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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    28/02/2011    8 recensioni
Mi mordo il labbro, abbassando lo sguardo. «Non l’hai saputo…? Ho… un’amnesia. Non… non ricordo niente degli ultimi cinque anni…».
Da parte sua, un insolito silenzio. Rialzando gli occhi su di lui, scopro che è immobile, con un’espressione indecifrabile dipinta in volto.
Sto per chiedergli se sta bene, quando parla di nuovo: «Niente?», chiede, a voce talmente bassa che faccio fatica anche a sentirlo. «Proprio niente?».
Scuoto il capo, desolata, accennando un sorriso. «No, nulla».
Abbassa lo sguardo, e infila le mani in tasca. «Quindi tu non ti ricordi di me».
Non è una domanda la sua. È una certezza.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Eccomi di nuovo qui! :D
Grazie mille per la risposta al prologo, sono felicissima che la storia vi incuriosisca *.*
Questo capitolo dovrebbe chiarire i dubbi sulla serata di cui si accenna nel prologo, nel caso non fosse tutto chiaro non esitate a dirmelo :D Spero che il capitolo vi piaccia.

Buona lettura!
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1. Ho perso la memoria?

Ovviamente, quando ho accettato l’invito al ballo di fine anno, non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi il giorno dopo stesa in un letto d’ospedale. Insomma, nessuna persona sana di mente lo penserebbe. Soprattutto una ragazza che è stata invitata a uscire dal più carino dalla scuola.

Perché ho accettato l’invito, perché? Come ho potuto non intuire nemmeno per un secondo che dietro tutti quei sorrisi e complimenti si nascondeva una presa in giro bella e buona?

Bella, perché sei crollata davanti a quel paio d’occhi azzurri?

Forse perché non li avevo mai visti da così vicino… e bisogna dire che, nonostante la sua fama di ragazzo irraggiungibile, non è considerato come tanti altri uno sciupafemmine. Insomma… la sua fidanzata storica è sempre stata Jessica Stanley, non si è mai fatto vedere con altre ragazze al di fuori di lei; ma loro si sono lasciati due settimane fa - o almeno così dicevano i pettegolezzi che giravano a scuola; e, in effetti, non si sono più visti insieme per i corridoi. Ed io sono cascata ai suoi piedi come un’idiota.

Il suo invito non è stato galante, ma a me è bastato per accettare: “Incontriamoci sul retro della palestra. Voglio parlarti.”

Mi aspettavo chissà cosa. Magari di trovarlo con un mazzo di rose e una dichiarazione. E, invece, quando sono arrivata là dietro mi sono ritrovata da sola, mentre dall’interno proveniva il rumore assordante della musica. È stata Lauren Mallory a trovarmi lì, e dopo avermi detto che il ragazzo con cui mi dovevo incontrare era già dentro, mi ha trascinata al centro della festa, vicino al bancone con il dj. Ha preso il microfono, e facendo abbassare la musica ha concentrato l’attenzione del pubblico su di noi. Nel momento esatto in cui il faro di luce mi ha illuminato ho desiderato con tutta me stessa che il pavimento si aprisse e mi inghiottisse tutto d’un colpo.

Mi ci sono voluti alcuni secondi per capire cosa stava succedendo; dopo aver urlato al microfono il nome del mio presunto accompagnatore, facendo risuonare la sua voce stridula in tutta la palestra, Lauren ha parlato: “Isabella dice che l’hai invitata al ballo.”

A scuola non sono molto conosciuta - anche se in una cittadina minuscola come Forks tutti conoscono tutti -, ma mi considerano alla stregua di una suora, con pochissimi amici, sempre silenziosa, riservata all’estremo e, cosa ancora peggiore, figlia dello sceriffo della città. Di certo non sono mai stata una buona compagnia. Per questo motivo non mi sono sorpresa nel sentire il pubblico scoppiare in una risata - non che questo mi abbia fatta sentire meno umiliata, purtroppo. Ma di certo speravo che almeno lui, il mio accompagnatore, mi salvasse, non mi lasciasse preda delle burle di tutti.

Ma mi è bastato individuarlo in mezzo alla folla stretto alla sua ex fidanzata Jessica per perdere tutte le speranze.

“Quella suora?”, è stata la risposta del grande cavaliere, ad alta voce affinché lo sentisse il maggior numero di persone. “E chi la vorrebbe mai invitare al ballo?".

Se ci ripenso provo ancora una fitta allo stomaco per la delusione, la vergogna e l’imbarazzo. Le risate scatenate dalla sua risposta priva di tatto mi risuonano ancora le orecchie, e cerco di metterle a tacere, prima che suscitino altre lacrime.

Una lampadina si accende nella mia testa: l’ultimo ricordo che ho è di quando sono caduta a terra dopo essere andata a sbattere mentre correvo verso casa, in seguito alla mia fuga da quella festa. Stavo piangendo talmente tanto che non ho nemmeno visto che davanti a me c’era qualcuno. Ricordo di aver battuto la testa e… stop. Nient’altro. Probabilmente sono svenuta e la persona contro cui sono finita si è allarmata e ha chiamato l’ambulanza. Deve essere così.

E tutto per colpa di quel maledetto che mi ha invitato al ballo e del mio pessimo equilibrio.

Mike Newton, sei un fottutissimo stronzo.

 

Quando la porta della stanza si apre, strappandomi alle mie elucubrazioni, trattengo il respiro. Ho sempre odiato gli ospedali, e con essi tutti i medici che lavorano al loro interno. Tutti, nessuno escluso. Per non parlare poi delle infermiere. Le infermiere. Coloro che ti riempiono i bicchierini di pastiglie d’ogni genere e colore, e ti infilzano con siringhe per svariati motivi. Per me sono alla stregua dei serial killer, e non sto scherzando.

Per questo, non appena scopro che la persona che ha appena aperto la porta altri non è che mia madre Renèe, rilascio un lungo sospiro, tornando a rilassarmi.

Il suo sguardo saetta al letto sul quale sono sdraiata, e la prima cosa che noto è che mi sembra invecchiata tantissimo. Anche i capelli castani sono striati di grigio, e quando sorride ai lati degli occhi si formano svariate piccole rughe.

Distolgo lo sguardo, per evitare che mi noti intenta ad osservarla troppo curiosamente.

«Bella, tesoro, sei sveglia finalmente!». La sua voce è ancora squillante e vivace, però.

Mi viene accanto, lasciando la borsa sul tavolino di plastica. Da vicina l’effetto è ancora peggiore, e strano.

Cosa le è successo? Non la vedo da quasi un anno, è vero, ma non mi sarei mai aspettata un cambiamento tanto repentino. Di solito una cosa del genere accade gradualmente nel giro di anni, oppure… Oh Cielo. E se è malata?

Mi ha forse tenuta nascosta qualche malattia? Sta male? Per questo sembra invecchiata così precocemente?

Cerco di frenare le mie domande. «Ciao, mamma…». Ho la gola incredibilmente secca, e deglutire è faticoso. Mamma, notando la mia difficoltà, mi riempie un bicchiere d’acqua prendendo una bottiglietta dal comodino al mio fianco. Bevo tutto d’un fiato, dando sollievo alla mia gola secca.

«Quando sei arrivata? E da quanto sono qui?», chiedo, cercando nella stanza un orologio, ma non trovo nulla che possa informarmi sull’orario.

Renèe sorride. «Oh, sono arrivata questa mattina con il volo di stanotte. Tuo padre è dovuto correre in centrale per un’emergenza, ma tornerà presto. Comunque, sei qui da ieri sera. Hai preso proprio una bella botta…», mormora, stizzita. È quasi offesa.

«Mi dispiace, non sono riuscita a rimanere in equilibrio…». Ecco, adesso mi fa sentire in colpa. Non volevo che dovesse affrontare un viaggio del genere nel bel mezzo della notte solo perché sono caduta a terra e svenuta. Spero che almeno Henry, il suo compagno, sia rimasto a Dallas.

«Bella, sei un disastro! Quante volte ti ho detto di fare attenzione?», esclama, con un sospiro esagerato alla fine. «Per la cerimonia dovremo fare miracoli per nascondere tutti quei lividi e tagli!».

Ecco, chissà che figuraccia farò alla cerimonia del diploma… con tutti questi tagli? Inarco un sopracciglio, chiedendomi a quali tagli si riferisce, e subito il dolore sopraggiunge appena sopra l’occhio. «Ahi!».

Alzo la mano per toccarmi in quel punto, ma la mamma mi ferma. «Non toccare, Bella. Hai un brutto taglio». Sospira, scuotendo il capo.

Improvvisamente mi sento in dovere di scusarmi con lei: «Mi dispiace, mamma, ma lo sai che sono sempre stata così…».

Lei distende il viso in un sorriso. «Ma certo, cara, non devi sentirti in colpa…», mormora, accarezzandomi i capelli, mentre con le dita cerca di pettinarli alla bell’e meglio. Con sorpresa noto che sono decisamente lunghi, e che arrivano fin sotto il seno; eppure ieri mi sembravano molto più corti… «Adesso cerchiamo di darti una sistemata, prima che arrivi tuo marito…».

Scoppio a ridere. «Mio marito?», ripeto, chiedendomi che razza di battuta è. Renèe è sempre stata avvezza ad ogni genere di scherzo, ma questo è nuovo. «Questa non l’avevo ancora sentita, ma non mi sembra così divertente, mamma. Puoi fare di meglio».

Renèe mi lancia un’occhiata stralunata, smettendo di pettinarmi. «So che non è effettivamente ancora tuo marito, ma ormai è solo questione di giorni, tesoro».

Aggrotto le sopracciglia in un gesto automatico, pentendomene subito dopo a causa del dolore dovuto ai tagli. «Di cosa stai parlando?», domando, scettica. «Non capisco».

Mia madre mi guarda preoccupata. «Ma del matrimonio, cara. Non ricordi? La cerimonia è la prossima settimana…».

Uno strano senso di disagio si impossessa di me, e stringo i lembi del lenzuolo. «Matrimonio? Chi si sposa? La settimana prossima c’è la cerimonia per il diploma… non credo di-».

«Diploma? Qualcuno ti ha invitato a una cerimonia per il diploma?», mi interrompe mamma, prima ancora che riesca a terminare la frase.

Ma cosa sta dicendo? Eppure ne abbiamo parlato proprio ieri della cerimonia! Ha già anche prenotato il volo sia per lei che per Henry. «Io, mamma. Io mi diplomo. Ne abbiamo parlato ieri per telefono, come fai a non ricordartene? Sono anni che aspetti questo momento!», ribatto, accigliata.

Renèe impallidisce, portandosi le mani alla bocca.

Non è possibile, se ne è dimenticata!

Forse il mio piccolo incidente l’ha sconvolta. È possibile. Magari è in stato di shock.

«Tesoro…», mormora, avvicinandosi a me e prendendomi le mani, che lasciano il copriletto. Mi guarda negli occhi attentamente, ma cauta. «Tu sei già diplomata», dice piano, scandendo per bene ogni singola parola. «Da cinque anni, per l’esattezza».

Rido nervosamente. «Mamma, non è divertente. Prima la storia del marito, ora quella del diploma. Sei in vena di scherzare con una figlia sdraiata in un letto d’ospedale?».

Il volto di Renèe si trasforma in una maschera d’orrore. Diventa ancora più pallida, e porta una mano alla bocca, allontanandosi di un passo dal letto e lasciandomi le mani. «Tesoro… che giorno è oggi?».

Magari si è solo dimenticata che giorno è, ecco perché è confusa.

«È il 10 Giugno, mamma», rispondo, alzando gli occhi al cielo. Come potrei dimenticare che solo il giorno prima c’è stato il ballo che ho aspettato per una lunghissima settimana?

Deglutisce, visibilmente turbata. «Di che anno?».

«Mi stai prendendo in giro?», ribatto, irritata.

Scuote il capo. «Per favore, rispondi, tesoro».

Il suo tono mi lascia intendere che non sta affatto scherzando. Sbuffo. «Del 2006. Almeno l’anno dovresti ricordarlo».

Il volto diventa ancora più pallido. Indietreggia, appoggiandosi allo schienale della sedia.

Adesso inizio sul serio a preoccuparmi. «Mamma, sei sicura di stare bene?». Suona quasi ironico, chiesto da una persona in un letto d’ospedale. Magari la mia ipotesi di prima non è del tutto errata… forse sta davvero male. «Non è una tragedia se non ti ricordi che anno è…», mormoro, rendendomi conto che è davvero pallida. Troppo, per una donna che abita a Dallas e passa almeno un giorno di ogni settimana in un solarium del centro.

Apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude. Fa così per tre volte, prima di parlare: «Tesoro…», inizia, come se non sapesse come continuare. «Oggi è il 14 giugno…», mormora, soppesando le parole, «… del 2011».

Fingo una risata, lanciandole un’occhiata di sbieco. «Molto divertente, mamma».

La osservo per un lungo istante, in silenzio. I suoi occhi mi fissano sgranati, con le labbra sigillate dalle mani. Solo in questo momento noto un particolare che prima non avevo notato. Un anello dorato, all’anulare sinistro.

Mi schiarisco la voce, a disagio. «Mamma… cos’è quell’anello?», chiedo, scoprendo di avere perso la voce. So di averla persa perché ricordo perfettamente che mia madre a quel dito esige solo e soltanto l’anello del matrimonio, la fede.

Lei abbassa gli occhi, ancora sbarrati. «È la mia fede nuziale, Bella. Forse… forse non lo ricordi, ma mi sono sposata».

Impiego alcuni secondi a elaborare la sua risposta. Fede nuziale. Non ricordare. Sposata.

All’improvviso sono colta da un’intuizione, e gli strani particolari che ho notato da quando sono sveglia si fanno spazio nella mia mente: la mamma invecchiata, i miei capelli più lunghi e, ora, anche la sua fede.

Deglutisco, cercando di trovare di nuovo la voce, che sembra essere sparita. «Mamma…», mormoro, «quanti anni ho?», chiedo in un sussurro, non certa di voler avere una risposta.

Mia madre stringe più forte lo schienale, come a cercare di infondersi coraggio. O di non cadere. «Ventitré cara… quasi ventiquattro…».

All’inizio non sento niente. Poi la testa inizia a girare, e il senso di nausea mi porta ad appoggiarmi al cuscino, tenendo gli occhi fissi sul soffitto bianco.

Ventitré anni. Ventitré.

Non è possibile. Non può essere possibile. Io ho diciotto anni - quasi diciannove -, ho appena finito gli esami e devo presenziare alla cerimonia per il diploma. Devo decidere a che college andare fra quelli che mi hanno accettata, decidere quale sarà il mio futuro.

Non posso essere già adulta. Forse è solo tutto uno scherzo. Sì, è senz’altro così.

Dovrei sentirmi più grande, più matura, più responsabile… meno pasticciona. E dovrei ricordare. Perché se fossimo davvero già nel 2011 dovrei provare una specie di buco nero nella testa, no? Dovrei sentire che manca qualcosa.

Stringo i pugni. «Mamma, basta con gli scherzi. Non sono in vena, davvero».

Renèe sgrana gli occhi ancora di più, e biascicando un ‘torno subito’ corre fuori dalla stanza.

A volte mi chiedo da dove ha preso tutto questo macabro senso dell’umorismo. Prendere in giro la propria figlia che ha preso una brutta botta in testa non è per niente divertente, possibile che non se ne renda conto?

Approfittando della sua assenza guardo il comodino al mio fianco, sperando di trovarci il mio cellulare. Apro il primo cassetto, e al suo interno trovo solo una scatola di fazzoletti di carta. Probabilmente avranno lasciato tutto nella mia borsa, che sarà ritirata in quel grosso armadio metallico in fondo alla stanza. Appena Renèe torna le chiedo di passarmela.

Ma quando mia madre rientra nella stanza non è sola: con lei c’è un medico, anche se dall’aspetto pare di più una delle tante celebrità di Hollywood.

Biondissimo, con capelli corti tirati indietro, la pelle chiarissima e liscia. È molto bello.

Stranamente, a differenza del panico che mi aspettavo di provare alla vista del camice bianco, mi sento a mio agio, tranquilla. Come se davanti a me avessi mio padre. È molto, molto strano.

«Buongiorno Bella», mi saluta, esibendo un sorriso bellissimo. «Sono felice che ti sei risvegliata così presto, è un buon segno. Come ti senti?».

Questo dottore sembra conoscermi… eppure, nonostante io frequenti l’ospedale almeno tre volte l’anno a causa della mia sbadataggine, non mi sembra di averlo mai visto.

«Bene… scossa, ma sto bene», rispondo. Poi, però, il dolore che provo provando a distendere i muscoli facciali mi convince ad aggiungere: «Mi fa male il viso, e la testa pulsa».

Annuisce, scribacchiando qualcosa su una cartellina. Poi si avvicina a me, e con dita leggere e delicate mi prende il volto, voltandolo da una parte e dall’altra, con gentilezza, mentre controlla i tagli. Mia madre intanto rimane in un angolo della stanza, stringendo convulsamente le mani l’una con l’altra.

Il dottore prende una piccola luce, e me la punta negli occhi. Poi si allontana, rimanendo, però, vicino.

«Allora, Bella. Hai riportato delle ferite superficiali dalla caduta, e in breve si rimargineranno tutte senza lasciare traccia. In testa hai un bell’ematoma, e ti consiglio di evitare di sottoporlo a pressione quando ti lavi i capelli». Scrive ancora sulla cartellina, poi lancia un’occhiata a mia madre. «Puoi raccontarmi come è accaduto l’incidente?».

Annuisco. «Stavo tornando a casa ieri sera. Ero andata al ballo della scuola…», mormoro, arrossendo, chiedendomi se è necessario raccontare per quale motivo ero talmente trafelata e annebbiata da non rendermi conto di star per andare addosso a qualcuno. Decido che non è necessario. «Mentre correvo non ho visto che c’era qualcun altro sul marciapiede, e gli sono andata contro. Sono caduta sulla strada, e credo di aver sbattuto la testa per terra e di essere svenuta…».

Mia madre si porta le mani alla bocca, come a voler reprimere un gemito o un urlo, mentre il dottore mi scruta intensamente. Ecco, ho fatto la figura della deficiente. Chissà cosa starà pensando, adesso. Probabilmente che sono un pericolo pubblico, o che avevo bevuto - o peggio, fumato - qualcosa di strano o addirittura illegale.

Approfitto del suo silenzio per porgli la domanda che mi frulla in testa da quando è entrato: «Mi scusi, può dirmi il suo nome?», chiedo, timidamente.

I suoi occhi si spalancano, rivelando due iridi di un azzurro chiarissimo, che risplende sotto le luci dei neon. Sembra stupito, ma si ricompone quasi immediatamente. «Certamente. Scusami, mi sono scordato di presentarmi: sono il dottor Cullen, piacere».

Ricambio il sorriso che mi rivolge, arrossendo. Perché sono arrossita? Perché il cuore per qualche secondo ha iniziato a battere più forte del normale?

Il dottor Cullen si avvicina ancora, e mi guarda attentamente.

«Bella, chi è il presidente degli Stati Uniti?», mi chiede improvvisamente, senza staccare gli occhi dai miei.

È la giornata delle domande stupide? Perché mi pongono delle domande a cui anche un bambino di tre anni saprebbe rispondere? È vero, ho battuto la testa, ma non sono diventata ignorante!

Ma non posso rispondere male a un dottore, vero? «Bush, ovviamente». Vorrei inarcare un sopracciglio ma farebbe troppo male a causa del taglio.

Mia madre emette un gemito strozzato - l’ennesimo. Il dottore sembra prendere un profondo respiro, ma la sua espressione rimane impassibile.

«Bella. Il nostro presidente si chiama Barack Obama. Sono ormai due anni che è in carica. Te lo ricordi?».

Aggrotto la fronte, nonostante pulsi e faccia male. «Perché oggi mi prendete tutti in giro? Vi siete messi d’accordo?», chiedo, infastidita. Non volevo essere brusca, ma mi sto stancando di tutti questi scherzi.

Il dottore non si scompone, ma esce dalla stanza, facendo segno a mia madre con un dito di attendere. Rientra dopo meno di un minuto con un giornale in mano.

Me lo porge, e scopro che è un numero del Times, con un afroamericano riportato in copertina. Nella didascalia scopro che è proprio l’uomo di cui mi ha appena parlato il dottore. Vado subito alla pagina del servizio di copertina, e leggendo le prime righe scopro con orrore che è proprio il presidente degli Stati Uniti. Cos’è successo? Dov’è finito Bush?!

Apro la bocca, senza riuscire a dire niente. Il dottor Cullen allunga la mano per richiudere il giornale, e mi indica la data scritta in piccolo vicino al bordo. 13 Giugno, 2011.

Guardo il dottore, guardo mia madre, guardo la data sul giornale e il volto scuro di quell’uomo che è il nuovo presidente degli Stati Uniti.

Ho davvero perso la memoria?

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Grazie per essere arrivati fino a qui :D Nel prossimo capitolo sarà tutto più chiaro, promesso.

Se volete ho un piccolo blog in cui posto spoiler/teaser e avvisi, lo trovate qui: Tra Sogno E Realtà

Grazie per ogni singolo commento, grazie a chi ha aggiunto la storia fra le preferite/seguite/ricordate, grazie anche a chi legge in silenzio.

A presto :*

   
 
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