Naive
Capitolo 19 – The choise
“ Who kicked a hole in the sky,
so the
heavens would cry over me? ”
(Oasis – Let there be
love)
Poche
persone sapevano cogliere le diverse sfumature di cui si tingeva la pelle umana
sotto la pioggia. La ragazza, gli occhi brucianti a causa delle gocce d’acqua
che scivolavano lungo il suo viso, lasciò che la propria mano ondeggiasse
avanti e indietro, sotto il proprio sguardo. “Meraviglioso” era un aggettivo che, secondo lei, non bastava a
descrivere ciò che stava osservando. Ognuna delle sue dita si sdoppiava,
lasciando piccoli pezzetti di pelle sospesi a mezz’aria prima che,
puntualmente, svanissero. Lo scroscio della pioggia che, incessante, si
abbatteva su Los Angeles non sembrava disturbarla. Al contrario, lo strano
rituale a cui aveva dato il via assumeva una nota mistica proprio grazie al
temporale. “Assolutamente meraviglioso”
e, mentre la mano destra continuava a disegnare cerchi invisibili nell’aria
densa d’umidità, la sinistra stringeva con forza sempre maggiore l’oggetto che
da ore non accennava a mollare. Il rumore di carta stropicciata si aggiunse a
quello dell’acqua. Era una sensazione fantastica: le sembrava di stare
stritolando il proprio mondo e, contemporaneamente, stava cercando di afferrare
ciò che ancora non aveva ai propri piedi.
-
Adrien! Per l’amore del cielo! – non udì nemmeno il rumore sordo della porta a
vetri aperta violentemente. Ogni secondo era di pieno stupore, osservando il
deformarsi ipnotico delle proprie dita. – Si può sapere che ti salta in testa?
– in una città generalmente calda come Los Angeles, gli ombrelli a disposizione
nelle case dei cittadini erano sempre troppo pochi e troppo piccoli. Quello che
Lisette afferrò per poter raggiungere la figlia, in piedi sotto il temporale propria al centro del lussureggiante giardino,
si dimostrò poi di una particolare inutilità. Pesanti gocce d’acqua piovana
intaccarono subito l’eleganza del tailleur della donna, non appena questa tentò
di mettere al riparo anche la ragazza. Adrien non accennò un solo movimento per
lasciar intendere di essersi accorta della presenza della madre. – Torna
dentro, diamine! – poche volte nella sua vita Lisette si era concessa
d’imprecare, un atto da lei giudicato volgare e plebeo, ed ogni volta il destinatario del gesto era lo stesso.
Sistemando una ciocca dell’impeccabile acconciatura dietro l’orecchio, la donna
tentò invano a parole di attirare l’attenzione della ragazza. Le bastò poi
un’occhiata ai suoi occhi, le due trappole mortali che tendeva ad evitare
durante i colloqui con la figlia, per capire che, in quel momento, per la testa
di Adrien non passava assolutamente nulla. Le pupille grigie erano dilatate ed
assenti. – Adrien! Rispondimi! -.
Solo
a quella supplica che aveva sentito pronunciare da Lisette un milione di volte,
la ragazza si volse a guardarla. Il sorriso che le distese le labbra era privo
di qualsiasi emozione e fu di breve durata, prima che Adrien tornasse con lo
sguardo verso l’alto, verso il cielo plumbeo. La mano che prima aveva sventolato
a mezz’aria in un gesto che Lisette non riusciva a comprendere portò nel campo
visivo della ragazza una ciocca dei suoi lunghi capelli bagnati. – Dovrei
rifarmi la tinta – a quell’affermazione, la donna spalancò la bocca senza che
da essa ne uscisse alcun suono. Qualsiasi discorso ragionevole, o per lo meno
di senso compiuto, avrebbe dovuto formulare in quel momento, era sicura che le sarebbe venuto in mente solo più tardi, lontano da una
figlia sorda e cieca. – Suppongo di essere innamorata – non c’era nulla di
frivolo o di romantico nella voce di Adrien: quella che pronunciò avrebbe
potuto essere un’affermazione come un’altra, sul tempo o sulle ultime vicende
politiche. Proprio per quell’inquietante motivo, Lisette capì che la ragazza
non le stava mentendo. La pioggia cominciò ad inumidirle i capelli biondi
quando, nell’emozione di quella nuova consapevolezza, si dimenticò di mantenere
l’ombrello diritto. Dopo anni di silenzio costante, sentiva sulle dita la
pressione del primo pezzetto di realtà di una figlia sconosciuta.
Quando
le braccia della madre si chiusero attorno alle spalle esili
di Adrien, la ragazza avvertì un profondo senso di fastidio a cui però non
diede particolare peso. Ogni attimo continuava a scivolare via velocemente,
sprecato, ed ella sapeva che non ne sarebbero trascorsi molti prima che Lisette
si rendesse conto che il suo sentimentalismo era soltanto un altro mattone nel
muro che le divideva. La profonda commozione della donna era un elemento come
un altro del paesaggio dei giardini della dimora dei Miller. – Mamma, il
bottone della tua giacca sta per saltare. – il braccio di Adrien, costretto a
piegarsi dall’abbraccio di Lisette, era ancora sospeso a mezz’aria ed occupato
nell’enigmatico rituale della mano. La sua voce, unita al rumore incessante
della pioggia, profumava dell’indifferenza con cui, ancora una volta, feriva la propria madre. Qualsiasi insulto, anche la violenza
fisica, ogni cosa sarebbe stata migliore di quell’impassibilità: quando Lisette
si decise a staccarsi da quel corpo tanto freddo
da sembrare senza vita, di riflesso si sentì morta dentro. – Adrien, ti prego,
torna in casa… - il flebile gemito delle sue parole si perse nel vento.
-
Ho da fare, mamma – lo faceva sembrare talmente semplice, lasciarla sempre con un
dolore lancinante al petto, inerme. Concentrandosi per non invocare il nome
della figlia implorandola di rimanere, cosa che Lisette si era sempre rifiutata
di fare, strinse la mano attorno al manico metallico dell’ombrellino con tutta
la forza che possedeva in corpo. Udì semplicemente i passi, eleganti ed
aggraziati come sempre, di Adrien percorrere il lembo di terra che la separava
dal suo rifugio, dalla dependance. L’unica cosa che attirò la sua attenzione
nel tumulto che aveva in testa fu il fastidioso suono simile a quello di un
foglio accartocciato. Prima di lanciarsi nella solita uscita di scena da
vincitrice, Adrien si era curata di pestare col tacco l’oggetto bianco che in
quel momento giaceva sul prato, sotto lo sguardo di Lisette. La donna sospirò,
esausta come se avesse vissuto dieci anni nel giro di un secondo. Poi, si chinò
a raccogliere da terra la foto che la figlia s’era premurata di farle
pervenire. “Oh, Adrien” come se non
conoscesse già a memoria le fattezze della persona nella foto. Lisette sentì
subito l’impulso forte di stringere a sé Alan, ovunque il marito fosse in quel
momento. Voltandosi, scoprì Annalou, la sua dolce, piccola principessa,
fissarla attraverso le porte a vetri della villa. Negli occhi solitamente
vivaci della ragazzina ritrovò l’ombra della tranquillità con cui Adrien
solitamente guardava le proprie vittime, prima di appiccare loro fuoco. Abbassò
le palpebre, escluse il mondo dalla propria testa ed infine si sentì
profondamente fallita.
-
Avanti. Con questo abbiamo finito. – in tutti gli anni della propria carriera
scolastica, Saul Hudson, in arte Slash, non aveva mai fatto mistero della
repulsione che provava puntualmente davanti ad un libro su qualsivoglia
materia. Chiunque avrebbe affermato, davanti alla visione del ragazzo
letteralmente stravaccato sulla cigolante sedia della biblioteca, il collo
reclinato all’indietro e la bocca spalancata in una simulazione di morte, che
Linda Johnson meritava il premio come migliore insegnante degli Stati Uniti.
Come maestra d’asilo. – Avanti, un
ultimo sforzo. Devi rispondere alle domande che ti pongo, poi insieme contiamo
gli errori. – la voce della ragazza, con il capo immerso in un grosso tomo
dalle fitte spiegazioni, tradiva una certa esasperazione. Linda era però nota
ai numerosi tredicenni a cui aveva dato ripetizioni anche per la sua infinita
(e, talvolta, impossibile) pazienza.
Aspettò con un sorrisetto apprensivo sulle labbra che Slash emettesse un verso
gutturale di assenso, prima di domandare – Come mastro Chicot uccide sua zia
Magloire? -. La speranza che, nel silenzio religioso piombato improvvisamente
sul tavolo di lavoro, la ragazza nutrì era palpabile. Il riccio sembrava infatti particolarmente concentrato per trovare la
risposta. – La fa ubriacare, no? Con quel cazzo di fusticino. – Linda non gli permise di andare oltre. Mantenendo con
fatica un’espressione comprensiva, ma portando istintivamente le dita a
massaggiarsi le tempie, disse. – In francese,
Slash. Stiamo ripassando francese. -.
La
risatina che provenne dalla terza figura, nascosta nell’ombra dall’inizio della
lezione, provocò un sobbalzo sia nell’indisciplinato allievo sia nella maestra.
Era il primo suono diversa da un grugnito primitivo
che Duff emetteva da quando era giunto in biblioteca. – Ma non l’avevi detto! E
tu cosa ridi, cazzone? – diversi cori di “sssh” si
levarono dagli alti scaffali della stanza, cosa che si era ripetuta ogni cinque
minuti dopo l’arrivo del trio. – Chiedilo a lui, scusa! – offeso per la
figuraccia appena commessa, Slash indicò con rabbia l’amico, che si affrettò ad
abbassare gli occhi sul libro di letteratura francese, una delle materie da lui
più odiate. Non aveva neanche la più pallida idea di chi fossero mastro Chicot
e zia Magloire. – Okay. – dopo essersi concessa un lungo respiro ed aver capito
che gliene servivano altri cento, Linda richiuse con
gentilezza il proprio libro, alzando lo sguardo sul riccio con un sorriso
materno. – Okay. Evidentemente non è giornata: ci troviamo
domani alla stessa ora e ricominciamo da capo. E dite a Steven di farsi vivo, ogni tanto. – non c’era alcun
risentimento per la lezione disastrosa, l’ultima di una serie che andava
aumentando paurosamente.
-
Scusa, piccola – Slash non notò nemmeno il lieve irrigidirsi della ragazza
quando, pronunciando quel “piccola”
con disinvoltura, fu chiaro che non intendeva rivolgersi a lei con malizia, ma
sottolineare invece la sua fragilità. Il riccio era troppo impegnato ad
assicurarsi che le cuciture del proprio zaino non cedessero sotto il peso di
tutti i libri di testo. – Ma ho un appuntamento, se capisci che intendo… - un
occhiolino malizioso seguì quelle poche parole, a cui Linda rispose con un
sorriso di circostanza, senza intendere alcunché.-
Ti prometto che per domani saprò tutto! Te lo giuro su… su… beh, te lo giuro! Au revoir!
– la pronuncia di Slash era così terribile dal provocare brividi lungo la
schiena della brunetta. Duff non fu più in grado di trattenere una risata
balorda, che suscitò subito numerose proteste dagli individui, a parere del bassista sinistri e viscidi, che si aggiravano per la
biblioteca. – Non te la prendere, ma me la filo anch’io – no, Linda non se la
sarebbe presa: se l’aspettava, rassegnata. Alzò lo sguardo su Duff per
incontrare negli occhi verde cupo il senso di colpa che il ragazzo stava
provando per l’ennesimo due di picche dato alle ripetizioni. Il sorriso gentile
della ragazza s’incrinò un poco, ma non scomparve. – Figurati. Credo che andrò
a casa anch’io. – gli occhi scuri di Linda si ridussero però a due fessure, mentre
una strana sensazione s’insinuava in lei. Era
tristezza quella sul viso di Duff o…?
Ascoltare
Duff blaterare sull’ultimo disco di chissà quale sconosciuta band, mentre i
loro passi risuonavano sotto i portici deserti della Renton High School, le
procurava ancora un lieve dolore al petto. Quando Linda si trovò a dover fare
passare per un colpetto di tosse un sospiro piuttosto rumoroso, scoprì anche di
non ricordare le parole che Steven le aveva ripetuto per quasi cinque mesi. I
moniti dell’amico divenivano un mantra che si ripeteva prima di andare a
dormire, ma che puntualmente rimuoveva dalla testa davanti a Duff McKagan. “Linda Johnson, sei davvero un rifiuto umano” pensò la ragazza con un gran
sorriso, mentre il biondino al suo fianco continuava la propria litania sugli
AC/DC. Alcuni raggi di sole le colpirono il viso, costringendola a socchiudere
gli occhi. L’aria di Los Angeles era un miscuglio di umidità e gas di scarico,
il tipico odore che sopraggiungeva dopo un acquazzone come quello precedente. -
… assurdo! Cioè, non so se mi spiego, ma quell’uomo riesce a suonare come un
Dio la chitarra, a fare di corsa un palco di cinquanta metri, avanti e
indietro, e non è mai stanco. Capisci
che intendo? – “No” avrebbe voluto
rispondere Linda. Per una volta, sarebbe stata completamente sincera con sé
stessa. – Duff, ti devo dire una cosa. – le parole le scapparono di bocca
talmente velocemente da renderle irreali, come frutto della sua immaginazione.
Ma,
a dispetto delle sensazioni e dell’ansia di Linda, Duff aveva compreso ogni
parola dell’interruzione della ragazza. E, con lo stesso atteggiamento di un
condannato all’ergastolo davanti al tono grave dell’amica, si chiese perché
eventi di una certa importanza sembrassero essersi condensati in un’unica
giornata. – Cosa? – maggio, oltre ad un notevole aumento delle temperature,
aveva comportato l’affollarsi attorno alla scuola di un cospicuo numero di
studenti a rischio di bocciatura. Un paio di studenti li salutarono quando
raggiunsero l’uscita della scuola. Senza fare caso al silenzio che era sceso a
separarlo da Linda, Duff prese a frugare dentro la propria malandata borsa,
alla ricerca di un pacchetto di sigarette schiacciato. Quando se ne accese una,
ricevendo un’occhiataccia da una ragazzina di passaggio, sentì crescere in sé
un senso di soddisfazione. Poi lo sguardo del ragazzo cadde sul volto di Linda,
cancellando ogni tranquillità: sembrava che la moretta fosse sul punto di avere
un attacco d’asma. La ragazza infatti teneva lo
sguardo fisso a terra e respirava con la bocca dischiusa, quasi in
iperventilazione. – Linda, ma ti senti b…? – il biondino non finì mai la frase.
Nello stesso momento in cui aprì bocca, Linda si volse verso di lui di scatto,
in preda a quella che sembrava una crisi mistica. – Mi piaci. Un sacco. Tu mi
piaci un sacco. Ecco. -.
“Oh!”. Entrambi spalancarono gli occhi dallo
stupore, cercando con fatica di assimilare ciò che era appena accaduto. L’eco
delle parole di Linda nelle loro teste era così potente da sembrare reale,
tanto che, per un momento, i ragazzi si scordarono del luogo in cui si
trovavano, degli argomenti di cui avevano discusso in precedenza, dell’amicizia
che fra loro c’era sempre stata. Nonostante il suo cervello gli stesse
impedendo produrre una qualsiasi fra di senso compiuto,
Duff aprì la bocca per dire qualcosa che rompesse il silenzio, che per lo meno
impedisse a Linda di guardarlo come paralizzata. Si dimenticò però di avere la
sigaretta appena accesa in bocca. – Cazzo! – imprecò, quando la sottile stecca
bianca cadde sulla ghiaia del viale d’ingresso della Renton. Il ragazzo si
chinò frettolosamente a raccoglierla, bestemmiando senza pudore, prima di
rialzarsi e gettarla lontano. Il suo sguardo afflitto per quella perdita cercava di mascherare la
confusione che in lui regnava. Quando si decise a portare nuovamente gli occhi
verdi sulla moretta al suo fianco, dopo interminabili minuti di nulla, la
scoprì con il volto coperto dai capelli, il capo chino a terra. – Linda… -
incominciò, passandosi sulla fronte per scostare una ciocca ribelle, capendo di
stare comportandosi da perfetto idiota. – Linda, non so che dirti… - nella
mente del ragazzo, fioccarono complimenti sarcastici verso la propria
eloquenza.
-
No! – lo interruppe bruscamente Linda, rialzando di scattò
la testa senza però avere il coraggio di guardarlo negli occhi. “Oddio, l’ho fatto. L’ho fatto sul serio.” – Cioè… No, non
c’è bisogno che tu dica qualcosa. Io non mi aspetto… - quali erano le parole
giuste, in un momento del genere? O, per lo meno, esistevano? Linda temeva
l’attimo in cui avrebbe dovuto alzare lo sguardo verso il volto di Duff, su cui
era certa di trovare un’espressione di pietà, o di derisione. -… Niente. Non mi
aspetto niente. Non so neanche perché l’ho detto. – non lo sapeva proprio. La
ragazza aveva sentito un improvviso impulso, dettato da un inconscio che doveva
essere stato ubriaco, per portarla a
muovere un passo del genere. Due anni di amore silenzioso e devoto, come solo
un adolescente appassionato e carico d’immagini di telefilm può riuscire a
provare, che aveva buttato al vento con una dichiarazione penosa. – Insomma, tu
stai con Adrien, e io non avrei dovuto parlare. Non so cosa mi sia preso,
scusami tanto. – la moretta avrebbe voluto con tutta sé stessa gettare a terra
i libri e correre lontano, a seppellire sé stessa e la propria idiozia. Ma le
gambe avevano assunto improvvisamente la stessa consistenza della pietra,
impedendole di muoversi.
-
Ho mollato Adrien – affermarlo fu come un riflesso, dettato dal puro istinto,
anche se si sentiva come se non fosse ancora in grado di comprendere il reale
significato di quelle parole. Probabilmente, l’anima di Duff aveva realizzato
molto tempo prima che la sua storia (se così si poteva definire) con la rossa
era finita, ma la sua testa ci avrebbe impiegato ancora un po’ per
comprenderlo. “Oh!” Linda sapeva che
quel barlume di speranza che, alle parole del biondino, si era acceso
improvvisamente nel suo cuore era sbagliato, oltre che masochista da parte sua.
Ma, nonostante quella consapevolezza, la ragazza non riuscì a non sollevare
ulteriormente il viso, gli occhi sul cancello della Renton, prima di mormorare
con un filo di voce in più. – E… -. Appena Duff capì che la situazione in cui
si era deciso a rivelare il suo rinnovato status di single era decisamente
quella meno appropriata, riprese ad insultare la propria sfortuna. Quella
giornata si stava rivelando più lunga e complicata del previsto; – Niente,
Linda. Tu per me sei una grande amica. – e quello era invece uno dei momenti
più imbarazzanti della sua vita. Con lo sguardo percorse i tratti delicati del
viso dell’amica mentre su questi compariva una delusione dall’aspetto antico.
-
Certo. Sul serio, va bene così. – stranamente, non appena Duff confermò ciò che
da tempo conosceva, Linda si sentì bene come mai le era capitato in vita sua. “L’ho fatto sul serio” un sorriso sereno,
che copriva la tristezza profonda che era normale in un simile frangente, le
distese il viso. Forse ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo prima che
potesse sentirsi in pace con sé stessa, ma il macigno che solitamente le pesava
sullo stomaco si era dissolto. – Io… - al contrario di molte persone della sua
età, il biondino poteva affermare di non aver mai subito pesanti mutazioni
caratteriali, nell’arco della sua breve vita. Era sempre stato poco abile nel
destreggiarsi con le parole, forse a causa della semplicità genuina che
racchiudeva in fondo al cuore. – In questo momento, ho davvero bisogno di
un’amica. – sapeva che la domanda racchiusa in quell’affermazione apparentemente
casuale era pesante da rivolgerle, in un momento del genere. Proprio per questo
evitò d’incrociare immediatamente lo sguardo di Linda, aspettandosi da lei
un’espressione risentita ma giusta. Quando però ebbe il coraggio di sollevare
gli occhi, trovò soltanto una straordinaria dolcezza appena velata d’ombra. La
verità era che, a differenza di quanto avrebbe fatto lui al suo posto, la
ragazza aveva deciso di accontentarsi, ma questo il Duff non sembrava capirlo.
Sarebbe stata una spalla su cui trattenere le lacrime, un ripiego, sarebbe
stata come… “Steven” – Vieni qui –
Linda allargò le braccia, prima che il biondino la raggiungesse e la avvolgesse
nella propria stretta. La ragazza abbassò le palpebre, godendosi con dolore
quei pochi attimi di felicità anche un po’ finta, ma che per il momento le
bastava. Poi riaprì gli occhi e la vide.
Adrien
se ne stava davanti al cancello, immobile. Doveva essere appena arrivata, ma a
Linda parve che in realtà li stesse osservando da lontano da molto tempo. – Duff…-
bastò un colpetto veloce sulla spalla e l’udire il tono improvvisamente
allarmato dell’amica per capire. In cuor suo sapeva che era una cosa assurda,
ma aveva sentito gli occhi grigi della rossa scuotergli le vertebre della
schiena, avvertendolo del suo arrivo. Sciolse quindi l’abbraccio, voltandosi
verso il verdetto. Subito il ragazzo intuì che qualcosa, più del solito, non
quadrava. La lunga chioma era umida, le incorniciava il viso
cereo arruffata, e la tinta stava iniziando a scolorire. Ma era l’espressione
sul viso di Adrien a rassicurarlo poco, e per istinto il biondino sapeva che,
quando accadeva qualcosa del genere, non c’era da aspettarsi nulla di buono. In
quelle pozze di piombo che erano gli occhi della ragazza, qualcosa si era
trasfigurato. Lentamente, dallo stato di paralisi in cui l’aveva vista, la
rossa indossò una nuova maschera, distorcendo i lineamenti aristocratici del
viso per un’emozione che andava oltre la rabbia. La osservò coprire la distanza
fra lei e il luogo in cui si trovavano lui e Linda con ampie falcate, diversa,
terribilmente simile alla persona malvagia che si era sempre rifiutato di
vedere. Accadde tutto in pochi secondi. Quando Adrien si trovò davanti a loro,
alzò la mano per caricare con potenza: Duff chiuse gli occhi, attendendo la
potenza dello schiaffo forte della decisione che non avrebbe abbandonato. Il
suono del colpo risuonò per tutto il parco.
-
Te l’avevo detto! – riaprì di colpo gli occhi: lo schiaffo, che aveva pensato
si sarebbe scaricato contro la sua guancia, non era arrivato. Sul volto di
Adrien c’era il demone che aveva sempre tenuto nascosto, mentre guardava con
ira profonda Linda. La ragazza aveva portato la mano nel punto in cui la rossa
l’aveva colpita con tutta la propria forza, piegata su sé stessa sia per la
sorpresa che per il dolore. Istintivamente, Duff arretrò: quel gesto l’avrebbe
tormentato, quella sera, ma in quel momento non poté non optare per la
vigliaccheria. Perché, nel momento stesso in cui Linda aveva fatto cenno di
rialzarsi, Adrien aveva colpito ancora. Con una ginocchiata che l’aveva colpita
in piena fronte. – Te l’avevo detto di stargli lontano! – la voce che gridava
non era neanche lontanamente simile a quella suadente della persona che aveva
amato per mesi. Impietrito, guardo Linda cadere a terra, sulla ghiaia fredda
del vialetto, mentre i suoi gemiti di dolore riempivano l’aria. La rossa
continuava a divorarla con gli occhi, in preda ad una furia incredibile:
aspettò qualche secondo, quasi per assicurasse che il
colpo precedente avesse messo fuori gioco la sua avversaria, prima di calciarla
ancora all’addome.
-
Ma che diavolo stai facendo? – quando si decise ad agire, Duff si mosse come
governato da un’altra entità. Una folla di curiosi fra coloro che ancora si
trovavano a scuola si era già radunata attorno alle due ragazze, senza però
muovere un dito per fermare Adrien. Il biondino si tuffò in avanti, alle spalle
della rossa, afferrandola per la vita ed allontanandola da Linda stesa a terra
prima che potesse peggiorare la situazione. L’ennesimo urlo disumano della
ragazza riecheggiò nell’aria, mentre questa scalciava per liberarsi dalla
stretta di Duff. – Cazzo! Stai ferma! – protestò a sua volta il biondino,
lasciandola cadere malamente quando gli fu chiaro che non sarebbe riuscita a
trattenerla ancora per molto. Gettò un’occhiata di traverso a Linda, la quale
era già stata attorniata da un ronzio di voci confuse, prima di posare
nuovamente gli occhi su Adrien. La ragazza aveva ritrovato l’equilibrio, ma
fremeva d’emozione ed ancora gli dava le spalle. Quando però si volse a
guardarlo, un moto di paura, vera paura, si sollevò nell’animo del biondino.
Negli occhi spalancati ed iniettati di sangue di Adrien, qualcosa gli affondo
un pugnale nel petto. Il volto che gli aveva fatto perdere la testa era
scomparso, sostituito da un’espressione che, vittima di quell’esperienza
extracorporea che stava vivendo, non si sarebbe ricordato. Non era più così
bella.
Approfittò
subito di quell’incertezza che era lampante negli occhi verde scuro del giovane.
Prima che Duff se ne rendesse conto, una bocca avida ed esigente aveva coperto
la sua, mentre il tocco violento di due mani familiari lo costringevano a quel
contatto. In quello che nemmeno meritava il nome di bacio, Adrien aveva chiuso
in modo romantico gli occhi, forse trasportata da una
favola velenosa che aveva creato attorno a sé, attorno a loro. I mormorii della
gente, le indicazioni, la folla fu immediatamente qualcosa di lontano, e il
ragazzo fu tentato di stringere ancora quel corpo caldo fra le braccia. Sapeva
che non vi avrebbe trovato altro che finzione, ma non poteva fare a meno di
desiderare ancora l’immagine di Adrien, l’unica cosa di lei che gli aveva
suscitato un amore devoto. In un secondo, le mani grandi del biondino furono
sui polsi della ragazza, spingendola con brutalità lontano dal proprio cuore.
Le sottili labbra di storsero in un ringhio per
perforò i timpani del povero Duff. Uno davanti
all’altra, si fronteggiarono. “Amami. Amami, amami,
amami. Amami nonostante tutti, nonostante tutto. Ama tutto di me. Amami, ti prego.” la supplica
nell’animo della ragazza rimase nascosta, e lo sarebbe stata per sempre.
Scosso dall’odio e dall’amore, Duff sputò poche, coincise parole. – Tu sei
pazza. -.
-
Qualcuno la porti in infermeria! – fu il richiamo dietro alle
sua spalle, voce sgraziata di una ragazzina qualunque, a riportarlo alla
realtà. Linda era ancora a terra, rinvenuta dai colpi ma con una guancia
coperta del sangue che le sgorgava da un taglio sul sopracciglio. La moretta si
teneva anche una mano sulle costole, nel punto in cui quella l’aveva colpita: un tipo nerboruto la stava aiutando ad
alzarsi. “Linda. Adrien. Linda.” – Cazzo! – imprecò,
inginocchiandosi davanti all’amica, che aveva lo sguardo spento di chi non ha
del tutto chiara la situazione. Mentre il ragazzone la sollevava di peso,
avendo compreso che la ragazza non era in grado di alzarsi, Duff si gettò
un’occhiata alle spalle. Era stata come un fantasma. Adrien si era
semplicemente dissolta, lasciando l’eco del proprio sguardo allucinato ad
allineare le particelle di polvere in un ricordo inquietante. Il biondino
deglutì, avvertendo un senso di vertigine, l’origine del
quale era poco chiara. – Andiamo – mormorò, mentre la popolazione
studentesca della Renton si divideva fra i soccorritori della vittima e coloro
che avrebbe portato il succulento pettegolezzo per tutta Los Angeles. Di
quell’angelo, di quel demonio, neanche l’ombra. Con fatica, Duff si rialzò in
piedi e seguì il gruppetto diretto all’infermeria.
Non
fu in grado di allungare lo sguardo oltre le grandi spalle di quel ragazzone,
per accertarsi che Linda stesse bene. Forse perché non l’aveva vista
allontanarsi dalla scuola con i propri occhi, ma era come e la presenza di
Adrien fosse alle sue spalle, in mezzo a quel gruppetto di facce poco note che
stava attraversando i corridoi, bisbigliando. Ad ogni passo gli sembrava che il
pavimento fosse sul punto di sfuggirgli da sotto i piedi, ad ogni secondo che
passava si faceva più forte la sensazione di essere prigioniero nel corpo di
qualcun altro. Alcuni degli insegnanti ancora a scuola si avvicinarono,
chiedendo spiegazioni, ma Duff non avvertì nessuno
delle decine di occhi che si posarono su di lui. L’unica cosa su cui si sentiva
in grado di concentrarsi era respirare: la sua testa era talmente piena di
pensieri, ricordi, azioni che non avrebbe mai compiuto da scollegarlo dal resto
del mondo. – Io mi fermo qui – non riuscì a capire nemmeno lui a chi si stesse
precisamente rivolgendo. Il drappello di gente infatti,
dopo aver salito le scale, passò davanti alla fila di armadietti verdastri,
ovvero ciò che era stato il suo palcoscenico, quella mattina. Immobile
all’improvviso al centro del corridoio, in un silenzio fatto del ronzio
incessante del mondo, il ragazzo si portò una mano al collo, trovando soltanto
il bordo della maglietta ruvida.
Adrien
Miller era senz’altro capace di nascondere i propri segreti gelosamente:
l’alone di mistero che l’avvolgeva era difficile da dissolvere. Ma era umana,
si ritrovò a pensare stranamente Duff, mentre con lo sguardo cercava
l’armadietto della ragazza. Era umana, e come il resto della sua razza
commetteva errori anche piccolissimi, ma comunque reali. E il suo sbaglio più
grande era senza dubbio la supponenza, che colore che l’avevano rimirata in
quegli anni avevano contribuito a costruire. Il biondino allungò le dita verso
quella scatoletta dall’alluminio arrugginito, degnando appena di uno sguardo il
numero 91 disegnato sopra in vernice nera. Adrien Miller custodiva segreti
pericolosi per gli altri e per sé stessa, e Duff poteva vantarsi per averne
scoperto anche solo una piccolissima parte. Il codice d’apertura
dell’armadietto scolastico della ragazza era uno di quelli: era bastata
un’occhiata, un giorno come tanti, per memorizzare una sequenza di numeri
apparentemente casuali. La cassaforte dove Adrien aveva rinchiuso la catena col
lucchetto che il biondino era solito portare al collo era ora fra le sue mani.
E quando ne vide l’interno, il ragazzo rimase completamente senza fiato.
Libri
di scuola, cartacce, un walkman ultimo modello, tutti questi oggetti giacevano
sul fondo del mobile, innocui, comuni. Nessuno di loro saltava all’occhio, non
quando le pareti dell’armadietto erano rivestite di parole: volti sorridenti lo guardarono appena aprì l’anta
scrostata, titoli altisonanti lo accolsero, accattivanti. L’armadietto di
Adrien era stato accuratamente foderato di giornali ingialliti o meno,
strappati in malo modo ed appesi con una buona dose di nastro adesivo. E
l’affascinante viso che spiccava sulla carta era sempre lo stesso. “Tu sei pazza” la voce che stava
monopolizzando i suoi pensieri era la sua, ma il reale significato di quelle
parole gli fu chiaro soltanto dopo aver letto il primo degli innumerevoli
titoli. “06 Maggio 1979: rampollo della
Miller&Co. scompare senza lasciar traccia” eccolo lì, il suo lucchetto
argentato, sopra la pila di libri di scuola improvvisamente troppo puri per un
posto del genere. Proprio sotto la foto di quel giovane attraente e così simile
alla proprietaria di quell’ammasso di latta, che per Duff era sempre stato solo
un fantasma.
Fu
come se, dopo anni di cecità, la luce gli si fosse parata davanti con tutta la
propria potenza accecante. L’impulso di scappare lontano era forte, alimentato
da tutto quel tempo trascorso da quando aveva iniziato a provare quell’istinto,
ma contemporaneamente non riusciva a staccare gli occhi di Reese Miller.
Strinse la catena di sua proprietà in una mano, il lucchetto di sicurezza
dell’armadietto nell’altra: le cifre erano allineate in modo da comporre il
numero 1979. Ogni foto presente era
in bianco e in nero, ma Duff era certo che, se fossero
state a colori, avrebbe ritrovato gli occhi di ghiaccio di Adrien nel sorriso
affabile di un Reese Miller che esisteva soltanto per la sorella. Quel
giovanotto così carismatico aveva abbandonato una tredicenne, esattamente sei
anni prima: l’aveva costretta a crescere troppo in fretta, a pretendere l’amore
che lei stessa aveva provato per la figura del fratello maggiore, nonostante tutto
ciò che Reese aveva fatto per tradirla. “Amami,
ti prego” era stato forse l’unico col coraggio di donare ad Adrien quella
devozione totale che lei stessa racchiudeva per lo spettro di quegli articoli
di giornale? Duff non era certo di voler sapere la risposta. Sapeva di stare
celando la verità al mondo, rinchiudendola nel proprio cuore, ma in quei pochi
attimi si rese conto di essere assolutamente convinto delle proprie scelte.
Chiuse gli occhi, chiuse l’anta dell’armadietto, chiuse quel capitolo della sua
vita. Poi, si precipitò in infermeria.
“
E’ come sai, tu sei per me colpevole:
quello che fai non
crea più attenzione,
non coinvolge. ”
(Verdena – Phantastica)
NOTE
DELL’AUTRICE
E
siamo arrivati al capitolo più importante! Non l’ultimo, ma il più importante u.u Diciamo che stranamente alcune parti mi soddisfano
abbastanza, ma l’insieme potrebbe essere risultato pesante. Spero in commenti
positivi, sono nervosa come al solito :P siamo quasi alla fine, e non voglio
rovinare la storia.
In
questo capitolo ci sono parecchie citazioni nascoste.
La
prima, l’avrete riconosciuta tutte, è chiaramente riferita alla canzone “Another brick in the wall” dei meravigliosi Pink Floyd, situata in uno dei
primi paragrafi su Adrien e Lisette. All’inizio della storia, mi sono scordata
di dirvi che la madre di Adrien mi è stata ispirata dalla figura di Lisette deZoete, la zia di Rianne nel
libro “Il mondo ai miei piedi” di
Leslie Lokko.
Mastro
Chicot e zia Magloire sono personaggi di una novella di Guy
de Maupassant, “Il
fusticino”. In questo ultimo periodo mi sto appassionando a questo autore,
perciò non so se definire oltraggioso il modo in cui ne parla Slash xD ma, del resto, Slash rimane comunque adorabile.
“Amami.
Amami, amami, amami. Amami nonostante tutti, nonostante tutto. Ama tutto di me.
Amami, ti prego.” e in
riferimento molto libero al libro “Invisible monsters” di Chuck Palahniuk ed al
personaggio di Evie negli ultimi capitoli. Quello scrittore è un genio.
La
data della morte di Reese dovrebbe essere coerente a ciò che ho scritto in
precedenza: alla scomparsa del fratello Adrien aveva tredici anni, nel 1985 la
ragazza ne ha diciannove. Se c’è qualche errore, avvertitemi pure.
Infine,
non posso fare a meno di sottolineare che siamo giunti alla terza canzone dei
fantastici Verdena che inserisco come citazione nei capitoli di questa storia.
Evidentemente, i loro testi psichedelici sono fonte d’ispirazione per un
personaggio psichedelico come Adrien.
Per
quanto riguarda la fantomatica sorpresa, ci sto lavorando xD
non so per quando sarà pronta, ma vi prometto che riuscirò a pubblicarla. Anche
con la terza influenza nell’arco di due mesi.
Un
bacione a tutte le persone che mi sostengono: via adoro!
Bye, darlin!