo una rosa dal mazzo che ho comprato tornando. Il resto glielo darò a letto. << Sembri stanco.. >>
<< Ho avuto una giornata stressante. >> Avvicino la forchetta alla bocca. Mi sopraggiunge un conato di vomito. Solo io so che non è dovuto alla pietanza.
<< Smettila di fare tante scene e mangia! >> Mi rimprovera la mia donnetta.
<< Un po’ di teatralità non guasta jamais. >>
<< Allora, cos’hai fatto oggi? >> Ecco una domanda senza via si scampo.
Uno scrittore racconta storie. E nessuna, o quasi, di quelle che racconta è mai del tutto vera. Inventare per me non è difficile.
<< Sono andato dalla persona più scorbutica di questo mondo. Tre. Mi chiedeva sempre il finale delle storie e io non glielo volevo dire. Quattro. Poi ho pranzato fuori, cinque e ho incontrato una cameriera con un fisico.. Sei … >> Lui si finge indignato.
Gli porgo la mia rosa, che subito raggiunge le altre nella spazzatura.
<< Sei troppo stanco stasera? >> Mi guarda preoccupato e guardingo.
<< Arthùr, je ne suis jamais fatigué quando si tratta di toi. >>

Ansimare, fermarsi, riprendere fiato all’unisono, accelerare il respiro per la stessa ragione. Sì credo che ricorderò questa Primavera per sempre.

Le giornate sono diventate più calde. E’ stato il periodo più bello della mia vita. Ma mi sono reso conto di non poter andare avanti così.
<< Anche oggi lavori? >>
<< Oui >> Uno. La mia coscienza si sente sporca.
<< Non è che per caso fai altro? >>
<< Cos’altro dovrei fare Arthùr? >>
<< Non hai risposto. >> I suoi occhi verdi mi penetrano. Sembrano in grado di scrutare il mondo. Eppure non riescono a leggere la menzogna nel mio sguardo. Si fida di me ormai.
<< No, devo solo lavorare. >> Due. Altre domande, altre bugie. Quando esco di casa ho perso il conto.

Siamo nel letto.Il suo respiro è con il mio. Il suo cuore è con il mio. La sua mente ormai è con me. Se gli chiedessi di convivere adesso accetterebbe. E’ quello che ho sempre sognato. Ora non credo che sia la scelta migliore. La Primavera, la stagione del Risveglio, non ha risvegliato in me l’intelligenza.
Mi sento in un vicolo cieco. Solo che non sono sicuro di voler fuggire. Latitare nel buio forse mi piace. Ma continuando così prima o poi consumerò la strada. Non voglio consumare Arthùr.

<< Arthùr? >>
<< Mi passi il pane? >>
<< Arthùr? >>
<< Ti ho chiesto il pane! >>
Sembra prossimo alle lacrime.
Da un po’ di giorni la situazione è diventata invivibile. La tensione uccide entrambi. Solo che Arthùr non sa a cosa sia dovuta. Immagina solo a dove porterà.
<< Arthùr, il pane è proprio vicino a te. >>

Sento la sua testa sul mio petto. I capelli mi solleticano, così come la mia barbetta stuzzica il suo braccio. Ho il respiro sfiancato. Ormai amarlo è diventato troppo faticoso. Non voglio che debba andare a finire così la nostra storia. Meglio serbarne un ricordo migliore.
<< Arthùr, dormi? >>
Non sono l’unico a mentire in questa casa.

<< Allora, perché non me lo dici? >>
Avevo preparato un discorso. Il caldo sta diventando insopportabile, l’Estate ci tiene a preannunciarsi.
Le mie mani sono fredde, il mio cuore è freddo.
Ho preferito congelarlo, e stamparci dentro il ricordo di Arthùr e non farlo sciogliere dal dolore per fargli dimenticare tutto.
<< Arthùr.. >>
Tenta di trattenere le lacrime. Sa quello che voglio dirgli. Ma mi fa continuare, vuole farmi parlare.
<< Arthùr.. >>
La prima lacrima scende a rigargli la guancia, traccia il percorso che dovranno seguire le altre, và in avanscoperta.
<< Arthùr, non credo che dovremmo frequentarci. >>
Arthùr, sono malato.
Il percorso è stato tracciato, ormai non resta che seguirlo. Piove, su quel magnifico viso, piove. Ma non è una di quelle piogge che danno dà bere ai fiori. No, questa è una pioggia che deve lavare. Deve lavare via il mio ricordo dalla mente di Arthùr, deve lavare i miei baci dalle sue labbra, deve fargli dimenticare quanta sofferenza gli ho provocato. Il mio volto invece è arido. Il mio volto non ha energie sufficienti per sostenere la pioggia. E allora preferisce l’aridità. Arthùr non mi chiede perché. Non mi implora di restare. Semplicemente se ne và, così come dovrebbe essere, così com’è. Se ne và e io mi sento più leggero. Quanto pesa il cuore?
  
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