Capitolo 1
"Tyler ..." la voce di Aidan continuava a blaterare informazioni
senza senso che avrei fatto bene a tenere in mente, ma non era proprio
giornata. A dirla tutta, non era giornata da un anno.
Micheal era morto da un anno e la mia famiglia aveva organizzato una cerimonia
di commemorazione davanti alla sua tomba. Ci sarebbero stati tutti ma proprio
tutti, per quel figlio tanto amato. Mia madre e il suo nuovo marito, di cui
facevo sempre fatica a ricordare il nome da un anno a questa parte, da quando
cioè i miei migliori amici erano diventati Tequila e Camel. Ci sarebbe stata la
mia adorabile e adorata sorellina Caroline, la nostra piccola artista, un
talento immenso racchiuso in un corpo così piccolo. E ci sarebbe stato anche
lui, Charles, l'unico uomo sulla faccia della terra a portare degnamente il
nome degli Hawkins, secondo un suo medesimo parere. Era dal giorno seguente il
funerale di mio fratello che non lo vedevo, quando ero andato a prendermi
quelle due o tre cose che Micheal aveva deciso di lasciarmi: i suoi libri, la
sua chitarra, tutto quello che nostro padre gli aveva negato in nome di un
successo e di un futuro solido e sicuro, ma che a Mike andava troppo stretto.
"Tyler" continuava imperterrito il mio coinquilino "ricordati
che questa settimana tocca a te occuparti delle pulizie di casa, non ho
intenzione di vivere in un porcile". Diceva così ogni settimana, ma il suo
turno non arrivava mai ed io non avevo certo intenzione di fare il lavoro anche
per i suoi porci comodi. Certo, in quelle condizioni l'unica compagnia che
potevamo permetterci sarebbero rimasti dei topi di fogna, ma l'importante era
che la mia camera da letto fosse rimasta pulita ed il bagno fosse decente per
le notti brave. Generalmente si accontentava di uno sgabuzzino con un letto a
castello, ma in certe occasioni, anche se brilli, ci si tiene a fare buona
figura. Il mattino se ne andavano tutte prima ancora che preparassi il caffè, dunque
non era necessario che la cucina fosse poi così pulita ... lungi da me
soffermare il mio sguardo su un paio di calzini sporchi e bucati che
misteriosamente erano finiti sul tavolo insieme ai rimasugli dell'ultimo
Mexican Party di Aidan.
"Tyler" qualche giorno quella bocca gliel'avrei chiusa per sempre
"in libreria ti hanno spostato il turno a questo pomeriggio" "va
bene" risposi, sperando che la smettesse.
"Ah, e butta la spazzatura prima che esci" "Va bene" era
diventato assillante peggio della vecchia zia Gertrude da cui passavo le
vacanze da bambino. "Tyler" ancora "e stasera si va fuori"
... come se non uscissimo mai "ho scoperto un nuovo localino che devi assolutamente
vedere...ci sono andato con Samantha l'altra sera: è una ficata! Cioè...a dir la
verità sono andato con Joe della classe di letteratura, ti ricordi quel pazzo
che non la smetteva di limonare con quella cessa di Annie alla festa di
compleanno di Bree...Dio che schifo, non ci posso pensare che mi viene ancora
il voltastomaco!!! Comunque siamo andati con Joe e ho visto che Samantha lavora
come barista lì allora ho attaccato bottone e ho passato il resto
della serata al bancone con lei. In realtà c'era mooolto altro da vedere ma,
amico, capisci che non potevo fare niente davanti Samantha, è troppo che
me la lavoro ... allora ci andiamo stasera vero?" "Va bene"
risposi molto passivamente, sicuro di non sbagliare, mentre inzuppavo fiaccamente
un biscotto nel latte.
"Tyler, me lo fai un ultimo favore?" sentiamo, basta che ti levi
dalle scatole il prima possibile "te ne vai a fanculo?" "Va
bene" risposi; mi accorsi dell'immane figura di merda che avevo fatto solo
quando il biscotto che avevo in mano si disintegrò e si tuffò nella tazza,
imbrattando la mia unica camicia bianca. Imprecai verso tutti i santi del
paradiso. L'unica camicia bianca pulita con cui dovevo andare alla
commemorazione di mio fratello...fantastico!
"Tyler la devi smettere!" imprecò Aidan, tornando sui suoi passi
"non puoi vivere il resto della tua esistenza in questi stato di catatonia
pura. Cazzo hai 22 anni! Svegliati, esci, c'è un mondo là fuori!"
Ecco come far incazzare Tyler Hawkins.
Presi la tazza di latte e la rovesciai ancora piena nel lavandino, con i
biscotti spappolati che andavano a depositarsi attorno allo scarico. Presi una
birra dal frigo e iniziai a berla praticamente a stomaco vuoto, senza curarmi
nemmeno di dove fosse finito il tappo. "Ti sembra che io non faccia
esattamente il tuo stesso genere di vita? Non perdiamo una festa, bevo e vomito
l'anima una sera sì e l'altra pure e nel mio letto ogni mattina c'è una ragazza
diversa. Cazzo vuoi da me?"
"Voglio che la smetta di vivere nel rimorso, nel dolore, che ti lasci alle
spalle il passato, perché non torna indietro Tyler e lo sai meglio di me ..."
probabilmente si rendeva conto che insistere con me sulla questione era una
battaglia persa, ma lui era l'unico ad essermi stato davvero vicino quando
avevo iniziato a dare segni di cedimento dopo la morte di mio fratello e gli
avevo chiesto di stimolarmi, sempre, senza arrendersi. Mi aveva detto tante
volte che prima o poi probabilmente avrebbe perso le speranze, mi avrebbe
lasciato per strada, a leccarmi le ferite come un cane abbandonato; speravo che
non sarebbe mai arrivato quel giorno, anche se sapevo di meritarmelo.
Mi seguì verso la scalinata anti incendio su cui la mia camera da letto si
affacciava e dove puntualmente mi mettevo a riflettere in quei momenti di oblio
totale. Mi accesi una sigaretta e aspirai come se fosse aria pulita di
montagna, come se mi purificasse fin dentro l'anima. Ed invece mi uccidevo ogni
volta, con le mie stesse mani; ma era una droga, non ne potevo più fare a meno.
E non certo ero immerso nella radura più verde e lussureggiante: attorno a me,
il traffico newyorkese completava il senso esalazione necrofila, come se quelle
immagini che avevo perennemente davanti agli occhi non mi facessero
sopravvivere ... vivere è una parola troppo grande ... come se fossi
perennemente dentro una bara.
"Così ti riempirai il vestito di ruggine!" osservò il mio coinquilino
mentre cacciava il suo muso fuori dal finestrone. Gli feci notare, con un ampio
gesto delle mani, che peggio di come stavo messo non poteva andare, e
sinceramente non è che me ne importasse più di tanto. Le uniche persone per cui
valeva la pena di rendersi presentabile erano mia madre e mia sorella, per loro
solo avrei fatto uno sforzo. "Senti amico" continuò "vorrei per
un attimo che ti guardassi allo specchio ... sei una persona così intelligente,
affascinante, tutti sanno che le ragazze che mi porto in giro ci stanno perché
è te che vogliono, e sei anche ricco. Tu puoi sfondare cazzo! Non mandare la
tua vita a puttane ... so che Michael non lo vorrebbe"
"Micheal non lo vorrebbe ..." ripetei la sua frase con un'espressione
di sfida "tu, tu che cazzo nei sai COSA AVREBBE VOLUTO mio fratello? Lui
aveva la nostra età, voleva ciò che vogliamo noi oggi. Ed invece no, mio padre
gli ha tolto tutto in nome del successo. Io non li voglio quei soldi macchiati
del suo ... sangue. Mi fanno schifo!"
Aidan capì che forse non era il caso di andare oltre; in fondo, cos'altro si
poteva aggiungere?
Mi lasciò solo, in balia dei miei non pensieri.
Riuscii ad evadere dal pranzo di famiglia con la scusa del lavoro alla
libreria, in tempo utile da non trovarmi davanti mio padre. Sapevo che mia
madre e Caroline ci sarebbero rimaste male, ma non mancava mai il tempo per
andarle a trovare, con la sicurezza che nessuno sguardo inquisitore mi
squadrasse da capo a fondo per valutare quanti soldi stavo scalando da suo
conto corrente. Mio padre sapeva benissimo che non usavo i suoi soldi da quando avevo
superato la soglia della maggiore età, che mi ero ritagliato una certa
indipendenza con sacrificio per non doverne manovrare, eppure non mancava di
farmi ricordare dai suoi assistenti ... perché non aveva nemmeno le palle o il
tempo di farmi una telefonata, lo stronzo ... chi è che mandava avanti
responsabilmente la baracca di famiglia, una baracca da 10 milioni di dollari
di fatturato annui. Ci incrociammo però di sfuggita, mentre mi defilavo tra un
"sei bellissimo" di mia madre e "ti puzza l'alito di birra"
di mia sorella. Mi vide e mi fece cenno di fermarmi, mentre continuava la sua
conversazione al telefono ... il suo broker era sempre venuto anche prima di
sua moglie ... ed io feci in tempo ad imprecare un paio di volte prima che mi
raggiungesse.
"Non l'avevi una
cravatta?" mi chiese, senza neanche salutarmi. Erano un anno intero che
non ci sentivamo né vedevamo e lui mi chiedeva della cravatta,
tipico. "Ciao papà!" risposi, con la speranza che cogliesse
tutto il
mio disprezzo. "Non rispondi?" continuò ancora lui. “Per
farci cosa
esattamente? Legarmela al collo come ha fatto tuo figlio?” Non
avrei voluto
dirlo perché, prima che ferire lui, avevo ferito me stesso, ed
il ricordo che mi
ero giurato di cancellare era tornato a galla, prepotente, come quella
morte
inutile che me l’aveva strappato.
Lo lasciai con un palmo di naso davanti all’ingresso
della cappella del cimitero, mentre giuravo a me stesso che mai più sarei
tornato in quel luogo di tormento ed incubo, e non avrei più pianto.
Micheal era vivo, nel mio
cuore, nella mia memoria.
Do not stand at my grave and weep.
I am not there, I do not sleep.
I am a thousand winds that blow,
I am the diamond glints in snow,
I am the sunlight and ripened grain.
I
am the gentle Autumn rain.
Mio fratello era in tutto ciò che
poteva dirmi che anch’io ero vivo: nello scorrere delle stagioni, nel soffio
del vento, o in ogni piccola cosa che cambiava e diveniva intorno a me.
Tuttavia, nel lasciarmi dietro quel
posto mi voltai, nell’intento di scorgere qualcosa, per l’ultima volta.
Purtroppo, per quanto potessi andare avanti con quelle menate poetiche, la
verità era un’altra. Potevo sforzarmi quanto volevo a far rivivere mio fratello
in me, ma restava sempre quella pietra fredda e bianca, piantata sopra quella
collina in lontananza, all’ombra di quel grande acero che ormai, con l’inverno
alle porte, aveva creato un caldo manto di foglie gialle e rossicce. E poi ci
sarebbe stata la neve. Ed io questo non lo potevo fermare. Ed ero di nuovo
punto e a capo.
Per quanto mi sforzassi, per quanto io
potessi lottare, non riuscivo a trovare uno scopo per cui valesse la pena di
vivere. E per morire … beh, per quello avevo troppa paura.
Mi sforzai di fingere un certo
entusiasmo, mentre percorrevamo le stradine buie di un quartiere a caso di New
York, già decentemente brilli, tuttavia non abbastanza per dimenticare come si
cammina. La serata si era avviata con una cena cinese nel ristorante sotto
casa, ed ancora mi stupivo di non averne abbastanza considerando che
quell’odore pregnante di fritto si era insediato persino nelle assi di legno
del nostro pavimento. Probabilmente sarei morto di cancro prima dei 50 anni, ma
almeno avrei potuto dire di aver battuto il record mondiale di biscotti delle
fortuna.
Aidan mi trascinò, saturo di birra e
Maotai, fino a quel locale che si vantava tanto di aver scoperto, insieme ad
una manica anonima di gente che si portava perennemente appresso. Non mi
interessava sapere in quale remoto e malfamato angolo del Bronx eravamo finiti,
purché mi avesse riportato a casa sano e salvo. Garantiva ottimi cocktail e
divertimento per tutti i gusti, il resto non mi interessava.
L’ingresso del locale era piuttosto
nascosto, senza grandi insegne, il che mi fece dubitare della buona fede del
mio compare, che probabilmente era strafatto nel momento in cui vi aveva messo
piede la prima volta. C’era un solo cartello, scritto a mano tra l’altro, che
ricordava il divieto d’ingresso ai minori di 21 anni. Almeno quello …
Entrando, l’atmosfera ed il tipo di
musica mi fecero capire in che razza di posto ero andato a finire. Uno strip
club. Non che mi considerassi un verginello, una bella ragazza non si disdegna
mai, e non è certo tanto bello usare la mano per “scaricarsi”, ma quel genere
di cose andava ben oltre il mio senso del divertimento. Le ragazze che si
dimenavano come ossesse attorno a quei pali erano tutto fuorché sensuali, e non
ci voleva l’FBI per capire che la maggioranza di loro erano minorenni o
clandestine, bastava dare un’occhiata in giro, o guardare i loro volti per
davvero, non come quei porci bavosi che stavano li a guardarle, e ogni tanto
manovravano con le mani sulla patta. Dio che schifo!
Pregai con tutto me stesso, semmai ci
fosse stato un Dio pronto ad accogliere le mie preghiere, visto che cose come
queste mi facevano dubitare della sua reale esistenza, che Aidan non decidesse
di sedersi vicino ad uno di quei cosi per esibirsi. Ed invece, deficienti fino
al midollo, andammo a sederci al bancone del bar, dove alcune ragazze stavano
mostrando i loro tanga ad un gruppo di turisti cinesi allupati. Per un attimo
mi venne da ridere: finalmente vedevano una vera donna, chissà cosa le avrebbe
aspettati a casa.
Come si dice: i coglioni vanno sempre
in coppia; sì perché, se Aidan aveva già iniziato a fare il cretino con la
ragazza del bar (che a quanto pare non si chiamava Samantha ma Veronica), io
gli andavo appresso come un automa, incapace di decidere cosa fosse meglio per
me, sebbene la testa mi urlasse a gran voce di andarmene da lì. Tutto indicava
guai, dalle luce rosse e basse, alla musica provocante ed incalzante, fino alla
puzza di sudore del grassone vecchio e pelato che mi stava di fianco. Ed invece
rimasi lì, seduto sul mio sgabello, a fumarmi una sigaretta e a bere il
Margarita peggiore della mia esistenza.
“Ehi dolcezza” urlò Aidan ad una delle
ballerine di lap dance che stavano sculettando sul bancone. Ad altri sarebbe
parso ubriaco ed invece, strano a dirsi, quella voce da alcolista era
perfettamente naturale. “Perché non fai compagnia al mio amichetto?” disse
indicando me “è un po’ giù ultimamente … vedi tu di fargli tornare il sorriso”.
Vaffanculo. V.A.F.F.A.N.C.U.L.O. Era
l’unica parola di senso compiuto che mi venne in mente in quel momento. Mi
strofinai le mani sugl’occhi e alzai lo sguardo verso la ragazza che era
davanti a me, che batteva ritmicamente il piede sul bancone. Calzava un paio di
scarpe bianche con la zeppa ed il tacco enormi, quelli che sotto la suola hanno
stampato il marchio T.R.O.I.A. Salendo notai delle bellissime gambe bianche,
questo dovevo dargliene atto, enfatizzate ancora di più dal tacco esorbitante,
ma purtroppo le calze a rete la rendevano più volgare di quanto non fosse.
Volli sorvolare con lo sguardo su quanto venne dopo, perché l’abbigliamento
serviva piuttosto a scoprire che nascondere. Dov’era finita la finezza e la
sensualità del vedo-non-vedo?
Mi portai con gli occhi sul suo volto
ed, incrociando lo sguardo, si chinò verso di me, fino a sedersi sul piano. Avanzò
lentamente verso lo sgabello spingendosi verso di me, a gambe aperte, fino a
cadermi letteralmente addosso. Prese dalla mia bocca la sigaretta che avevo
acceso, l’ennesima della serata, ed aspirò profondamente. Per quanto disgustassi
quel posto, per quanto il lavoro che quelle ragazze facevano (per scelta o
costrizione) mi facesse dannatamente schifo, rimanevo comunque un uomo, sui cui
lombi si era appena accomodata una bellissima ragazza dal fare estremamente
provocante, ed io ed il mio fratellino non riuscivamo proprio a rimanere
indifferenti; soprattutto quando lei, probabilmente accortasi della mia
“costrizione” portò di nuovo tra le mie labbra quella sigaretta, pregna ora del
suo sapore. Quella fu la mia morte. Iniziai a sentire caldo, e non era un bene.
“Allora …” mi disse “che ci fa un bel
ragazzo come te tutto solo, eh? Non ce l’hai una ragazza?” “Non la voglio una
ragazza” risposi, fingendomi annoiato dalla situazione più del dovuto, sperando
che capisse che non era proprio aria. “Bene” continuò lei, schiacciando il suo
piccolo seno, coperto praticamente da 5 cm di stoffa e qualche laccio, al mio
petto “perché altrimenti stasera la piccola dolce Mallory … che sarei io … non
potrebbe coccolare il bel … come hai detto che ti chiami?”. Evidentemente
quella sera doveva recitare la scolaretta; chissà quante altre parti aveva
dovuto interpretare: infermiera, poliziotta, indiana … la fantasia maschile in
questo campo sa essere alquanto vasta. “Tyler … ma credo che stasera la piccola
Mallory dovrà rimanere a bocca asciutta” così dicendo presi la mia giacca di
pelle che avevo appeso allo schienale della sedia e, alzandomi, me la infilai, facendo
scendere dal mio cavallo la ragazza.
In piedi era leggermente più bassa di
me, il che significava che doveva essere davvero piccola, considerando che quei
trampoli l’alzavano di 20cm. Era minuta e magrissima, quasi anoressica. Ma quel
culo … potevo far finta di nulla quanto volevo, ma quel culo sarebbe comunque
rimasto una favola.
Mi si avvicinò, di nuovo, e la vidi
giocare con le mani birichine con i bottoni della mia camicia, fino a
raggiungere il taschino dove avevo le sigarette. Nel prese una e l’accese con
quella che io stavo fumando.
“E così ti vendi per una sigaretta,
piccola Mallory?” scherzai con lei. “Per chi mi hai presa?” mi riprese
scherzosamente, spintonandomi leggermente, e riportandosi a sedere sul bancone.
“Volevo solo evitare di perdere … un compagno di giochi … vorrà dire che
chiederò a qualche maestro di farmi delle ripetizioni” mi disse guardandosi in
giro, e notai che posò il suo sguardo su un tizio poco più in là, che meno di
60 anni non poteva averne ma, dall’orologio che aveva al polso, sembrava anche
abbastanza infagottato. Non potevo credere che per soldi sarebbe stata capace
di andare con quello lì ma, probabilmente, era il suo unico modo per mangiare.
Forse non esattamente decoroso ed onesto, ma i suoi occhi parlavano chiaro:
Mallory, o come cavolo si chiamava, aveva fame.
Non so se fosse per proteggerla da
quel pappone, se per gelosia o per pura competizione maschile, ma quello che
feci un minuto dopo, mentre la vidi allontanarsi per raggiungere quell’uomo,
andava ben oltre i miei piani.
La seguii e la bloccai per un braccio.
“Senti … io non so cosa … fai … esattamente, e non so nemmeno se ho soldi a
sufficienza per il tuo … spettacolo … ma non andare da lui”. Lei si avvicinò di
nuovo a me, in parte incredula, in parte divertita; “stai con me” sussurrai, ad
un passo dalle sue labbra, tanto si era avvicinata. Sorrise, ancor più
compiaciuta di aver ottenuto ciò che voleva “la piccola Mallory è davvero
contenta sai, non vede l’ora di giocare con te”.
Sentii gli incitamenti di Aidan e
degli altri ragazzi di quella comitiva sgangherata, attutiti dalla musica ad
alto volume e dal chiacchiericcio concitato della folla del locale, ma non feci
caso a loro; l’unica cosa che sentivo era il contatto con le sue mani, che
aveva intrecciato alle mie, mentre mi guidava verso una scala a chiocciola in
ferro, in un angolo buio del locale. Preferii non pensare a cosa sarebbe
successo di lì a poco, a come ne sarei uscito: in quel momento sentivo davvero
di aver fatto la cosa giusta. L’avevo salvata dall’ennesimo porco, almeno per
quella sera.
NOTE FINALI
Ho deciso che d'ora in avanti i miei commenti a inizio capitolo non ci saranno per lasciarvi di immergere nel capitolo totalmente e non influenzare in alcun modo la vostra lettura, e lo stesso quelli alla fine.
Nel testo troverete i link per le canzoni che mi ispirano e di volta in volta noterete la corrispondenza del titolo con una canzone che rispecchi il tema del capitolo. Per qualsiasi domanda possiate avere sappiate che vi aspetto nella pagina dei commenti e nella pagina Facebook che è a vostra totale disposizione.
Vi ringrazio per l'ampio consenso che già solo il prologo ha ottenuto. Spero di poter ripagare le vostre aspettative con questo capitolo.
à bientot
Federica