Impromptu
Corridori
infortunati destinati a lasciare il
percorso a metà. Le parole. Sempre poche, o troppe. Sempre
inadeguate. Vuote.
Capisco Harry e
i suoi silenzi. Certe volte è come
se il silenzio bastasse – non serve che mi spieghi la sua
ansia, la sua rabbia,
la sua paura. La sento.
Mi manca il
pianoforte di Grimmauld Place.
Ti
manca Ron.
Mi manca il mio
pianoforte.
Ti
mancano mamma e papà.
Se avessi un
pianoforte, ora, ci farebbe compagnia,
ci permetterebbe di sopravvivere. Se avessi un pianoforte, ora, le
parole non
servirebbero, come nel silenzio, i miei corridori feriti potrebbero
riposare in
panchina. E non affollerebbero la mia mente. Se avessi un pianoforte,
ora, non
sentirei questo disperato bisogno dello scricchiolio cadenzato della
stupida radio
di Ron.
Una musica. Una
qualsiasi. Stonata, stridente,
chiassosa, infantile, malinconica, rabbiosa, allegra, volgare, sciocca.
Una
musica. Un ritmo che torni a battere. Uno qualsiasi.
Una mano. Harry.
Balliamo?
Un ritmo. Stanco, forzato, disperato, ridicolo, goffo, stravagante, allegro, volgare, sciocco. Un ritmo. Il nostro.
Dovessi descrivere questo pezzo, direi strano.
Stavo scrivendo una
cosa per un contest, e stavo ascoltando Quattro minuti e ventotto
secondi di
Cristicchi, e ho scritto questo, che col contest non
c’azzecca nulla, che forse
non c’azzecca nulla neppure con Harry Potter, e di sicuro non
c’azzecca nulla
con il capitolo sull’industria inglese del 1840 che stavo
scrivendo venti
minuti prima. Non c’è che dire, le pause ispirano
scicchezzuole. Spero vi piaccia.