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Autore: My Pride    27/02/2011    3 recensioni
Volgi lo sguardo al cielo e osservi, attento;
torni poi a guardare la foglia, scoprendo che il bruco è divenuto farfalla.

In ginocchio su quella strada lastricata, dove la pioggia caduta ore addietro aveva reso lucida la pavimentazione, sentì anche i suoi occhi inumidirsi di lacrime.
Non di nuovo, pensò angustiato, non di nuovo, per l’amor del Cielo.
[ Prima classificata al contest «Competition for long-fic published» indetto da Insana e valutato da NonnaPapera ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Scena Drammatica al contest «The Thousand and One Nights» indetto da Prior.Incantatio ]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
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Un oscuro angelo_3
ATTO III: INVERNESS › SCOZIA, 1888
FRAGILE
[1]

L’animo tuo altro non è che l’inverso del mio.
Ne traggo nutrimento, rendendolo fragile:
come un’incrinatura su una superficie di cristallo.

    Era ormai tarda notte, e la magione si presentava estremamente silenziosa.
    I suoi abitanti erano sprofondati da diverso tempo nel sonno, non una luce illuminava le stanze nelle quali erano chiusi. Soltanto uno di loro sembrava non riuscire a trarre conforto da quelle ore notturne, vagando fra i corridoi desolati come un’anima in pena. La lunga vestaglia che indossava - tra l’altro insufficiente per difenderlo dal freddo - creava un sinistro fruscio sul pavimento ogni qual volta lo sfiorava, rendendolo sempre più simile ad un’antica apparizione. Ma non sembrava nemmeno rendersene conto, come se fosse completamente immerso nei propri pensieri. La mente vagava verso gli avvenimenti accaduti esattamente due giorni addietro, perdendosi persino in ricordi ben più lontani: nel percorrere quei disimpegni che conosceva più di chiunque altro, forse persino dei domestici stessi, non smetteva di tormentarsi e martoriarsi il cervello, quasi fosse alla ricerca dell’esatto momento che aveva scatenato tutti quegli eventi futuri. Non avrebbe mai negato d’esser stato stolto, accettando quella condizione che gli era stata offerta; il suo animo era stato combattuto fra due diverse ragioni per mesi e mesi, prima della fatidica decisione. Gli era stata mostrata la consapevolezza di morire poco a poco, giorno dopo giorno, consumato dalla malattia che lo divorava o la scelta di farla sparire per sempre.
    Ormai da molti anni, prima che quel suo carceriere si presentasse al suo cospetto, aveva scoperto d’aver contratto un morbo sconosciuto. Già cagionevole di salute, non si era meravigliato poi tanto di quella sua situazione, accettandola a poco a poco come tutte le altre tragedie già capitate nella sua vita. I primi periodi era dunque stato abbastanza sopportabile, senza grosse complicazioni; svolgeva tutto normalmente, sforzandosi d’apparir tranquillo agli occhi della società e a quelli degli abitanti del maniero, in particolare dinanzi al figlio adottivo. Ma con il passar del tempo, per lui, aveva cominciato a diventare tutto più difficile. Fingeva quanto poteva, questo era indiscutibilmente vero, ma la malattia che aveva contratto aveva iniziato a deteriorarlo attimo per attimo. L’arrivo di quello sconosciuto - che gli si era subito rivelato per ciò che realmente era, senza porre condizioni per quei primi periodi -, quindi, era stato per lui come un’ultima preghiera o desiderio. Ed era stato da quel momento che le visite erano cominciate, alternandosi di mese in mese. Durante quei loro incontri segreti lui recuperava pian piano la salute, pagando tale dono con la sua integrità ed anima. Uno scambio equo, al principio. Scambio che era per lui divenuto un bisogno troppo necessario in seguito, proprio come aveva dimostrato quella sera stessa in cui quel nobile era andato a fargli visita. Non poteva resistere a lungo senza quel suo nettare proibito, sebbene lui stesso non ne capisse il motivo e ne fosse consapevole solo in parte.
    Un tetro sospiro sfuggì dalle sue labbra, condensandosi in una piccola nuvoletta di vapore che lui osservò con sguardo vacuo; quasi si sentiva come quel sospiro divenuto visibile a causa dell’umidità presente in corridoio. Era come se potesse svanire da un momento all’altro, senza lasciar nessuna traccia di sé non appena qualcuno avesse mosso una mano. Se confrontava su un piano artistico il suo stato d’animo, poteva benissimo azzardarsi a dire d’esser simile ad un’imperfezione su tela che sarebbe potuta sparire con altre rapide pennellate. Si ritrovò a stirare le labbra in un sorriso che non esprimeva nulla, un sorriso privo di vita. Era diventato quello, in fin dei conti. Un quadro incompleto a cui mancavano dettagli e ritocchi.
    Svoltò l’angolo e percorse un altro disimpegno, accantonando per qualche attimo i suoi pensieri mentre si guardava con falsa attenzione intorno. Nemmeno si rese esattamente conto dell’ala del maniero in cui adesso si trovava, camminando adagio a causa del buio che si fece più fitto. Allungò a tentoni una mano, sfiorando un mobile e poi un muro; continuò, passo dopo passo, ad esplorare quegli antri oscuri che erano quei corridoi, toccando con la punta delle dita qualsiasi cosa. Giunse senza accorgersene nella piccola sala che, ormai da un paio d’anni, avevano adibito a studio per il suo amico, entrandovi senza un apparente motivo. Le dita andarono automaticamente alla ricerca della lanterna a gas, cercando a tentoni il beccuccio per accenderla e far luce; si schermò gli occhi con l’altra mano, poiché la poca intensità di quella fiammella gli aveva ferito la vista abituata al buio. Quando il fastidio s’attenuò, poté gettare uno sguardo all’interno di quella stanza, trovando tutto perfettamente in ordine tranne la grande scrivania. Lì, difatti, oltre ai vari tomi rilegati in pelle e altri fogli sparsi, era presente una pila di giornali dalle pagine spiegazzate, nonché qualche stilografica gettata in ogni dove. La sua attenzione fu però catturata proprio da quei giornali, che suppose essere quelli di cui aveva vagamente sentito parlare qualche sera addietro. Sapeva dei casi d’omicidio - sebbene l’amico credesse l’esatto contrario - ma, seppur ne avesse ascoltata qualche parola, non era ancora riuscito a leggere nulla su quel caso. Fu per quel motivo che s’avvicinò, prendendo un periodico; non ci fu nemmeno bisogno di sfogliarlo del tutto, sin dalle prime pagine apprese più di quanto volesse forse venir a conoscenza.
    Lesse e lesse fino a saziare del tutto la sua sete di sapere, senza tralascere il benché minimo particolare su quegli efferati omodici e su quell'uomo che sfidava ogni legge dell'umana malignità, lasciando poi ricadere il giornale senza prendersi la briga di rimetterlo a posto. Perse invece tempo a cincischiare con un altro, passando poi ad un altro ancora; passò forse un’ora ad andare avanti così, uscendo dallo studio e tornando sui suoi passi solo quando si fu stancato. Percorse a ritroso quei corridoi con la stessa aria smarrita che aveva avuto in principio, fermandosi d’un tratto in mezzo al disimpegno solo quando sentì un fruscio dietro di sé. Si voltò di scatto, riacquistando una parziale ombra d’emozioni su quel suo viso che sembrava di cera; gli occhi s’erano ridotti a poco più di due fessure per riuscire a scrutare con più facilità fra quelle tenebre, mentre la mano vagava alla ricerca di una possibile e improvvisata arma. Ma nulla parve muoversi, nemmeno le molteplici ombre che distinse maggiormente quando tornò fra i disimpegni illuminati fiocamente. Era sicuramente stata una semplice suggestione, la sua. Ne era più che convinto. Scosse quindi il capo e riprese a camminare, stavolta conscio di ciò che stava facendo; e fu forse per quel motivo che tornò nelle sue stanze, ritrovandosi a coricarsi nel letto e a lasciarlo solo quando vennero a svegliarlo il mattino dopo. Nemmeno ricordava esattamente quando avesse abbassato le palpebre, ma quel giorno si sentiva meno stanco di quelli precedenti. Che fosse a causa di quella visita?
    A quel pensiero, gli occhi corsero rapidi alla cassettiera poco distante da dove si trovava, tanto che si ritrovò a lasciar perdere temporaneamente la camicia che stava indossando per avvicinarsi. Aprì uno dei cassetti, tastando un po’ con le dita fino a trovare ciò che cercava; sentì poi il click d’apertura dello sportello abilmente nascosto, rivelando il doppio fondo lì presente. La prese con due dita per il collo e la guardò, facendo oscillare il liquido al suo interno prima di storcere il naso: era quella la causa di tutto, era di quello e del suo possessore che avrebbe dovuto liberarsi; e invece si ostinava a conservare l’uno e a non voler allontanare l’altro.
  Si maledisse ancora quando si ritrovò a stappare l’ampolla, capovolgendola per tappare la bocca con un dito. L’allontanò solo quando il polpastrello si macchiò di vermiglio, avvicinandolo poi alle labbra con aria disgustata. Chiuse gli occhi, lo leccò; diede un paio di rapide lappate, compiendo quella stessa azione altre due volte prima di riporre in fretta e furia l’ampolla al suo posto quando sentì bussare. Richiuse il cassetto, facendo poi un colpo di tosse per schiarire la voce. «Avanti», esordì, invitando quell’inaspettato ospite ad entrare. Voltò giusto di poco lo sguardo verso la soglia, ritrovandosi poi a sbattere più volte le palpebre più volte, come stupito.
    Ad osservarlo a braccia incrociate, e con un cipiglio tutt’altro che gioviale, si trovava il suo amico e fratello, che sembrava soppesare la sua postura con aria abbastanza critica. «Sembri star meglio, stamani», disse tranquillamente lui, chinando lievemente il capo in avanti a mo’ di saluto.
    Il Lord produsse un piccolo suono s’assenso, come se non volesse dargli né ragione né torto. Doveva soltanto comportarsi normalmente, tutto qui. «Le medicine che porta Sir William da Londra non le pago certo per nulla», riprese semplicemente, in tono quasi di scherno.
    «Medicine, dici?» ripeté scettico. «Secondo me dovresti tenerti alla larga da quell’uomo». Entrò circospetto nella camera, facendo vagare un po’ ovunque lo sguardo come se stesse assimilando ogni dettaglio. Di rado osservava il suo interlocutore, che si stava intanto apprestando a darsi un’ultima sistemata. Infine si lasciò andare ad un lungo sospiro, continuando. «Dovresti partecipare più attivamente alle serate mondane, Joseph», gli consigliò, anche se in tono di paterno rimprovero. «Dovresti riprendere le tue solite attività, lasciare più spesso questo posto sperduto. Non puoi restartene confinato qui per il resto dei tuoi giorni».
    Joseph sospirò e si passò una mano fra i capelli per ravvivarsi alcune ciocche dietro alle orecchie, passando a sistemarsi il solino al collo e a comportarsi come se l’altro non avesse aperto bocca. Non ci voleva di certo lui a dirgli quelle cose, ne era ben consapevole. Si diede un’ultima rapida sistemata prima di voltarsi verso l’amico, lasciando temporaneamente perdere il kilt e i restanti abiti che avrebbe voluto riporre nel cassetto. Forse più per nascondere lo sportello che per vera necessità. «Non ho tempo per certe cose, Seamus», gli parlò con voce tranquilla, forse per tentare in quel modo di rassicurarlo. «Se non avessi dei compiti da svolgere uscirei, davvero».
    Che mentiva era palese, e l’altro non si fece scrupoli nel farglielo notare. «Non puoi andare avanti così», ribatté. «Jason e tutti noi siamo preoccupati, e nessuno dei tuoi domestici ha il coraggio di dirti quanto tu sia cambiato», si avvicinò, azzardandosi a passargli un braccio intorno alle spalle sebbene vide Joseph restar sorpreso sia dal gesto che dalle parole. «Hai bisogno di svago, di divertimento. Non hai ancora l’età per lasciarti andare così», lo condusse verso la porta, come se lo stesse invitando ad uscire. «Hai bisogno di conoscere gente nuova, d’appassionarti ancora una volta a qualcosa. Una donna, ecco di cosa hai realmente bisogno».
    A quella constatazione, Joseph oppose resistenza, allontanandogli il braccio di malomodo prima di scuotere il capo, come se non avesse mai preso in considerazione quell’alternativa. «Sai bene che non voglio nessuna donna da quand’è successo, Seamus», replicò lugubre, abbassando lo sguardo come se non riuscisse più a sostenere quello dell’altro.
    «Sono passati anni, Joseph. Comportarti così non servirà a farli tornare indietro». Schiette ma veritiere, quelle parole colpirono il Lord come una pugnalata al cuore. Ed era proprio quello a fargli male, accumulando ferita dopo ferita. Forse era stata proprio quella tragedia a spingerlo, seppur inconsciamente, ad adottare Jason. Con lui non ne aveva mai parlato, facendo in modo che anche i restanti abitanti della casa tacessero su quell’avvenimento. Un anno prima che Jason entrasse nella sua vita, difatti, lui sarebbe dovuto divenire padre. Era stato sposato, un tempo. Sua moglie, Elisabeth, l’aveva conosciuta all’età di diciassette anni ad un ballo in onore di un qualche nobile di cui vagamente ricordava il nome, a Londra. Vi si era recato con la famiglia dell’amico Seamus, i McDougal, e, vedendo quella bionda e fragile figura fra le altre dame, ne era rimasto inesorabilmente attratto.
    Tutto era iniziato da un semplice valzer insieme, poi da comuni incontri tempo dopo; erano convolati a nozze in pochi mesi, amandosi intensamente negli anni che seguirono. Avevano provato ad avere un figlio per un lungo periodo, prima che avvenisse quel miracolo che li aveva resi felici e impazienti dell’arrivo del nascituro. Durante la gravidanza, il giovane Lord era rimasto quasi sempre vicino alla donna, sentendo il cuore sempre più colmo di gioia. Lui, a cui era stato detto che non avrebbe potuto avere figli, avrebbe ben presto avuto un erede. Ma le cose si erano complicate poco più di sei mesi dopo; il bambino voleva uscire anche se prematuramente, e il medico di famiglia aveva fatto tutto ciò che era in suo potere. Elisabeth era morta a causa dell’emorragia, e a lui, che si trovava nel salone adiacente, era stato comunicato da una delle domestiche che aveva assistito il medico durante il parto. Quasi non aveva voluto credere alle sue orecchie, quando gli erano state dette quelle parole; l’aveva osservata smarrito, con quell’espressione da fanciullo ancora presente in viso. Non aveva nemmeno vent’anni, quando successe. Persino il conforto di avere ancora suo figlio gli era stato negato. Era morto fra le sue braccia quella sera stessa, non avendo i polmoni abbastanza sviluppati per poter respirare normalmente e con regolarità.
    Quella tragedia l'aveva segnato dentro. Dopo i funerali, non aveva voluto vedere nessuno per giorni e giorni, né tanto meno parlarci; non mangiava e non beveva, se ne restava solo chiuso nella camera matrimoniale, seduto al centro del letto, ad osservare il vuoto con sguardo spento. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi almeno in parte, e, quando si era ritrovato quasi per sbaglio a passare accanto a quell’orfanotrofio, quel bizzarro pensiero gli aveva oltrepassato la mente. Tra tutti i bambini lì presenti, la sua attenzione era stata richiamata proprio da quel moretto di sette anni o poco più; se avesse avuto la possibilità di crescere, aveva pensato il giovane Lord, suo figlio sarebbe potuto diventare così. Ed era stato quel pensiero a spingerlo ad adottare proprio Jason, imparando a volergli bene proprio come se fosse stato davvero il suo bambino.
    Joseph scosse finalmente la testa per scacciare quei tristi e amari ricordi, senza prendersi la briga di dare una risposta all’altro uomo che, fino a quel momento, non aveva fatto altro che osservarlo in silenzio. Si recarono entrambi ai piani inferiori, senza proferir parola nemmeno una volta. Il resto della giornata passò così velocemente che nemmeno se ne resero conto; entrambi si erano diretti verso i propri studi, rincontrandosi solo a cena insieme a Jason. Sentendo che qualcosa non andava, aveva provato ad intavolare con loro un discorso, ma venendo ignorato aveva deciso di concentrarsi unicamente sulla cena, in silenzio. Il Lord era poi tornato nelle sue stanze, incaricando parecchie ore dopo, senza spiegazione alcuna, una cameriera di chiamargli il vecchio cocchiere. E lei si trovava a dirigersi verso le camere della servitù, adesso, quasi tremante.
    Quando raggiunse la porta, la donna esitò, facendosi coraggio solo pochi attimi dopo. «Hamish?» chiamò intimidita, bussando leggera. Da dietro la porta si levò un grugnito, come se l’uomo presente all’interno di quella stanza si fosse appena svegliato. Attese con il cuore in gola mentre si guardava intorno, lei, quasi trasalendo quando si ritrovò ad incrociare le iridi castane dell’anziano cocchiere. I lunghi capelli canuti erano sciolti ad incorniciargli il viso, segnato dalle rughe tipiche dell’età; sebbene gli occhi apparissero assonnati, inoltre, conservavano ancora quell’aria vispa che l’avevano caratterizzati sin da quando l’uomo era giovane.
    «Cosa ti porta qui a quest’ora, Giselle?» domandò infine lui, portandosi una mano alla bocca per evitarsi di sbadigliare. Osservò invece la donna, cercando di capire il perché di quell’espressione che aveva in viso. Sembrava apprensiva, quasi impaurita, tanto che continuava a guardarsi intorno come se temesse d’esser seguita o tenuta d’occhio. Perché si comportava così, quella notte?
    La risposta gli fu data in breve, anche se la donna sembrò solo diventare più timorosa. «Il... il Lord ha chiesto di te», soffiò via con voce tremante, facendo accigliare non poco l’uomo.
    «Di me, dici?» chiese conferma, come se non credesse alle sue orecchie. La vide annuire energicamente, prima che facesse qualche passo indietro per incitarlo a muoversi. Era sempre stata una donna goffa e inquieta, certo, ma quella notte sembrava aver superato il limite; sin da quando l’avevano presa a lavorare in casa non aveva fatto altro che tentare di svolgere al meglio il compito che le era stato affidato, sbagliando solo di tanto in tanto e venendo richiamata dalle cameriere più anziane. Ma quando si parlava del Lord diveniva ancor più nervosa, come se lo temesse. In molte avevano provato a rassicurarla e a dirle che la sua era una paura inutile, ma ogni qual volta glielo ripetevano lei non riusciva ad abbandonare questo suo terrore. Eppure l’uomo non riusciva a capire da dove potesse provenire tale atteggiamento. Aveva assistito il Lord sin da quando era bambino, divenendo quasi la figura d’un tutore e d’un secondo padre per lui nonostante fosse solo un semplice cocchiere; era cresciuto come un ragazzino normale e per niente viziato, il suo nobile signore, data l’educazione che il genitore gli aveva impartito sin da piccolo. Perché avrebbe dovuto incutere timore a qualcuno?
    Scosse la testa per schiarirsi i pensieri, facendo appena un lieve cenno con il capo prima di seguire la donna lungo il corridoio. E quel via vai silenzioso fu colto di sfuggita da una terza persona che era appena uscita dalla biblioteca, e che si ritrovò a sbattere perplesso le palpebre nel vedere con quanta inquietudine sembravano scambiarsi le parole. In un primo momento il ragazzo quasi decise di non prestarvi poi molta attenzione. Ma quando si voltò e fece per tornarsene nella sua camera, non si mosse, gettandosi uno sguardo alle spalle. Si stavano allontanando piano, e continuavano a mormorare tra loro. Chiuse e riaprì gli occhi più volte, prendendo in considerazione l’idea di seguirli. Così fece, senza aspettare oltre; strinse a sé il libro che aveva preso pedinandoli silenzioso, accorgendosi solo in un secondo momento che il corridoio che stava percorrendo era quello che portava alle stanze di suo padre. Un orrendo pensiero gli attraversò la mente, facendogli affrettare il passo; che fosse accaduto qualcosa? Che fosse peggiorato? Era per quel motivo che il cocchiere e la cameriera apparivano così ansiosi?
    Non perse altro tempo a fare domande a se stesso, attraversando quegli ampi disimpegni ricchi di quadri e ornamenti per arrivare allo studio del padre. Vide la cameriera accennare appena un saluto verso l’uomo prima di dileguarsi trafelata, come se non volesse restare lì. E il ragazzo approfittò di quel momento, avvicinandosi svelto nello stesso istante in cui l’anziano cocchiere entrò nello studio di suo padre. Istintivamente deglutì, senza capire il perché di quella segretezza con cui si era introdotto lì dentro; che cosa stava succedendo, in quella casa? S’affrettò, adagiando poi la schiena contro il muro prima tendere le orecchie ed ascoltare, cercando d’essere il più silenzioso possibile. Non s’azzardò ad affacciarsi, limitandosi solo a sentire ciò che avevano da dirsi.
    «Mi ha fatto chiamare, Milord?» la voce dell’uomo si fece sentire mentre lui si torceva le dita, forse solo perché non riusciva a star fermo più che per nervosismo. Osservò il retro della poltrona sulla quale il suo signore era accomodato, vedendo appena una sua mano allungarsi verso la bottiglia di whisky presente sul tavolino.
    «Te la sentiresti d’intraprendere un lungo viaggio, Hamish?» domandò in risposta il Lord senza alcun giro di parole, sfiorando con due dita il vetro.
    L’uomo restò esterrefatto, ritrovandosi a sbattere più volte le palpebre. «Perché questa domanda, Milord?» chiese ancora, azzardandosi a fare qualche passo avanti per avvicinarsi alla poltrona, così da poter osservare il viso del suo interlocutore. Ma lo vide allontanare il braccio dalla bottiglia ed alzarsi, voltandosi poi verso di lui con un vago e lontano sorriso dipinto sulle labbra. Un sorriso bizzarro, come non ne aveva mai visti da anni.
  «Voglio che tu mi accompagni a Londra», rispose semplicemente il nobile, aggirando la poltrona e avvicinandosi lui stesso, assumendo una postura quasi regale quando si fermò.
    Hamish inclinò il capo di lato, portandosi i capelli dietro alle orecchie prima di drizzare la schiena. «Se posso, Milord, come mai questa scelta?» s’arrischiò a chiedere nuovamente, andando forse ben oltre di quanto volesse. «Non poteva attendere domattina per mettermene al corrente?» soggiunse poi, tormentandosi un po’ le mani.
    Joseph scosse la testa, come se quell’ipotesi non fosse fattibile. «Non voglio che nessun altro, oltre te, sappia di questa partenza», disse, osservandolo serio con quegli occhi dal taglio a mandorla, abbastanza rari per uno scozzese. «Non voglio forzarti, data l’età, ma di te mi fido ciecamente, Hamish».
    Fu il silenzio a regnare, subito dopo. Nessuno dei due proferì parola, come se stessero aspettando il momento giusto per farlo. E fu proprio un sospiro del cocchiere ad infrangere quella quiete, facendosi di poco da parte. «Farò come desidera, Milord», disse infine, chinando referenziale il capo prima di guardarlo con fare quasi severo. «Ma le chiederò il motivo, se lo rammenti».
    Riuscì a strappargli un piccolo sorriso, così facendo. «Sempre pronto a fare la parte del padre come tuo solito, eh?» fece, socchiudendo di poco le palpebre mentre tornava ad accomodarsi sulla poltrona. «Partiremo all’alba, ti ringrazio». E fuori da quella stanza, a quella parole, il ragazzo - che aveva fino a quel momento origliato tutta la conversazione avvenuta - socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un sospiro silenzioso. Dunque il padre voleva partire. Voleva partire per Londra anche se non ne capiva il motivo.
    Jason s’allontanò a passi felpati, onde evitare che il padre o l’anziano cocchiere potessero sentirlo. Avrebbe fatto finta di nulla, per il momento, senza dar ad intendere ciò che aveva udito; quando sarebbero partiti, avrebbe fatto in modo di seguirli a sua volta. Con qualsiasi mezzo a lui necessario.




[1] Titolo di una doujinshi di Idea (Rin Seina/Houseki Hime) uscita il 30 maggio del 2007, nonché seguito di “Graceful Degradation”
Indica appunto l’animo del protagonista che, man mano che la storia segue il suo corso, diventa sempre più fragile, quasi deteriorandosi.




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