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Autore: Valpur    19/02/2011    4 recensioni
Come nelle fiabe, no? "C'era una volta"...
Ma anche no. Niente principesse, niente elfi, fatine, cavalieri, niente bei tenebrosi o unicorni o draghi. Niente. Nada de nada.
In compenso nell'iperuranio c'è chi si annoia di brutto. Anzi, magari si annoiasse.
E così succede che le frustrazioni degli Immortali vanno a riversarsi su qualcuno di molto, molto sfigato e inadatto.*Storia scritta in occasione del NaNoWriMo 2010*
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le ore successive potevano comodamente essere annoverate tra le più drammatiche della sua breve vita.

Aveva trasformato un’area di superficie non trascurabile in zona inavvicinabile; fortunatamente era riuscita a controllare le coliche evitando così di  insozzare ulteriormente i vestiti, già abbastanza laceri, contusi e sporchi.

Quando, ormai svuotata di ogni sorta di metabolita di cibo appartenente al millennio successivo (il solo pensiero le mozzava il fiato in gola), di liquido dissetante e, auspicabilmente, anche di ogni possibile parassita, riuscì finalmente a restare in posizione eretta per più di cinque minuti e a muovere qualche passo esitante, il sole era già alto, seppur celato dietro il velo sottile di nubi bianche.

Le girava la testa, aveva la vista annebbiata da tanto era debole; la bocca le sembrava foderata di moquette, impastata e impregnata di un sapore davvero pessimo.

Con l’impressione di avere la testa infilata dentro un casco da motociclista particolarmente imbottito si avviò nel bosco, dando le spalle a quel dannato lago che le aveva causato tutto quel malessere. Aveva ancora sete, anzi, ne aveva pure più di prima, ma non osava bere.

Se tutto fosse andato secondo i suoi calcoli approssimativi, continuando in quella direzione sarebbe arrivata al villaggio. Forse. Possibilmente. Era da sperare.

L’unica cosa che poteva fare nel frattempo era mettere con cautela e ostinazione un piede davanti all’altro, aggrappandosi a ogni sostegno che riusciva a raggiungere e non mollare, non mollare mai. Se fosse caduta non si sarebbe rialzata.

No, in realtà le venne in mente che c’era qualcos’altro che poteva fare. Per l’esattezza doveva inventarsi una scusa plausibile per la sua presenza lì.

Ovviamente, pensò, nessuno la conosceva. E in un piccolo centro già questo era complicato, visto che un estraneo poteva sempre rappresentare un qualche tipo di minaccia. A questo bisognava aggiungere poi il suo abbigliamento bizzarro, assolutamente fuori luogo in un periodo come quello che si trovava –inspiegabilmente- a vivere.

Tra l’altro… come era arrivata lì? Aveva attraversato, per caso, un varco spazio temporale? Sapeva, lo aveva letto, che chi è particolarmente sensitivo può percepire l’assottigliarsi del velo della realtà in corrispondenza delle grandi feste del sole (appunto, equinozi e solstizi, le tradizionali feste celebrate dai celti in tempi remoti); era però convinta che tale passaggio potesse avvenire solo in alcune zone speciali, come i cerchi di pietre o i templi delle civiltà precolombiane… insomma, lo sapevano anche i sassi che gli antichi erano molto più esperti e pratici in queste faccende metafisiche. Lei  però era entrata dalla porta di casa, di questo era sicura! Aveva percorso il vialetto della scuola, poi il tratto di strada fino alla curva e da lì aveva persino attraversato il proprio stesso giardino. E poi era entrata in casa. Solo che non era più casa sua, ma la stamberga di una vecchia incartapecorita e tutta strana.

Le palpebre le bruciavano e si sentiva gli occhi pulsare; un mal di testa agghiacciante le premeva contro le tempie. Probabilmente le stava salendo la febbre.

Sara si sforzò di allungare il passo. Avrebbe dovuto raggiungere il villaggio il prima possibile; in questo modo, almeno avrebbe potuto risolvere il primo dei problemi: i vestiti.

Ci mise quella che le sembrò un’eternità; quando finalmente, con i polpacci insanguinati e terra e fango infilati dappertutto, riuscì a intravedere i tetti malconci delle case più vicine il sole non era più allo zenith.
Sara si acquattò tremante dietro un cespuglio; c’erano voci e suoni, troppi per poter osare un movimento. Si accasciò tra i rami dell’arbusto, leccandosi le labbra secche. Tremava. In realtà, se ripensava alle ultime, deliranti ore, le sembrava di non aver fatto altro che piangere e tremare. E star male, pure.

Chiuse gli occhi cercando di controllare il feroce capogiro. Escludendo dalla vista tutti i dettagli irrilevanti riuscì a identificare l’inatteso suono di acqua corrente.

Un torrente! Quella poteva essere la sua salvezza!

Si alzò appoggiando le mani a terra; spine e sassi le graffiarono i palmi, ma ormai non ci faceva neanche più caso. Lentamente, quasi strisciando, seguì quel suono cristallino.

Il luccichio dell’acqua in corsa la sorprese, e fu un bene: la aiutò a notare il gruppo di donne chine sulla riva, intente a chiacchierare a gran voce e a cantare.

Sara si nascose alla meglio e le osservò. Quasi tutte portavano fazzoletti legati sulla testa a celare i capelli; indossavano abiti di colori spenti, marrone e color lana non tinta. E non sembravano particolarmente pulite, anche se osservate da alcune decine di metri.

Guardando meglio, Sara notò che erano impegnate a battere e immergere nell’acqua grosse sagome indistinte. Le ci vollero alcuni minuti, ma alla fine comprese: stavano facendo il bucato!

Bene, questo rendeva l’acqua, da quel lato di fiume, assolutamente imbevibile. O forse no, ma Sara non osava rischiare dopo l’esperienza della notte. D’altro canto, però, se fosse riuscita a rubare dei vestiti…

Si sentiva troppo debole per tentare la mossa; inoltre sarebbe stato poco utile: sarebbe passata per ladra (cosa che, a conti fatti, sarebbe stata se si fosse comportata come si prefiggeva) e avrebbe solo finito con l’aggravare i propri problemi. L’ideale, insomma. Ma aveva bisogno di abiti.

Quasi in misericordiosa risposta alle sue esigenze, qualcosa di bianco fluttuò verso di lei e la superò lentamente. Nessuna delle donne più a monte sembrava essersi accorta della perdita.

Era un’occasione impedibile. Sara si mise a correre inciampando ovunque e facendo, ne era certa, decisamente troppo rumore. Ma era necessario farlo.

Fu fortunata. Il lembo di stoffa bianca si impigliò in un ramo sporgente. Sara si lanciò ad afferrarlo prima che le donne la raggiungessero.

Si infilò sotto braccio il fagotto inzuppato e scappò veloce. Appena in tempo: ridendo e sbuffando alcune donne lasciarono il loro lavoro e seguirono la corrente del fiume per recuperare quanto perso.

Ma Sara era lenta… così lenta… si strinse al petto la stoffa e si acquattò tra l’erba alta, pregando di non essere vista. Non era a più di venti metri dalle lavandaie, che, perplesse, guardavano il corso d’acqua.

“Sarà andato ancora più in giù, andiamo a cercarlo”, le sentì dire.

In fretta si allontanarono. Sara si accorse di aver trattenuto il fiato. Ora che il pericolo più immediato si era allontanato si permise il lusso di aprire il fagotto. Era una specie di sottoveste, bianca, a maniche lunghe, piuttosto accollata. E bagnata come una spugna. Un buon inizio, ma sicuramente non sufficiente.

Ricominciò a risalire il fiumiciattolo, tenendosi a debita distanza dalle donne. Il torrente si inoltrava tra le case, quindi sarebbe stato impossibile bere senza essere vista.

La bocca era riarsa, le bruciava persino la gola da tanta sete aveva. Ma doveva darsi delle priorità.

In paese risuonò il suono di una campana. Attirate da quel richiamo, le donne al fiume raccolsero i loro cesti, attesero le altre che si erano allontanate e se ne andarono verso le case.

Sospirando di sollievo, Sara attese qualche istante e si precipitò al fiume, lanciando attorno occhiate preoccupate. Si inginocchiò sulla riva umida poco oltre il punto in cui venivano lavati i panni e bevve.

L’acqua era gelida ma abbastanza buona: non aveva il sentore paludoso di quella del lago che aveva bevuto la sera precedente. Bevve fino allo sfinimento, tanto che la sua vescica le ricordò la propria esistenza e la spinse ad accucciarsi tra la vegetazione per liberarsi.

E da lì si accorse di un’eventualità meravigliosa. Le donne che aveva visto, ma anche gli uomini –contadini con i loro attrezzi, uomini a cavallo, un omone col grembiule di pelle- stavano sciamando via dal paese, diretti tutti sulla strada di terra battuta al centro del villaggio. La campana continuava a suonare. Sara seguì il suono con lo sguardo e notò la chiesetta posta in alto rispetto alle case.

Stavano andando a messa! Poveri, stolti villici superstiziosi, pensò, schiavi di una religione che li umiliava e puniva i loro stessi istinti! Stolti villici utili, però: le strade erano praticamente deserte.

Le ci vollero alcuni minuti per raccattare tutto il coraggio necessario. Ma alla fine riuscì, pur tremante, ad avvicinarsi alla prima casa visibile. Rimase addossata al muro posteriore per un tempo indefinibile, le orecchie tese, ogni muscolo –debole e sfinito- pronto allo scatto.

La casa puzzava di escrementi anche dall’esterno, ma non era particolarmente diversa dalle altre.
In punta di piedi fece qualche passo e si alzò sulle punte per sbirciare dall’unica finestra presente sul retro. Vuota, grazie alla Dea! E non solo: di fianco era steso un cavo di corda, su cui penzolavano vestiti appena lavati. Erano tanti, tuniche e sopravvesti e persino calze.

Sara si precipitò in avanti, agguantò la veste più brutta che le riuscì di trovare e un fazzoletto bianco e, terrorizzata dalla propria stessa audacia, tornò a nascondersi sul retro. Tremava tanto che i vestiti le caddero di mano dritti in una pozzanghera, infangandosi.

Poco male, pensò: più credibile.

Lo stomaco, in quel momento, riprese a brontolare. Si umettò le labbra, posò a terra i vestiti e si sporse di nuovo dalla finestra. Non si vedeva molto, il sole entrava di sbieco a quell’ora del pomeriggio. Però tanto valeva provare.

Nascose con la punta del piede il fagotto di vestiti tra l’erba e tentò di aggirare l’edificio. Non aveva ancora superato l’angolo che udì il suono di zoccoli sulla strada. In fretta e furia tornò a nascondersi, giusto in tempo per vedere un uomo a cavallo di un magro asinello grigio passare per la strada.

Sara sentiva il respiro uscirle a rantoli soffocati. Le era andata appena bene!

Ok, niente cibo, almeno per ora. Sarebbe stato proprio il caso di cambiarsi, già che era lì. I vestiti andavano dal fradicio pulito al quasi asciutto-sporco, ma non ci fece molto caso. Strizzò la sottoveste bianca e la stese per terra. Un po’di sporco non poteva che aiutarla nel non far riconoscere abiti che aveva, comunque, appena rubato alle legittime proprietarie. Si chinò per recuperare il fagotto dall’erba e si intravide nella pozzanghera. Il trucco ormai era andato via, restava solo l’impressione di occhiaie particolarmente profonde. I capelli erano un vero disastro.

Era necessario darsi una mossa: si tolse giubbotto e maglietta, gettò via la gonna e si rivestì tremando. Non faceva particolarmente freddo, ma era malata e la sensazione della stoffa umida sulla pelle era davvero fastidiosa. L’abito le era stretto in vita e sul seno. Ovviamente c’era poco di cui lamentarsi. Si legò il fazzoletto in testa, sentendosi l’ultima delle massaie sfigate.

Ormai poteva dire di essere a posto. Abbassò lo sguardo e si vide i piedi. Gli anfibi non c’entravano assolutamente nulla con il resto dell’abbigliamento.

Riluttante se li levò. I piedi si erano già rovinati per la camminata: fiacche e vesciche sul tallone e sui lati spiccavano laddove il cuoio aveva sfregato contro la pelle. Le spiaceva abbandonare le scarpe: le adorava, e se usate con le calze erano anche comode.

E così, sporca, scalza e malvestita, si sentiva davvero una mendicante. Forse, si fece presente da sola, però, l’ultima cosa che le rimaneva da fare era proprio quello: mendicare.

Sentendosi meno appariscente si concesse, titubante, di passare non già per i boschi e le fratte ma per la via principale.

Il paese era vuoto. Quasi vuoto, visto che nelle stalle di fianco ad alcune abitazioni dei cavalli macilenti e qualche asino sporco agitavano le code per scacciare nugoli di mosche.

Sara rabbrividì mentre il sole calava. Avrebbe potuto… no, dai, questo le faceva davvero troppo schifo. Ma aveva freddo, e l’istinto di autoconservazione prevalse sull’impulso schizzinoso. Si intrufolò in una delle povere stalle e trovò un mucchio di coperte. Raccolse l’ultima, l’ultima nella pila, evitò i denti gialli di un mulo poco felice dell’intrusione e scappò via.

La coperta era di lana calda, puzzava tremendamente di stalla ed era di un indefinito color marrone grigiastro. Se la avvolse attorno alle spalle e si sentì subito meglio.

In quell’istante, dalla chiesetta cominciarono a defluire i fedeli. Sara sgranò li occhi come un animale braccato. Stavano tornando!

Si infilò nello stretto vicolo tra due casupole e si tirò la coperta puzzolente fin sulla testa.

Non si sentiva assolutamente pronta a farsi vedere da quella gente. E doveva anche inventarsi una storia plausibile!

Nessuno sembrò notarla mentre le passava di fianco ad alcuni metri di distanza.

Una storia. Devo pensare a un motivo per cui sono qui, senza un soldo, vestita da barbona, affamata e malconcia.

Era una donna e viaggiava da sola. Questo le fece ricordare vagamente una vecchia lezione di storia… come aveva detto la prof? Che il ruolo della donna nel corso dei secoli era cambiato, che ora si poteva votare ma prima no, che la donna in passato era considerata solo moglie e mamma e...

E una donna in giro da sola sarebbe stata malvista! Chissà cosa potevano farle!

Bene, si disse: se in quell’epoca una donna non era giustificata ad andare in giro da sola, tanto valeva approfittarne. I briganti le sembrarono subito un’idea adeguata. Lei era in viaggio coi genitori, che erano… erano… che razza di mestiere faceva la gente, in quel periodo? I mercanti esistevano? Eh, avrebbero fatto i mercanti, doveva andare bene. E i briganti li avevano attaccati e uccisi e lei era scappata come una matta. Qualcuno, diamine, si sarebbe impietosito e le avrebbe dato da mangiare e da dormire!

Il villaggio era deserto, almeno per il momento. Sara fece un paio di rapidi calcoli, neanche particolarmente complicati: sì, era domenica. Ecco spiegata l’affluenza della popolazione alla messa.

Si prese qualche istante. La strada vuota si dipanava tra casette tutte uguali, o almeno così a lei sembrava, bassi edifici di pietra sporca di terra coperti da un tetto di quello che sembrava legno. Tra le travi, qua e là, sbucavano ciuffi di erba rinsecchita. I polli razzolavano nelle piccole aie delimitate da palizzate un po’sbilenche. Il loro chiocciare e il becchettio sul terreno sembravano essere onnipresenti, interrotti di quando in quando solo dal ragliare di un asino o dall’offeso belato di qualche capretta al momento non visibile.

Le case sembravano pulcini raggruppati attorno alla chioccia rappresentata dalle spesse mura alte decine di metri che cingevano la collina. Lassù, in cima, Sara riusciva a scorgere un edificio massiccio e sgraziato, pietra grigia e spigoli squadrati. Dei vessilli rossi sventolavano nel cielo grigio pallido dell’autunno.

Si avvicinò alla chiesa, più incuriosita che altro. Non ci sarebbe entrata, non lo faceva da anni… da quando aveva visto la luce, in sostanza, abbandonando una fede che non le apparteneva, seguita per abitudine e per coercizione da parte della famiglia, per seguire invece la vera Verità, la sua Dea, il ciclo delle stagioni e la dolce madre terra.
Era una costruzione piccola, goffa,  con la base larga e piccoli contrafforti a reggere i muri spessi e poco eleganti. Un accenno di campanile si innalzava per pochi metri dalla navata, in corrispondenza dell’abside, e all’interno di un foro a forma di semicerchio allungato faceva mostra di sé una campana di metallo brunito, ormai di colore quasi verde-azzurro.

Iniziava ad avere freddo ai piedi. Un  crampo alla pancia le ricordò ciò che aveva dovuto affrontare non più di poche ore prima. La sottoveste era ancora tremendamente umida e si stava facendo sgradevolmente fredda, incollata alla pelle. Passò lentamente, mantenendosi ad alcuni metri di distanza, davanti alla porta d’ingresso della chiesa. Solo in quel momento si accorse che dietro l’edificio si estendeva una lunga cerchia di mura basse e coperte di edera, con, all’interno –questo riusciva a vederlo distintamente- una specie di capannone, di dormitorio con tante finestrelle molto piccole. Non vide nessuno a quelle finestre e non si preoccupò più di tanto della loro natura.
Mentre ripercorreva lo stesso tragitto avanti e indietro, quasi attendendo che qualcuno uscisse da messa, guardò dentro la chiesa. Decine e decine di persone –così, a occhio e croce quasi un centinaio- erano in piedi, a testa doverosamente china, ascoltando le voci armonizzate di un coro di persone che non riusciva a vedere.

Sull’altare ardevano tante candele che circonfondevano di luce dorata una figura vestita di nero  e gettando sulla testa calva di suddetta persona bagliori lucenti.

Sara sbuffò dal naso, stringendo le labbra con disprezzo.

Poveri idioti, non avete capito nulla. Siete voi, voi i bigotti ignoranti che hanno cercato di bandire la mia Signora da questa terra! Voi, con le vostre preghiere e i chierichetti e i riti che avete rubato alla vera religione… è un miracolo che la Dea non si risenta con voi e non inaridisca i vostri campi e le vostre mogli! Blasfemi incapaci di Vedere, per voi non provo altro che pietà!

Il canto smise lentamente, perdendosi in un mormorio non esattamente sincrono.
L’uomo all’altare, evidentemente il prete, declamò qualcosa alla platea, che, questo Sara lo capì, rispose in coro con un “Amen” pieno di borbottii e colpi di tosse grassa.

E poi Sara sentì rumore di piedi che camminavano, abiti che strusciavano e panche che venivano mosse sul pavimento.

La messa era finita, e lei doveva assolutamente spostarsi! Si guardò in giro in preda al panico e fece per andarsene, quando un nuovo crampo le strinse le viscere in una morsa incandescente. Sentì distintamente il sangue defluirle dal viso e la pelle diventare bianchiccia e sudata, si strinse le braccia al ventre e si accasciò a terra, proprio di fianco al portone. Proprio nel momento in cui una fiumana di gente iniziava ad abbandonare la chiesa.

Sara, pur piegata in due dal dolore (e pregando ardentemente di riuscire a trattenere le budella al loro posto invece che sparpagliarle in giro come le era già capitato di fare) alzò gli occhi verso la gente.

Erano tutti vestiti poveramente, con gli stessi colori smorti che indossava lei –solo che tendenzialmente, e soprattutto gli uomini, erano molto meno puliti. C’erano donne col fisico cascante e stuoli di bambini di varie età e a vari livelli di sudiciume e moccio al naso, uomini con i cappelli in mano e le unghie sporche di fango, e persino –cosa che la spaventò non poco- quattro energumeni con strane armature che sembravano fatte di anelli metallici e farsetti rossi al di sopra. In mezzo a loro riuscì a malapena a intravedere una donna con i capelli coperti da un velo bianco e con un abito verde scuro al braccio di un signore di mezza età con la barba grigia ben curata.

Qualcuno le lanciò uno sguardo distratto e passò oltre, sospinto dalla massa delle altre persone dietro di loro. Dopo qualche momento la folla si dissipò e gli ultimi fedeli, in coda dietro la massa di gente, le sfilarono davanti più lentamente.

Sara si contorse leggermente, la testa che le girava leggermente, appoggiò una mano al muro e fece per alzarsi quando qualcuno le toccò la spalla.

“E tu chi sei?”

   
 
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