Ero
una bambina a quel tempo. Al tempo della nostra promessa, di quella che ti feci
io, certa di poterla mantenere e che tu, forse per tenermi contenta, forse
anche per gioco, accettasti sorridendomi.
Ero solo una bambina – è vero.
Ma forse era proprio perché ero una bambina che non capisti quello che volevo
esprimere con le mie parole, quello che realmente desideravo.
Lo ricordo chiaramente, quasi fosse ieri. Eppure avevo soltanto otto anni.
Onestamente, ora che ci penso, credo che fosse incominciato tutto da quel
momento.
Primavera. 15 Maggio, 1861. Edo.
Quel pomeriggio di primavera ero andata con la zia Kin a raccogliere dei fiori.
Erano circa le due. Di solito a quell’ora, dopo aver pranzato con la mamma, mi
stendevo sul futon e la ascoltavo mentre suonava il flauto tanto divinamente
come soltanto lei sapeva fare.
Ma non quel pomeriggio. Perché quel pomeriggio sarebbe arrivato un ospite. Un
ospite molto importante.
Tu.
E io lo sapevo. Lo sapevo perché c’era un motivo per cui la zia Kin era venuta
tutta entusiasta, bussando alla nostra porta e aveva iniziato a ridacchiare con
la mamma di non so cosa sin dalla mattina del nostro incontro.
“Mitsu. Mitsu, presto, sbrigati. Apri la porta”. La voce della zia era
penetrata già all’interno della casa. Era schiamazzante e maledettamente
squillante, nonostante, normalmente, fosse piuttosto tranquilla e composta,
quando parlava.
Da un certo punto di vista, il fatto che anche lei vivesse ad Edo era comodo
per la mamma, in modo che non si sentisse sola, ma dall’altro punto di vista,
un po’ era seccante averla tra i piedi sempre e comunque per un motivo o per
l’altro.
Mi piaceva la zia Kin, ma… starci a contatto per troppo tempo mi rendeva
isterica come lei.
La mamma, allora, accorse verso l’ingresso e dopo aver indossato gli zoccoli,
aprì la porta scorrevole in legno. Come di legno era fatta l’intera struttura.
Non appena la porta si aprì, la zia le saltò letteralmente al collo,
abbracciandola.
“Oh-! Kin, ma che succede? Che ti prende, così di mattina presto?”
“Oggi arriva. Oggi viene, finalmente”
“Oggi viene? Chi viene? Di chi stai
parlando?” le chiese lei, con tono perplesso.
“Ma di Soji! Di chi, sennò?” cinguettò, allegra, lei.
“Souji?” . Mia madre sembrò perplessa ed allo stesso tempo sbalordita. “Com’è
possibile che venga qui, ad Edo? Lo sai, no, delle voci che circolano sul suo
conto?”
“Sì che ne sono a conoscenza. Proprio ieri me ne ha parlato mio marito. E non
solo riguardo questo. Mi ha detto anche che proprio perché si sta pensando di
nominarlo capo-allenatore alla Sheikan, ha degli affari da svolgere qui ad
Edo”.
“E allora? A maggior ragione non potremo incontrarlo. Non soltanto perché
nostro fratello verrà ad Edo, significa che potremo cogliere l’occasione per
vederlo” . Mia madre lo disse con un tono di velata malinconia, quasi di
circostanza. A parer mio era suo grande desiderio poterti rivedere, dopo tanto
tempo, ma non voleva illudersi che potesse accadere, ora che ne aveva la
possibilità. Ci sarebbe stata ancora peggio.
Ed anche io. Perché anche io non ti incontravo da tanto tempo. Ed anch’io, come
lei, avevo davvero voglia di rincontrarti.
“Ed è qui che ti sbagli, onee-san” la corresse la zia, scotendo la testa, per
poi sorriderle cercando di rincuorarla. “Guarda qui” . E dalle maniche del suo
kimono ne estrasse un pezzo di carta arrotolato su sé stesso, che le mostrò
subito. “E’ una lettera. Una lettera da parte di Souji”
“Una lettera?”. La mamma si stupì ancora di più della notizia, per poi prendere
il foglio di carta in mano e fare segno alla sorella di entrare.
Io, che stavo aspettando proprio nel soggiorno, educatamente seduta al
tavolino, le vidi arrivare nella stanza dove alloggiavo per svolgere i miei
compiti e sedersi accanto a me.
Dopo avermi salutato con una carezza sulla testa, la zia tornò a dedicare
attenzione alla mamma, avvicinandosi per dare un’occhiata alla lettera che lei
aveva già iniziato a leggere.
Non nascondo che la cosa mi infastidì ed anche tanto. Anche io volevo sapere
cosa c’era scritto. Volevo sapere cos’avevi scritto alla mamma, alla zia, o,
semplicemente, se ti ricordavi ancora di me. Della tua nipotina che tanto ti
adorava.
“Non è giusto, oka-san!” , brontolai, esprimendo così il mio disappunto. “Anche io voglio sapere che cosa dice la
lettera!”
“Oh, cara…” . La zia mi guardò con aria intenerita. “Ma se non ricordi neanche
di chi si tratta”.
“Invece sì! Si tratta dell’onii-san!” . Lo affermai sicura e decisa. Era vero,
avevo soltanto otto anni, ma non ero stupida. Anche se vagamente, ricordavo la tua
figura di quando avevi giocato con me, molto tempo prima.
Purtroppo, però, la tua immagina era sfocata e il tuo ricordo troppo poco
vivido.
Beh, ma suppongo fosse comprensibile, dato che l’ultima volta che ti avevo
incontrato era all’età di quattro anni, nel 1857.
“Oh! Te ne ricordi, allora? Non pensavo davvero…” ammise lei. Ne dedussi che
non se lo aspettava.
Devo essere sincera. Forse, in quell’occasione, più che interessarmi il ricordo
di te, volevo dimostrare alla mamma e, soprattutto, alla zia che non ero una
sciocca e che, anche se ero piccola, dovevano trattarmi da grande.
Semplicemente, odiavo essere trattata da mocciosa che non capiva nulla di
niente. Volevo essere trattata da grande. Mi piaceva. In qualche modo era come
se ciò potesse darmi importanza.
“E va bene”. La mamma mi sorrise, mentre si voltava verso di me e si schiarì la
voce, preparandosi così a leggere la famosa lettera, diventata il fulcro del
discorso di quella calda e serena giornata di maggio.
“Cara Mitsu-onee-san,
recapito la lettera a te, dato che i messaggeri che adopero ti conoscono e, in
particolar modo, conoscono anche tuo marito.
Questa volta l’ho affidata ad un messaggero che dovrebbe farti arrivare, se
tutto procede come previsto, questa lettera, o il giorno prima o entro il giorno
stesso del mio arrivo.
Sì, sto venendo ad Edo. Non sto qui a spiegarti la ragione del mio viaggio sin
lì, ma sappi che verrò per incontrarti. Per incontrare te e Kin.
Ho fatto di tutto perché questa lettera potesse arrivarti a tempo debito, in
modo da trovarvi in casa, quando sarei passato per salutarvi, ma non si può mai
sapere.
Spero davvero che tutto vada come previsto.
Se succederà nel primo pomeriggio sarò da te.
Nel caso non dovessimo, però, incontrarci, vorrei solo dirti che, purtroppo,
non so quando potrà capitare nuovamente un’opportunità del genere. So per certo
che ci sarà molto lavoro da sbrigare per me, quindi… Non so davvero.
Avrò fede nel sperare di trovarvi.
Souji” .
La mamma inspirò, dopo aver finito di leggere la lettera e sorrise tra sé e sé.
“Non cambia mai. Decide tutto e programma tutto per conto suo, senza tenere conto
delle esigenze degli altri”.
La zia, allora, sospirò. “Non ci si può far nulla. E’sempre stato così,
d’altronde”.
Lei annuì. “Su, dobbiamo prepararci. A breve sarà qui e non ho preparato nulla
da offrirgli. Sarebbe scortese, non trov…”. Ma non concluse la frase, perché
incontrò il mio sguardo basso e l’espressione scontenta e scontrosa sul mio
volto.
“Hikaru?” mi chiamò, un po’ preoccupata, chinandosi sulle gambe, per farsi più
vicina a me. “Tutto a posto? Cosa c’è che non va?”
“Niente” sillabai io, girando il volto dalla parte opposta a quella di lei, per
evitare che notasse la mia delusione.
“Ne sei sicura?”
“Sicurissima!”.
Dissi così, ma in realtà ci ero rimasta davvero male. Immaginavo che per te
fosse più importante rivedere le tue sorelle, ma non pensavo che ti saresti
dimenticato di me.
La verità era che non sentire il mio nome in quella lettera mi aveva delusa
davvero tanto. La presi a male, in un certo senso. Mi offesi.
La mamma, anche se facevo la sostenuta, capii subito che c’era qualcosa che non
andava e, molto probabilmente, capii anche di cosa si trattava.
“Kin” chiamò la sorella, mentre si rialzava, ignorando il mio comportamento
“apparentemente” strano. “Potrei chiederti un favore?”
“Mh? Di che si tratta, onee-san?” chiese lei, che si stava adoperando per
preparare le tazze da tè che sarebbero servite al momento opportuno.
“Vorrei che andassi a raccogliere dei fiori. A questa casa ci vuole un tocco di
colore. Inoltre, lo sai, avremo un ospite. Un po’ di fiori non guasterebbero”.
“Dei fiori, eh? D’accordo. Il tempo di sistemare questo servizio da tè e ci
vado subito”.
“No, non preoccuparti. Al servizio ci penso io, tu sbrigati ad andare nel
giardino qui vicino. Non ci vorrà molto prima che nostro fratello arrivi”.
“Oh?” . Inizialmente rimase sorpresa da quell’affermazione della mamma, ma poi
vi si adattò, senza fare troppe storie. “Come vuoi tu, anche se non capisco
perché hai tutta questa fretta”.
“Oh… Nessun motivo in particolare” . Il tono della mamma era quello della finta
tonta, ma, anche se volevo atteggiarmi a fare la grande, non lo capii, dato che
infondo avevo solo otto anni.
“A proposito. Dato che non c’è nulla che non vada, Hikaru, perché non accompagni
la zia?” .
Lo fece apposta. Ne sono tuttora certa. Lo chiese in quel modo e con quella
premessa, proprio affinché non rifiutassi. E, se l’avessi fatto, le avrei
dimostrato che ero dalla parte del torto. Questo potevo ancora capirlo, anche
se ero così piccola.
“Va… Va bene” acconsentii, io, alzandomi e prendendo la mano della zia, per poi
seguirla fuori di casa e raggiungere con lei la nostra destinazione.
Il giardino fiorito di cui aveva parlato la mamma e nel quale andavo spesso a
giocare con gli altri bambini che avevo conosciuto per strada, vicino la mia
casa, non era molto lontano, ma distava abbastanza dalla casa dove abitavamo
noi. Effettivamente, si trovava più vicino casa dalle zia Kin, che risiedeva in
una zona meno centrale della città e più esterna. Un sobborgo – se così si
poteva definirlo. Anche se non era esattamente il termine più appropriato.
Beh, poco importa questa cosa. Ciò che davvero contava era che non appena vidi
quel giardino pieno di tanti bei fiori profumati e colorati, la delusione, la
tristezza e il risentimento che avevo provato fino a poco prima, fu come
svanito nel nulla.
“Oh!! Che belli! Sono spuntati dei nuovi fiori!” esclamai, contenta, notando
con piacere che le lavande erano fiorite.
Ce n’era voluto di tempo. Le avevo aspettate per tanto tempo, dato che erano –
e sono tuttora – il mio genere di fiore preferito.
Forse la mamma lo aveva fatto a posta. No, ne ero quasi certa. Mi aveva mandato
lì per farmi sentire meglio e rincuorarmi, perché lei lo sapeva bene che quel
giardino e quei fiori erano in grado di farlo.
Avevo sempre adorato i fiori. Sempre.
“Oh, hai ragione, Hikaru-chan. Sono fiorite le lavande” notò la zia, piegandosi
sulle ginocchia, di fianco a me, che stavo praticamente distesa a pancia in giù
ad osservare e a sentire il profumo di quel fiore.
“Mm!” . Annuii, sorridente. “Sono belle, vero?”
Lei mi assecondò, annuendo e ricambiando il mio sorriso. “Sì, davvero
bellissime”.
Restammo in silenzio per un po’, io ad osservare il fiore e la zia ad osservare
me, che, però, in quell’attimo non me ne accorsi. O, semplicemente, feci finta
di non accorgermene.
“Che c’è?” domandai, quando, però, notai che il suo sguardo era costantemente
fisso su di me.
“Mh? Oh, niente. Proprio niente” cercò di sviare lei, per poi sorridermi ed
alzarsi in piedi, strofinandosi il kimono per pulirlo dell’erba che vi si era
attaccata. “Che ne dici, Hikaru-chan? Raccogliamo questi fiori? Se ci
attardiamo ancora un po’ tua madre se la prenderà sia con me che con te. E non
vogliamo mica che ci sgridi, giusto?”.
Dunque, la mamma era sempre stata un angelo ai miei occhi. Una persona dolce,
posata, composta e dai modi gentili. Ma l’idea di essere rimproverata da lei mi terrorizzava. Perché
sì, poteva anche essere comprensiva e dolce, ma era anche molto severa. E
quando voleva che una cosa si facesse bene, c’era poco da fare: si doveva fare
come diceva lei.
Non ce l’avevo con lei per quel motivo. Sapendo che mio padre era sempre fuori
per il lavoro importante che compieva, era lei che si doveva occupare della mia
educazione. Era un suo compito e lei, per natura, non vi sarebbe venuta meno.
“No!” scossi la testa vigorosamente, per poi imitare il gesto della zia e
seguirla, mentre andava per raccogliere qualche primula.
Il silenzio tornò a regnare, mentre sia io che lei ci prodigavamo per
raccogliere quanti più fiori potevamo.
“Anche se non si direbbe piacciono anche a lui, sai” . La zia spezzò il
silenzio, forse perché un po’ imbarazzata, o semplicemente perché non poté fare
a meno di fare quel commento.
“Lui…?”
“A nostro fratello” .
All’onii-san?
Pensai istintivamente.
Allora anche all’onii-san piacciono i
fiori?
“E sai… Gli piacciono proprio i fiori che piacciono anche a te”
“Vuoi dire…?”
“Esatto” mi interruppe, sorridendomi di cuore, prima che potessi finire la
frase. “La lavanda. Da piccolo, almeno,
adorava davvero tanto il profumo che emanava la lavanda”.
“Mmm…” . Agli occhi della zia, feci finta di ignorare quel suggerimento. Perché
sì, lo era indubbiamente.
Mi stava implicitamente consigliando di raccogliere qualche lavanda per te, per
renderti felice. Ma in un primo momento l’idea di renderti felice non mi
allettava.
Volevo che la pagassi per non avermi tenuta presente, quando avevi scritto la
lettera. Volevo che capissi come mi ero sentita a non essere presa in
considerazione.
Ero una bambina che quando aveva a cuore qualcuno, pretendeva che quel qualcuno
tenesse a me tanto quanto io tenevo a lui.
Solo crescendo, cominciai a rendermi conto di questo.
E forse ancora tuttora non me ne resa conto, sino in fondo.
“Hikaru-chan, è ora. Dobbiamo tornare a casa” mi avvisò la zia, avvicinandosi a
me e piegandosi sulle ginocchia. “Su, dammi la tua parte. Hai raccolto davvero
tanti fiori, brava. Ma non puoi portarli tutti tu. E’ troppo per una bimba come
te”.
“No… Ce la… faccio…” cercai di ribattere, provando a dimostrare quanto valevo,
ma effettivamente erano troppi ed, alcuni, troppo lunghi, così persi
l’equilibrio e caddi all’indietro.
Alla scena, la mia cara zietta non trattenne una risatina. “Come volevasi
dimostrare” constatò dopo avermi aiutato ad alzare e avermi dato un bacio sulla
fronte. “Tutto a posto? Ti sei fatta male?”
Io scossi la testa, per rincuorarla. “No! Sto bene! Però… mi dispiace…”
affermai, mortificata, accorgendomi che, cadendo, avevo sparpagliato tutti i
fiori che avevo raccolto per terra.
Un altro risolino da parte della zia. “Non preoccuparti. Ci penso io”.
“Ma… Ma non puoi! Anche tu hai raccolto tanti fiori. E poi peseranno anche per
te!”
“Oh, non preoccuparti. La tua zietta è forte. Se la caverà!” mi rassicurò lei,
che, effettivamente, non trovò alcuna difficoltà a raccogliere tutti i fiori in
pochi secondi e a rimettersi in piedi col sorriso sulle labbra.
“Su, andiamo, Hikaru-chan”
“Mh!” annuii, io, incominciando a seguirla, d’istinto.
Proprio nel seguirla, però, incrociai le lavande che avevo visto all’inizio,
quando eravamo appena arrivate nel prato-giardino.
Mi fermai un attimo ad osservarle, mentre la zia (non sapevo se, consapevole o
meno della cosa) continuava a percorrere il tragitto verso casa, incurante del
fatto che mi fossi trattenuta lì.
Gli piacciono le lavande…
Era l’unica cosa che mi passava per la mente in quel momento.
Proprio come piacciono a me.
Mi rendeva felice quella constatazione. Non sapevo perché, ma forse era
predestinato. Un’anticipazione di tutto ciò che sarebbe venuto e che da lì a
poco sarebbe conseguito. I miei
sentimenti per te non erano ancora vivi perché ancora non ti conoscevo bene,
come avrei voluto in seguito, ma la mamma mi aveva parlato tanto di te e delle
tue imprese e del fatto che fossi una persona eccezionale.
La mamma ti voleva davvero tantissimo bene. Teneva davvero tanto a te. E forse
sono state proprio le sue rappresentazioni della tua figura ad esaltarti in
quel modo.
Forse, in effetti, mi ero innamorata di te, ancora prima di conoscerti per
quello che eri veramente.
Forse… Potrei raccoglierne qualcuna…
Pensai, apprestandomi ad afferrare lo stelo di una lavanda.
E poi… Non è detto che debbano essere per
lui. C…Certo! Sono per me! Queste lavande sono per me!
Volevo convincermi di questo, ma in realtà era facilmente intuibile che non
era così.
Lo capì anche la zia che, dopo averla raggiunta, commentò con tono sarcastico:
“Oh-! Qualcuno ha cambiato idea, eh?”
“Io… Non è così! Queste sono le mie
lavande. Piacciono a me!” . Arrossii, mentre lo dicevo e la zia non trattenne
un nuovo risolino.
“Certo, certo, sono per te”.
“Sì… Sono per me…” continuai a borbottare, abbassando lo sguardo, ormai rossa
come un papavero, stringendo al petto le lavande miste a delle fresche
margherite di campo.
Perché sì, si è davvero onesti, quando si è bambini.
Ci mettemmo poco ad arrivare a casa, sicuramente meno di quanto c’avevamo
impiegato per andare sino al prato fiorito.
Quando arrivammo davanti la porta, io feci per aprirla ed avvisare la mamma che
eravamo tornate, ma la zia mi fermò: “Aspetta, Hikaru-chan”.
“Mh? Che c’è?” chiesi io, perplessa.
“Non entriamo da questa parte”
“Eh?”
“Andiamo dall’altra”.
“Ma… perché?”
Lei mi sorrise. “Se conosco bene mia sorella, presto lo scoprirai”.
Io, di tutta risposta, la guardai con aria interrogativa. Proprio non capivo a
che cosa si stesse riferendo. E che cosa significava poi quel “se conosco bene
mia sorella”?
Voleva che entrassimo dalla parte della casa che dava sull’esterno?
Certo, era la parte più carina della casa, dato che all’esterno vi era il
piccolo giardino che curava mia madre e il laghetto di carpe. Un luogo
tranquillo in cui passava anche del tempo a suonare il flauto.
Possibile che si trovasse lì a sistemare il giardino? Poteva anche darsi. Forse
era quello che intendeva la zia.
Volevo convincermene, ma davvero non sapevo come districarmi dalla faccenda.
Ormai, quasi raggiunta la parte esterna della casa, fin troppo curiosa, decisi di capirci qualcosa anche io: “Zia, ma
perché stiamo facendo tutto questo gir…”.
Non riuscii a finire la frase. Davvero non ci riuscii.
In quel momento smisi di fare tutto.
Di mantenere i fiori che avevo tra le braccia, facendoli cadere a terra.
Di fare domande curiose e forse anche insensate alla zia.
Forse smisi anche di respirare, per qualche secondo.
Il mio sguardo era fisso, incatenato a te. Te, che eri seduto accanto alla
mamma, con una gamba distesa in lungo per terra, mentre l’altra era piegata e
vi ci poggiavi sul ginocchio un gomito. L’altra mano invece era aperta e il
palmo aderiva perfettamente al legno della veranda esterna. I lunghi capelli castani, leggermente
tendenti al rossastro, erano raccolti in un’altrettanto lunga coda di cavallo
che ti scendeva lungo la schiena. Il volto dai lineamenti gentili era intento a
prestare attenzione alla figura della mamma che ti versava del tè fumante nella
tazza posta sul vassoio, a sua volta poggiato per terra. Gli occhi verde foglia
si concentravano sui dango che
facevano d’accompagnamento al tè e quel sorriso tipico di chi aveva un’aria
serena e quasi divertita, dipingevano il tuo volto come su di una tela.
Eri bello. Bello proprio come mamma ti aveva sempre descritto. Bello come ti
avevo sempre disegnato nella mia fantasia, come ti immaginavo. E, forse, anche
come ti ricordavo da quando ero ancora più piccola di allora.
Talmente bello che non riuscivo a distaccare il mio sguardo da te. La bocca era
rimasta leggermente semi-aperta e per poco non mi scappò un sonoro: “Ohhh----!”.
Dio solo sa come feci a trattenermi.
“Oh? Ara!Ara! Siete tornate finalmente! Stavo incominciando a preoccuparmi”
ci accolse la mamma, con un sorriso, accorgendosi della nostra presenza.
“Infondo vi avevo solo mandato a raccogliere dei fiori” si giustificò,
pacatamente, per poi andare incontro alla sorella e prenderle dalle mani il
mazzo gigantesco.
“Oh, e sembra che abbiate fatto anche un ottimo lavoro”.
“Hmph! La prossima volta, se vuoi, vacci tu!” insinuò, umoristicamente la zia,
per poi fingersi offesa.
“Gokurosama deshita, Kin-chan!”
affermò una voce maschile e leggermente sonora. La tua. Era divertita. La voce
di chi stava scherzando, o forse di chi stava prendendo in giro qualcuno.
“Oh, ma guarda chi c’è. Il mio fratellino famoso” . La zia si avvicinò a lui
senza fargli troppe feste. Una volta che ti fu davanti, incrociò le braccia al
petto. “Avanti, chi ti credi di essere per prendere in giro così tua sorella
maggiore?”
Tu non trattenesti un risolino e ti ponesti verso di lei sia con aria che con
tono sfacciato e impertinente: “Mmm… Forse, ma non ne sono sicuro, Jukutou (capo-allenatore) alla Shieikan?”
“Are!? Vuol dire che ti hanno fatto
conseguire il titolo?” . La zia era sbalordita.
“Beh, era quasi certo che fosse così” rispondesti tranquillamente, scrollando
le spalle. “Ormai era stato tutto deciso”.
“Oh! E dire che sei soltanto un moccioso di diciassette anni!” sbuffò lei. Per
un po’ fece finta di fare l’offesa, per poi sorridergli e correre ad
abbracciarlo. “Oh, Souji! Mi sei mancato così tanto!”.
La sua esuberanza non finiva mai. Tra tutti i componenti della famiglia Okita,
forse lei era senz’altro quella più vivace di tutti. Quella che portava un po’ di
allegria. Persino tu, che eri sempre allegro e avevi la risposta pronta a
tutto, gli eri secondo.
“Omedeto” proseguì, dopo che tu le
accerchiasti la vita e ricambiasti il suo abbraccio.
Anche la mamma, con i fiori in mano, vi si avvicinò e ti sorrise di cuore. “Sì, omedeto gozaimasu, Souji”.
“Arigatou, Mitsu-onee-san,
Kin-onee-chan”. Un sorriso si dipinse sulle tue labbra rosee e gli occhi
esprimevano quella gioia e quella serenità che raramente avrei rivisto in te.
In quel momento odiai la mamma e odiai anche la zia.
E, molto probabilmente, odiai, anche se per pochissimi secondi, anche te.
Odiai loro due perché potevano godere del tuo sorriso e delle tue attenzioni. E
odiai te, perché non avvertivi la presenza mia e dei miei occhi, colmi d’amore,
che non facevano che osservarti. Osservarti ancora da lontano e sperare che ti
accorgessi di loro.
Ma non fu così.
Non sei stato tu ad accorgerti di loro.
“Ehi, Hikaru” mi chiamò quella voce gentile e tranquilla. La voce di mia madre
che, sorridente come al solito, si era resa conto che non mi ero mossa da
vicino il laghetto delle carpe e che ero rimasta lì, senza avvicinarmi
ulteriormente all’ospite.
“Che cosa fai ancora lì? Su, vieni qui a salutare il nostro ospite”.
Fu allora che i tuoi occhi verdi-cervone incontrarono i miei color
acqua-marina.
Fu allora che il mio cuore mancò sicuramente qualche battito e che incominciai
ad arrossire gradualmente. Più mi osservavi e più avevo l’impressione di andare
a fuoco.
Proprio a causa di ciò, non mi mossi ulteriormente.
“Oh? Hikaru?” chiedesti con tono sorpreso tu, continuando a fissarmi. “Vuoi
dirmi che quella bella bimba lì di fronte è la piccola Hikaru-chan?”
Mia madre annuì. “Sì, è lei”.
“Oh… Ma dai. Non ci avevo proprio fatto caso”.
Spalancai gli occhi, un secondo prima di abbassare lo sguardo, nuovamente.
Forse tu non te ne rendesti conto, ma quelle parole mi ferirono. Mi ferirono
profondamente.
Non ci ha fatto caso?
Continuavo a ripetermi, mentre sentivo una voce che mi chiamava, ma non
m’importava di chi fosse. Le mie riflessioni interne catturarono tutta la mia
attenzione.
Vuol dire che non gli importa se ci sono,
o no?
“…karu-chan?”
Vuol dire che onii-san non mi vuol bene?
“Hi-ka-ru-chan?” mi sentii chiamare
nuovamente. Questa volta, però, il suono fu troppo vicino per poterlo ignorare
totalmente, come avevo fatto precedentemente.
Alzai timidamente gli occhi per incontrare nuovamente il tuo sguardo.
Sbiancai.
O, forse, dovrei dire che avvampai, perché eri praticamente a pochi centimetri
dal mio volto, che continuavi a fissare con quei tuoi occhi verdi e profondi.
Sussultai e feci un balzo indietro, quando constatai che la nostra vicinanza
era fin troppo pericolosa. O, almeno, allora non pensai che poteva esserlo. Lo
feci soltanto d’istinto. Forse per l’imbarazzo.
“Che c’è? Ti ho spaventata?” mi domandasti, per poi cadere in una fragorosa risata.
“Sono così spaventoso?”.
Non ti risposi. Mi limitai ad arrossire ancora di più e ad abbassare la testa
ulteriormente, stringendo saldamente il tessuto del mio kimono, quasi per
trarne vanamente coraggio.
“Hikaru-chan, avanti, non fare la timida, saluta Souji” mi incitò la zia,
facendomi segno, alle tue spalle, di farmi coraggio.
Ma io non le diedi ascolto, scossi la testa e continuai a tenere lo sguardo
abbassato.
“Hikaru!” mi riprese, con tono leggermente più severo, la mamma.
“Ah, è così? Non vuoi salutarmi, eh?” affermasti, assumendo un tono di voce
quasi come se fossi stato oltraggiato da questo mio atteggiamento. “E va bene.
Se non vuoi salutarmi tu, per prima. Allora vorrà dire che ci penserò io” . E,
detto ciò, senza alcun preavviso portasti una delle tue mani sulla mia guancia
e ti avvicinasti lentamente a me.
Il tuo fine era sicuramente quello di darmi un bacio sulla fronte, come si fa
per tutte le bambine.
Sarei dovuta essere felice, ma…
“No!!!” esclamai immediatamente, prima che le tue labbra potessero sfiorarmi.
Quasi con le lacrime agli occhi, mi allontanai, indietreggiando, e mi nascosi
dietro una delle siepi che curava la mamma nel giardino.
Erano rimasti tutti un po’ sorpresi da questa mia reazione.
Forse quello che ci rimase un po’ più di stucco fosti proprio tu che, ancora
piegato su un ginocchio, continuavi a fissarmi con aria stupita e spaesata,
mentre ti spiavo da dietro la siepe.
Probabilmente ti chiedesti il motivo della mia reazione e, forse, anche se mi
mancasse qualche rotella.
“Hikaru!?” . Il tono della mamma era un
misto di preoccupazione, perplessità e indignazione. “Che cosa stai facendo? Ti
sembrano modi di comportarsi? Esci subito da lì dietro!”
Io, del canto mio, scossi la testa, in senso di diniego e, per tutta risposta, mi
nascosi ancora più dietro le siepi.
“Hikaru! Non costringermi ad alzarmi. Vieni subito fuori di lì e chiedi scusa a
Souji. Voleva solo salutarti, infondo”.
“Non preoccuparti, Mitsu-onee-san” la rassicurasti tu, voltandoti verso di lei
e sorridendole. “Si vede che non mi riconosce. Forse non si ricorda di me”
Cosa? No, non è così…
“Infondo è passato del tempo dall’ultima volta che l’ho vista. E aveva solo
quattro anni”.
No, non si tratta di questo…
Non riuscivo a fartelo capire. Il problema era che se non parlavo non
potevo dirti di che cosa si trattava.
Ma la voce mi veniva meno. Uscivano solo singhiozzi.
“O, semplicemente, non le piaccio” ipotizzasti, assumendo anche l’aria di uno
che ci stava riflettendo su.
No… Non è vero…
Scrollasti le spalle, voltandoti verso di me e sorridendomi. “Pazienza.
Sono tante le persone a cui non piaccio, sai?”.
Singhiozzai ancora. Non so ancora cosa mi trattenne dal piangere.
A quel tempo non capivo i miei sentimenti, da bambina qual’ero, ma sapevo
soltanto che sentirti mentre ipotizzavi tutte quelle cose era profondamente
doloroso.
“Non piacerle? Ma per favore!” . Una voce altisonante e squillante interruppe
il tuo discorso. La stessa voce che ti costrinse a voltarti alle tue spalle.
Zia Kin stava in piedi, dietro di te, cercando di incrociare il mio sguardo,
con aria severa. Aveva una mano sul fianco. Segno che era in fase
“autorità-e-severità”.
“Non fantasticarci troppo su, fratellino. La piccola ce l’ha con te,
semplicemente perché non l’hai citata nella tua lettera”.
“Eh?” sussultasti tu, un po’ sorpreso.
Eh? No… Gliel’ha detto!
E poi… come fa la zia a sapere che è per quello?
“Perché non l’ho citata nella lettera…?”
Lei annuì. “Già. E poi l’avrai fatta sicuramente arrabbiare di più, non
salutandola, appena sei arrivato”
“Ma se lo stavo facendo…”
“Questione di tempismo. Tempismo” ti interruppe lei. “In poche parole, è tutta
colpa tua”. Senza mezzi termini, la zia sbuffò, quasi soddisfatta della sua
rivelazione, e si concentrò su di me, ancora nascosta dietro la siepe.
“Non è forse vero, Hikaru-chan?”.
Eccola. Ecco l’attenzione di tutti che tornava su di me. Soprattutto la tua.
Arrossii nuovamente e mi nascosi ancora più in profondità della siepe. Non
volevo incontrare lo sguardo di nessuno, tanto meno il tuo.
Stavo facendo la figura della bambina – che effettivamente ero – ma che non
volevo si rivelasse ai tuoi occhi.
Speranza vana.
Sentii, però, che le foglie della siepe si stavano spostando.
Qualcuno mi aveva seguito sin lì dietro.
Non avevo voglia di vedere nessuno. Ma se, effettivamente, qualcuno c’era,
avrei preferito che si trattasse della zia. Almeno avrei potuto evitare di
svenire nel caso si fosse trattato di te, o di essere sgridata, nel caso si
trattasse, invece, della mamma.
Fui sfortunata anche in quel caso. Se di sfortuna si poteva trattare, perché mi
seguisti proprio tu.
“Ah!” esclamai per la sorpresa, più che per lo spavento, tappandomi le labbra
subito dopo. Abbassai, quindi, il volto rosso come un papavero, in contrasto
coi capelli castani-scuri e gli occhi acqua-marina.
“Neh, Hikaru-chan, Kin-onee-chan ha detto la verità? E’ perché non ti ho
prestato attenzione che sei arrabbiata con me?” mi chiedesti, terribilmente
serio, pur trattandosi di un ragazzo di diciassette anni alle prese con una
bimba di otto.
Non ti risposi e distolsi lo sguardo, per non incontrare il tuo. Ti diedi le
spalle.
“Se è per questo che sei arrabbiata, allora ti chiedo scusa, va bene?”.
Cosa?
Mi voltai sorpresa verso di te che mi sorridevi fiducioso, fin troppo
fiducioso. Sicuro di quello che stavi dicendo.
“Non volevo ignorarti volutamente nella lettera. Mi era solo sfuggito di mente”
ti giustificasti. “E mi dispiace se prima non ti ho salutata come si deve, ma…
Non ti avevo davvero riconosciuta. Non l’ho fatto a posta. Ma davvero non pensavo
che quella bambina che avevo davanti a me potessi essere tu”.
Eh? Come…?
“E’ che sei cresciuta così tanto… Sei diventata davvero carinissima,
Hikaru-chan. Davvero graziosa. Come una bambola”.
Se prima ero semplicemente diventata rossa, dopo quella tua affermazione la mia
carnagione sfiorò il bordeaux.
I singhiozzi presero ad aumentare e mi portai le piccole manine agli occhi, per
asciugarmi le lacrime col dorso delle mani.
“Mi dispiace…” sussurrai, avvicinandomi pian piano a te. “Mi dispiace di essere
stata maleducata. Non volevo essere sgarbata”. Continuavo a piangere, mentre,
praticamente, ti avevo di fronte, sorridente, che mi guardavi con aria
comprensiva.
“Per favore, non odiarmi. Per favore…”.
“Odiarti? Non credo proprio. Non potrei mai odiare la mia preziosa Hikaru-chan”
dichiarasti, convinto, attirandomi tra le tue braccia e carezzandomi la testa,
per consolarmi.
“Quindi… Quindi… vuol dire che continui a volermi bene?” ti domandai, ancora
singhiozzane e gli occhi tremuli.
“Mh?” . Rimanesti sorpreso da questa domanda, per poi sorridermi e portarti
l’indice al mento, quasi in segno di riflessione. “Vediamo… Ora che me lo stai
facendo notare, non so se potrò volerti ancora bene come prima, sai…”.
Cosa? Non mi vorrà più bene come prima?
Quella risposta fu tragica per me. E, piccola com’ero, non capivo davvero
che si trattava di uno scherzo, di una semplice presa in giro. Quindi, non
capendolo, mi misi nuovamente a piangere.
“Souji!” ti riprese la zia, con tono snervato. “Smettila di stuzzicarla e di
farla piangere! E’ solo una bambina, infondo, e non riesce a distinguere lo
scherzo dalla verità!”
Tu non trattenesti un risolino. “Hai,
hai!”. Poi ti voltasti verso di me, che ancora non accennavo a smettere di
frignare.
Piansi così tanto quel giorno, che alla fine quasi mi disidratai.
“Hikaru-chan, avanti non piangere. Lo sai perché ho detto che non potrò più
volerti bene come prima?”
Scossi la testa, mentre cercavo di trattenere i singhiozzi e mi asciugavo il
naso con la manica del kimono.
Allora tu mi rivolgesti il tuo solito sorriso. “Se proprio dobbiamo dirla
tutta, l’offeso qui dovrei essere io. Sono arrivato a casa tua da un pezzo, ma
la mia adorabile nipotina non mi ha neanche dato il benvenuto. Come pensi che
possa volerti bene come prima, eh?”.
“Oh…” . Quasi come se mi avessi rivelato il segreto più oscuro della vita
dell’uomo, trattenni le nuove lacrime e accorsi da te, abbracciandoti forte e
dandoti un bacio sulla guancia lunghissimo.
Ingenua com’ero, credevo davvero che si trattasse di questo, che fosse questa
la ragione per cui non mi volevi bene come prima.
Una volta separatami da te, rossa in volta alzai timidamente lo sguardo verso
di te, ancora preoccupata che potessi avercela con me. “E adesso? Adesso va
bene?”.
“Mh…” . Tornasti a rifletterci su. “Vediamo…”.
“Souji! Non ricominciare!” ti rimproverò nuovamente zia Kin. “Se la fai
piangere ancora, non ci sarà bisogno di innaffiarle per un bel po’ quelle
siepi”.
Mia madre si stava divertendo. Educatamente e raffinatamente – com’era abituata
a muoversi lei – si portò una mano davanti le labbra per coprire una piccola
risata.
Anche ti perdesti in una risata di cuore, senza rispondermi.
“Allora? Allora, adesso mi vuoi di nuovo bene?” continuai a chiederti,
speranzoso, e un po’ preoccupata del fatto che ti fossi messo a ridere senza
degnarmi di una risposta.
Tu, allora, mi prestasti tutta la tua attenzione, avvicinandoti a me ancora di
più, mi circondasti la vita con le braccia e mi prendesti in braccio, alzandoti
dalla posizione piegata in cui versavi prima, dietro la siepe, con me.
“Ma certo, Hikaru-chan. Ora ti voglio
anche più bene di prima”. Sorridesti.
A quella tua affermazione, non mi trattenni dal sorridere di gioia e
abbracciarti fortissimo. “Grazie, Sou-nii! Ti voglio tanto bene!”. Ero contenta.
Contentissima. Una contentezza che andava ben oltre la normale felicità che
provano i bambini nell’ottenere qualcosa di loro gradimento, o altre
stupidaggini infantili.
Era vera felicità. Sì, mi sentivo felice, con te accanto.
Una felicità che, infondo, da quel giorno non mi ha mai lasciata.
Dopo avermi riportata in casa e avermi consegnato un regalo che avevi comperato
appositamente per me (una bambola di pezza non troppo costosa, ma neanche delle
più scadenti), mi accoccolai vicino a te che eri intento a discutere di cose
ben più importanti e serie con zia Kin.
La mamma, intanto, era andata a preparare nuovamente del tè, dato che l’altro
che aveva portato precedentemente era finito.
Io, nel frattempo, giocavo con la bambola e la esaminavo con attenzione. La
stringevo, la coccolavo, fingevo di essere la sua mamma, sempre non
distaccandomi da te.
Volevo restarti il più vicino possibile.
Avrei tanto desiderato che mi prestassi anche la tua attenzione, ma capivo che
i discorsi che stavi affrontando con la zia erano da adulti e decisi di non
immischiarmi.
Anche perché, effettivamente, ad otto anni, non è che potesse importarmene poi
così tanto di affari di politica e dello Shogunato.
Era pur vero che volevo atteggiarmi a fare la grande e non mi piaceva essere
trattata da bambina, ma, in fin dei conti, bambina lo ero e mi ci comportavo
anche.
“Capisco. Quindi resterai a Kyoto per un bel po’, vero?” domandò la zia kin con
un’espressione un po’ triste sul volto.
Annuisti. “Dai comandi che vengono dall’alto, pare proprio di sì. Kondou-san
sta facendo di tutto per farmi giungere informazioni sicure”.
“Mmm… Kondou-dono è davvero una persona gentilissima ed affidabile” constatò,
col sorriso sulle labbra.
“Indubbiamente. Gli affiderei la mia vita, senza alcuna remora”
“Kondou-dono è sicuramente una persona splendida, vero?” s’intromise nel
discorso la mamma, con il vassoio contenente il tè verde e i dango in mano.
“Quando lo incontrai, tempo fa, fu davvero cortese e disponibile”
“Ti assicuro che lo è sempre, Mitsu-onee-san. Forse anche troppo. Ci vuole un
polso duro con gli uomini e, certe volte, nonostante non manchi di autorità, si
fa prendere un po’ troppo la mano”.
“Oh, davvero? Beh, un po’ me lo aspettavo, a dir il vero…” .
Il discorso tra te e la mamma proseguì.
Vi osservai, ormai stanca di giocare da più di un’ora con quella bambola.
Continuai ad osservarvi un po’ per cercare di capirci qualcosa circa quello di
cui stavate discutendo, un po’ per cercare di richiamare la vostra attenzione
su di me. La tua, più che altro.
Ero stata educata della mamma a non interrompere i discorsi importanti tra
adulti, quindi non avrei mai osato intromettermi, ma desideravo davvero tanto
che ti accorgessi della mia voglia di passare ancora del tempo a parlare con
te.
In realtà penso si trattasse di gelosia.
Non sentivo necessariamente il bisogno che ti concentrassi su di me. Mi
bastava, semplicemente, che non prestassi attenzione a loro.
Il mio ragionamento era: “Se non guarda me, non deve guardare nessun altro”.
Semplice, no? E, indubbiamente, tanto infantile, quanto egoistico.
Abbassai, delusa, lo sguardo sulla bambola, tornando a giocarci e a snodarle le
gambe e le braccia in vari modi. Ormai lo facevo più per noia, che per altro,
quando, ad un tratto:
“Hikaru-chan” mi chiamò una voce.
Alzai la testa, istintivamente, in direzione della persona da cui avevo sentito
pronunciare il mio nome.
Speravo fossi tu.
L’istinto, però, mi guidò tristemente verso un’altra persona: la zia, che mi
sorrideva con aria quasi complice.
Mi aveva chiamata con un sussurro, effettivamente, e, quindi, aveva attirato
solo la mia attenzione.
Tu e la mamma stavate ancora parlando, senza esservi accorti di niente.
Guardai con aria interrogativa la zia che mi indicò con fare insistente il
giardino esterno della casa.
Inclinai la testa da una parte all’altra, cercando di capire che cosa volesse.
Lei mi guardò storto. Segno che le stava dando fastidio il fatto che non
riuscissi a comprenderla. E mi indicò nuovamente il giardino.
Mi voltai anch’io verso l’esterno della casa, per poi tornare a prestarle
attenzione. Scossi la testa per farle capire che ancora non avevo compreso cosa
stesse cercando di dirmi, o di farmi notare.
Lei sospirò e si passò una mano sulla fronte. A come era suscettibile lei, le
stavo sicuramente dando sui nervi.
Ancora mi domando: ma le costava tanto sussurrare come aveva fatto per
chiamarmi, poco prima?
Forse non volle farlo, o, molto probabilmente, non le passò per la testa.
Fatto sta che, ancora snervata, continuò ad indicare insistentemente il
giardino, rimanendo con l’indice puntato fuori.
Beh, allora, due più due, fa quattro. Decisi di vederci chiaro anche io, in
questa faccenda: seguii puntigliosamente la direzione dell’indice della zia. Se
non stava dando di matto, indicava qualcosa di ben preciso, giusto? E allora
seguendo quella direzione, forse avrei trovato qualche indizio.
Seguendo quindi la traiettoria del suo indice, capii che la zia puntava al
laghetto delle carpe.
Bene. Fin lì c’eravamo arrivati. Ma ancora non capivo perché me lo stesse
indicando.
Vuole che do da mangiare ai pesci?
Fu la cosa più ovvia e ingenua che potetti pensare.
Ma no, non aveva senso. Gli avevamo dato da mangiare quella stessa mattina. E
poi buona educazione vuole che quando vi sono degli ospiti non ci compiano
gesti quotidiani come quelli.
Sicuramente non era a quello che stava pensando.
E allora cosa voleva? Proprio non ci arrivavo.
La zia continuò a puntarmi il dito verso il laghetto, con esagerata insistenza.
Provai a seguire nuovamente il dito che puntava il laghetto, stavolta con più
attenzione e concentrazione.
E fu così che finalmente capii.
La zia non stava indicando il laghetto, ma ciò che stava di fianco al laghetto.
Le lavande…
Sì, le lavande che avevo colto quella mattina con lei e che, una volta
giunta a casa, dopo aver visto te, avevo fatto cadere. Ed effettivamente ero
rimasta immobile proprio vicino il laghetto, quando mi erano cadute tutte,
sparpagliandosi per terra.
Zia Kin se n’era ricordata! O, probabilmente, le aveva soltanto notate e stava
cercando di farle notare anche a me.
Beh, ci era riuscita. Con qualche difficoltà, ma ci era riuscita.
“E’ vero!” esclamai, quindi, alzandomi in piedi e correndo in direzione del
laghetto.
Attirai, di conseguenza, seppur involontariamente, sia l’attenzione della
mamma, che tua. Soprattutto la tua, dato che ero accoccolata proprio vicino a
te.
“Hikaru?” mi chiamò la mamma, con tono interrogativo. “Che stai facendo?” mi
chiese, quando vide che mi piegai sul terreno e raccoglievo qualcosa.
Le lavande… Le lavande che ho raccolto… I
miei fiori!
La mamma era un po’ preoccupata. “Hikaru?”
“Non preoccuparti, onee-san” cercò di calmarla la zia. “Sta raccogliendo il suo
omaggio”.
“Omaggio?”
Lei annuì.
Tu, invece, non dicesti niente. Ti limitasti a rimanere seduto ed osservarmi,
mentre ero di spalle a raccogliere il mio “omaggio”.
Una volta raccolti tutte sia tutte le lavande che le margherite, mi voltai
verso tutti.
Erano davvero un bel mazzo grande, nonostante fossi solo una bambina e nelle mie
braccia non ci stava, di conseguenza, tutto.
Era così grande che la bambola che mi avevi regalato tu e che tenevo ancora
stretta al petto, era scomparsa tra tutti quei fiori.
“Ah, Hikaru, sei stata bravissima. Hai
raccolto tutti questi fiori” . La mamma mi sorrise, sedendosi elegantemente
vicino il tavolino della stanza in cui ricevevamo gli ospiti. Quella che, di
fatto, dava sul giardino esterno. Quella in cui eravamo stati sin dal principio
della tua visita. “Che ne dici se li mettiamo nel portafiori?”.
La mamma aveva pensato che fosse un omaggio per la casa, o, magari, per la
circostanza che si stava presentando quel giorno.
Non risposi. Abbassai la testa, mentre mi avvicinavo a voi tre che continuavate
ad osservarmi, senza distogliere lo sguardo da me. Mi osservavate tutti: chi
con un aria gentile, chi con un sorriso soddisfatto, chi indifferentemente e
leggermente perplesso.
Ci misi un po’ ad arrivare davanti la soglia della veranda.
“No!” . La mia risposta fu decisa. E con eguale determinazione, mi voltai verso
di te, porgendoti il mazzetto profumato di margherite e lavande. “Voglio darli
a Sou-nii! Perché... Perché io diventerò la tua sposa!”.
Silenzio.
Non so neanche io perché dissi quelle parole. Neanche ora riesco a
comprenderlo.
Per una bambina timida, qual’ero io, fare una dichiarazione talmente
imbarazzante e, soprattutto, sicura e determinata, non era davvero da me.
Ma, forse, i miei sentimenti trovarono la forza al posto mio. La forza per
dichiararsi a te.
Ma tu non li capisti.
Rimasto un po’ interdetto – come anche la mamma e persino la zia – mi guardasti
con aria sorpresa e gli occhi verde-foglia leggermente spalancati.
Inizialmente il tuo silenzio mi mise in imbarazzo, ma, fortunatamente, poco
dopo non trattenesti una risata di cuore. Il tuo bellissimo volto si tinse di
una gioia che era rivolta a me. Proprio a me.
Poco dopo mi circondasti la vita con un braccio e mi attirasti verso di
te, accettando nell’altro palmo della mano il mazzo di fiori. “Ti ringrazio,
Hikaru-chan”. Mi rivolsi il tuo radioso sorriso. Quel sorriso un po’
enigmatico, che non riuscivo a capire dove voleva andare a parare. Ma che,
infondo, sembrava sincero. O, almeno allora, mi sembrava così. Ma, in cuor mio,
penso davvero che lo fosse.
“Sarei davvero felice di averti come mia sposa” mi sussurrasti ad un orecchio,
per poi posare le tue labbra sulla mia fronte e sorridermi di nuovo. “Ti
prometto che farò di te la sposa più bella di tutte!”.
Era una bugia, lo sapevo. Era logico che lo fosse. La dicesti per tenermi
contenta, o, forse, anche solo per gioco. Probabilmente avevi anche pensato che
ti stessi prendendo in giro, che volessi farti uno scherzo, o che,
semplicemente, erano parole dettate solamente dalla nostalgia e dall’affetto
che si può provare nei confronti di qualcuno a cui vuoi bene e che non vedi da
tanto tempo.
Parole dette senza pensare, senza un fondamento logico. Parole che, magari,
anche il giorno dopo avrei dimenticato. Parole che forse avrei scordato anche
di aver mai pronunciato, o sulle quali, chissà, ci avrei anche scherzato su,
una volta cresciuta.
Le parole di una bambina, ecco cos’erano per te.
E proprio perché appartenevano ad una bambina, tu non le capisti. Non riuscisti
a comprendere il reale significato, il desiderio, i sentimenti che si celavano dietro
quella dichiarazione apparentemente tanto innocente e fiabesca.
Non te ne feci e tuttora non te ne faccio una colpa. Solo che io, ingenuamente,
ci credetti.
Era una bugia, ma ne fui felice. Quella bugia fu la base dei miei sogni futuri.
Fui veramente tanto felice di quelle tue parole.
Parole dette per rispondere a qualcosa di improponibile. Perché, infondo, era
questo che era la mia proposta: inaccettabile.
Non tenendo conto di altri fattori, solo per la differenza di età e il fatto
che eravamo imparentati, la mia promessa, la mia proposta, il mio sogno era
impossibile da realizzare.
Ma io, a quell’età, ancora non lo capivo. Tenevo soltanto presente i miei
sentimenti, cosa mi diceva il cuore. Unicamente quello.
Ti avevo rivelato i miei sentimenti, le mie speranze, ma nel momento stesso in
cui l’avevo fatto, erano appassite, inesorabilmente. E la cosa peggiore fu che
non me ne resi conto.
“D-Davvero?” chiesi, sorridendo allegramente e stringendo la bambola che mi
avevi regalato al petto.
Tu annuisti. “Sarai così bella che tutte le donne della città t’invidieranno”
continuasti ad appoggiarmi, non rendendoti conto, così, di alimentare vanamente
le mie speranze.
“M’invidieranno? Sarò così tanto bella?”
“Bellissima” . La mamma mi sorrise e mi fece cenno di avvicinarmi a lei.
Io, allora, curiosa e perplessa allo stesso tempo, feci come mi era stato
chiesto. Quando le fui davanti, mi prese per le spalle e mi fece voltare. Poi
sentii qualcosa di rigido e freddo infilarsi tra i miei capelli. Non capii di
cosa si trattasse.
“Il giorno del matrimonio, avrai dei capelli così lunghi e setosi, che per
legarli useremo dei fiori” dichiarò lei, con tono calmo.
“Davvero?”
“Proprio così!” la assecondò la zia, energica e allegra. “E avrai un kimono
bianco e lungo. Lunghissimo. Proprio come il velo di seta che porterai sui
capelli, legati in uno chignon”.
“Oh? Come una principessa?”
“Sì, proprio come una principessa” . La mamma rise di gioia, smettendo di
acconciarmi i capelli. “Ecco fatto”.
Compreso che la mamma aveva finito di sistemarmi, feci un balzo con cui arrivai
sull’erba del giardino esterno e corsi a specchiarmi nell’acqua del laghetto.
Vidi che i capelli castani mi erano stati tirati su con lo stelo intrecciato di
vari fiori, tra cui vi erano primule, margherite ed anche lavande.
E che tra le ciocche che mi erano rimaste, cadenti sulle tempie e in varie
altre zone, aveva infilato dei fiorellini piccolissimi di cui non conoscevo il
nome.
“Oh, kawaiiii!” affermò zia Kin,
quasi esaltata. “Sei davvero adorabile, Hikaru-chan!”.
“Oh!” sbuffasti con aria quasi seccata. “Così non va. Se sarai così carina al
matrimonio, andrà a finire che ti rapiranno. E poi io come faccio, senza
sposa?”. Ci scherzasti su.
Io mi voltai sorridente, mentre le ciocche cadenti, ondeggiavano. E corsi verso
di te, buttandomi tra le tue braccia.
“Che bello! Che bello, sono così felice!” esultai, sprizzante di gioia da tutti
i pori.
Mi avevate assecondata. Mi avevate adulata. Mi avevate illusa. In buona fede,
certo, ma lo avevate fatto.
Ed io ci avevo creduto.
Lo avevate fatto per vedermi felice, per vedermi sorridere. Tu, a maggior
ragione, per evitare che me la prendessi di nuovo con te, o, semplicemente, per
non farmi tornare a piangere. Per non deludermi.
Sorrideste tutti, quando dichiarai di essere davvero felice e tu mi
abbracciasti di nuovo, stringendomi a te.
Riuscivo a sentire il profumo delle lavande che ti avevo donato in segno della
nostra promessa, che in qualche modo mi rassicurava.
Restammo ancora un po’ in quella posizione. Poi tu ti distaccasti da me ed
osservasti il sole che ormai era tramontato da poco.
“Oh, mi sa che si è fatta tardi” sentenziasti, con tono piuttosto indifferente,
nonostante si trattasse di una separazione.
“Oh, hai ragione” constatò la zia. “Saranno sicuramente le sei passate”
“Mi spiace, ti abbiamo trattenuto più del previsto” si scusò la mamma,
visibilmente dispiaciuta.
“Non preoccuparti, onee-san. E’stato tempo ben speso” cercasti di rassicurarla
tu, sorridendole.
“Te ne vai di già?” domandai io, triste e amareggiata.
“Purtroppo sì, Hikaru-chan. Mi spiace” .
“Non è giusto… Sei rimasto solo qualche ora. Sou-nii, rimani un altro po’”.
“Vorrei tanto, credimi. Ma non posso proprio” mi spiegasti, accarezzandomi una
guancia, per poi alzarti da terra e metterti in piedi. “Ho fatto già troppo
tardi”.
“Sono davvero mortificata, Souji. Mi sono lasciata trasportare dai nostri
discorsi, senza rendermi conto del tempo che passava”.
“Ti ho detto già di non preoccuparti. Non farmele ripetere troppe volte le
cose. Dopo un po’ diventa noioso, lo sai?”.
Incominciasti a parlare nuovamente con la mamma e la zia di cose che non capivo
e che, essenzialmente, non seguivo.
Ero troppo occupata a rattristarmi della tua partenza, per potermi concentrare
su altro.
Quando fu il momento per te di andare, io, la mamma e zia Kin ti seguimmo sino
alla soglia della porta, dove ti stavano aspettando degli uomini che alla vita
portavano della katane. Erano numerosi e vestiti per bene.
Uno di loro, un giovincello, anche più giovane di te, appena uscisti di casa,
ti si avvicinò e ti portò la tua katana che ti allacciasti immediatamente alla
cinghia. Una volta fatto ciò, facesti segno al ragazzino di allontanarsi e ti
concentrasti su di noi.
Era il tempo dei saluti. E mantenesti quel sorriso trionfante e sincero per
tutto il tempo degli abbracci e delle rassicurazioni. Era un sorriso forte. Un
sorriso che dimostrava che, nonostante si stesse separando da persona che
adorava e a cui teneva tantissimo, non si faceva prendere dallo sconforto. Un
sorriso fiero di quello che faceva, di quello che era diventato, che stava
diventando. E che sarebbe diventato.
Abbracciasti prima la zia, poi la mamma. L’abbraccio più lungo fu riservato a
lei. Dovevi essergli davvero tanto affezionato, quanto lei a te.
Abbracciasti e baciasti sulle guance entrambe. E ad entrambe sussurrasti
qualcosa all’orecchio, una volta separatoti da loro.
“Non ti vedremo per un bel po’. Quindi evita di cacciarti nei guai,
fratellino!” si raccomandò la zia, mantenendosi vivace, nonostante la circostanza
triste. “E non dare problemi a Kondou-dono!”
“Sei davvero l’ultima persona da cui accetterei una critica del genere,
Kin-onee-chan”.
“Che hai detto?! Vedi di portarmi rispetto, sai…”
“Souji, abbi cura di te, mi raccomando” la interruppe la mamma, avvicinandosi
ulteriormente a te e carezzandoti i capelli.
Tu le sorridesti, prendendo la sua mano tra la tua e stringendogliela forte.
“Non preoccuparti starò bene. Piuttosto tu, non strafare e rilassati anche un
po’, ogni tanto”
“Eh?”
“Mi hai trattato come un vero estraneo oggi. Sei stata così formale per tutto
il tempo. Ricorda che, anche se non ci vediamo da tempo e ho assunto la carica
di Jukutou alla Shieikan, rimango pur
sempre tuo fratello”.
“Sono mortificata…” ricominciò lei, per poi accorgersi di star ricascando nello
stesso errore. “Ops… Beh, suppongo tu abbia più che ragione. Allora… Fa del tuo
meglio, va bene?”
Tu le sorridesti ed annuisti. “Hai”.
Un singhiozzo interruppe i loro discorsi. Anzi, era più di uno. Una serie di
singhiozzi che sfociarono in un fragile pianto. Il pianto di una bambina. Il
mio.
Questo richiamò la tua attenzione. Un po’ quella di tutti, ma soprattutto la
tua.
Con un sorriso velatamente triste, ti piegasti su un ginocchio, proprio di
fronte a me. Non dicesti nulla. Aspettasti silenziosamente che fossi io a
parlarti.
Ma io non accennavo a dirti niente. Mi limitai a piangere. Stringevo in una
mano la bambola che mi avevi regalato tu, che tenevo vicina al petto, mentre
con l’altra stringevo forte il kimono della mamma.
Esitasti ancora un po’, prima di sillabare: “Hikaru-ch…?”
“Io non voglio che te ne vai! Sei stato troppo poco! Non è giusto” ti
interruppi bruscamente, con la voce spezzata dai singhiozzi. Il volto rigato
dalle lacrime, che nascondevo dietro il kimono della mamma.
“Hikaru” mi chiamò lei, con voce poco risoluta. Capiva la mia tristezza. La
provava anche lei. “Avanti, non fare così. Non può fare diversamente. Deve
andare via. Si tratta del suo lavoro”.
“No, no e no! Io voglio che rimane qui, con noi! Voglio che sta con me!”
confessai in una tempesta di egoismo.
Silenzio.
Nessuno riusciva a contestarmi. Nessuno voleva dirmi, o rassicurarmi di niente.
Regnava solo il silenzio con sottofondo il mio pianto.
“Hikaru-chan” mi chiamò la tua voce, limpida e pulita. Diretta. Forse anche
troppo.
Quando alzai il volto rigato dalle lacrime, ti vidi sorridere.
Era un sorriso sicuro. Non trasmetteva tristezza, né malinconia.
Mi fece uno strano effetto. Da un lato (che personalmente odiavo), mi pareva
quasi come se non stessi provando sofferenza nel distaccarti da noi, mentre
dall’altro un sorriso che mirava a darci forza e a darti forza.
“Ti ringrazio ancora per le lavande” affermò mostrando il mazzo di fiori che
aveva ancora nell’altra mano. “Sai, sono le mie preferite”.
Rimasi sorpresa da quelle parole. Era un saluto. Non mi stavi rincuorando, né
mi incitavi a smettere di piangere. Mi stavi semplicemente rammentando, a modo
tuo, che te ne stavi andando.
Nessuna parola di consolazione. Nessuna.
Continuai a piangere. “Lo so. Me lo ha detto la zia”
Annuisti. “Capisco”.
“E… lo sai… ” proseguii, cercando di trattenere i singhiozzi. “Sono anche… le
mie…”
“Oh, davvero? Beh, abbiamo un’altra cosa in comune”.
Rimasi in silenzio. Tu continuasti a fissarmi. Passò qualche minuto, così.
“Okita-san” lo chiamò il ragazzo di prima. “Mi spiace dovervi interrompere, ma
dovremmo incominciare a muov…”
“Lo so. Voi incominciate ad andare. Vi raggiungo entro un paio di minuti”
ordinasti e pochi attimi dopo tutti gli uomini stavano seguendo ciò che avevi
detto.
Dopodiché tornasti a prestarmi attenzione. “Hikaru-chan” mi chiamasti.
Solo dopo una decina di secondi, però, alzai nuovamente la testa verso di te e
mi decisi ad incontrare il tuo sguardo verde-foglia.
Mi guardavi, senza, però, dirmi niente. Aspettasti anche tu un po’ prima di
affermare: “Ti prometto che un giorno ci rincontreremo”.
“D… Davvero?”.
“Davvero. Altrimenti, poi, come faresti a diventare mia moglie?” mi chiedesti,
sorridente. “Eh?”
Gioia. Fu quella che il mio sorrise espresse in quel momento. Una gioia
incommensurabile. Forse, sino ad allora, non avevo mai provato una gioia così
grande.
Annuii, con le lacrime di felicità agli occhi. “Hai!!” esclamai, esultante. “Perché io diventerò sicuramente la tua
sposa! E’ una promessa!” affermai, porgendogli il mignolo.
Tu non trattenni davvero una risata, per poi calmarti un po’ e porgermi il tuo
mignolo con cui sigillammo il patto.
Era questo il metodo con cui i bambini si facevano le promesse tra di loro. E
tu acconsentisti a farlo con me.
“Devi aspettarmi, Sou-nii! Aspettami e vedrai che quando diventerò grande, sarò
la tua sposa!”
“Guarda che ci conto” affermasti. Mi posasti, poi, una mano sulla testa,
accarezzandomi i capelli e scompigliandomi leggermente la pettinatura floreale
che mi aveva fatto con tanta cura la mamma.“Abbi cura di te, Hikaru-chan”.
“Hm! Anche tu, Sou-nii!”.
Mi rivolgesti un ultimo sorriso. A me, alla mamma e alla zia, che entrambe
trattennero le lacrime. Poi ti voltasti e incominciasti ad incamminarti.
Mi venne da piangere.
E piansi. Ancora una volta.
“Ricordatelo, Sou-nii! Mi raccomando!” ti gridai, da dietro, mentre vedevo la
tua figura allontanarti. “E’ una promessa!”
Tu non ti voltasti verso di me. Non ti fermasti neanche. Semplicemente,
continuando ad andare per la tua strada, alzasti una mano, in segno di aver
sentito e compreso.
“La nostra è una promessa!!!” continuai a raccomandarti per un sacco di volte,
finché, ormai, non riuscii più a scorgerti all’orizzonte.
Avevi preso la tua strada. Una strada che ti allontanava da me. La strada che
ti conduceva fuori da Edo e, per tanto tempo, dalla mia vita.
*****
NOZIONE STORICA E MESSAGGIO DALL’AUTRICE.
Capitolo decisamente luuuuungo O.O (per intenderci , 22 pagine di word XD).
Me ne rendo conto da sola XD Forse avrei dovuto spezzarlo. E in effetti ci ho
pensato davvero tanto, ma come credo di aver già detto, odio doverlo fare. Lo
faccio solo in caso di necessità: il capitolo sono 40 pagine di word e/o non ho
finito il capitolo e non aggiorno da mesi XD. Cosa che è capitata anche con l’altra
ff, effettivamente ^-^”
Duuuunque… Ora veniamo a noi.
La protagonista si è rivelata. E’ proprio Hikaru, la nipotina di Souji! E no,
non è un personaggio immaginario. O, meglio, ora vi spiego XD
Tutti i personaggi e le date riportate in questo romanzo sono autentiche. Ho
fatto delle ricerche storiche ricavando informazioni da vari siti e
confrontandole sono riuscita a tirar fuori un bel lavoro.
Le date delle circostanze (almeno come anno) sono quelle e sono precise.
Per quanto riguarda i personaggi: anche. Il vero Souji ha avuto davvero due
sorelle maggiori. Mitsu, la maggiore e Kin la minore. Per quanto riguarda
Hikaru…
Nel 1853 Okita Mitsu, trasferitasi ad Edo, e sposata con Inoue Rintaro, che in
seguito diventerà Okita Rintaro, partorirà davvero un bambino. Il bambino,
però, non sarà una femminuccia, ma un maschietto.
Ebbene sì, Souji aveva effettivamente un nipote nove anni più giovane di lui e
si trattava di un maschio.
Ho mantenuto invariato tutto, eccetto il sesso del bambino. Da qui è nata
Hikaru!
Che insana immaginazione XD Oh, e poi c’è la il nostro Souji. E’ stato davvero
difficile decidere come renderlo da diciassettenne e onestamente non ne sono
tuttora convinta, di averlo reso bene. Ma spero di essere riuscita almeno a
renderlo decente XD Beh, spero, ad ogni modo, che il capitolo, anche se
esageratamente lungo, non annoi e specialmente sia di vostro gusto! ^-^
Ringrazio tutti coloro che leggeranno e commenteranno. Ma anche chi non
commenterà XD
E volevo anche ringraziare tutti coloro che avevano già inserito la ff tra le
seguite e le ricordate, nonostante fosse solo al prologo. Mi avete dato
fiducia! Grazie mille! ^-^
Un bacio.
Alice.