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Autore: Quintessence    05/03/2011    13 recensioni
Il Destino ci narrò storie di coraggio su Sailormoon, su quello che furono le Senshi, sulla venuta di Chaos. E ognuna di noi sapeva che l'umanità sarebbe vissuta. Che l'accecante potere del Ginzuishou avrebbe toccato tutti. Che Serenity avrebbe vinto anche l'ultima sfida, sconfitto anche la Catastrofe finale, creando la nuova e Luminosa Crystal Tokyo.
Il Destino aveva parlato. Noi avevamo creduto.
Oggi, però, il Destino è cambiato.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ami/Amy, Makoto/Morea, Minako/Marta, Rei/Rea, Usagi/Bunny
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la fine
Capitoli:
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Leggeri avvertimenti sui temi di questa storia: so che sono molto forti. Si parla di autolesionismo, e con tutta probabilità nei prossimi capitoli parlerò di bulimia. Se vi infastidisce, bye bye. In effetti uno dei motivi per cui l'ho iniziata è dare una voce a chi una voce non ce l'ha. In silenzio, queste persone soffrono molto. "La Solitudine dei numeri primi", di Giordano, ne aveva parlato con velata e dolcissima sincerità, tanto che mi aveva fatto scappare lacrime di commozione. Io ho voluto comunque parlarne, ma con più forza, e soprattutto con l'idea che tutto quello che c'era di felice c'è ancora, da qualche parte nelle stelle. E di stelle ce n'è per tutti. Sempre. Quindi se affidate tutto quello che avete di felice o di speranzoso alle stelle, siate fiduciosi. Un giorno ve lo renderanno. Vi racconterò come l'hanno reso a Rei, a Minako, a Makoto, ad Ami, a Usagi. Ho preso in prestito i loro personaggi perché so che sono forti, che sono umani, e che da sempre insegnano qualcosa. Ma che in qualche modo, tutti possiamo cadere. Le senshi ci insegnano la forza di rialzarci, no? In questa storia, vorrei renderlo terribilmente chiaro; la mia storia, è una storia di coraggio. Per dimostrarvi che per loro non è stato il Destino a scegliere, ma il loro coraggio. Che hanno vinto una battaglia molto più difficile che un semplice  scontro con due mostri. Sicuramente, per ciascuno, la scelta arriva dal profondo. E di chi sarà il coraggio, allora?


01 – Rei

Riflessioni su Rei e sulla sua voglia di farsi del male. Sul suo sentirsi in colpa. Una prima puntualizzazione sulla tragedia. Una prima puntualizzazione sulla Grande Lite. Obiezioni sulla lametta e divagazioni sulla vita. I guess.

 

La ragazza al volante, testa nera e ribelle e occhi viola -asciutti- guidava leggermente tesa, aveva solo 18 anni. Aveva appena preso la patente. Tornava da una festa che l'aveva appena ufficializzato con tutti i suoi amici, ed erano in cinque in macchina.
C'era Usagi accanto a lei, e rideva gettando la testa all'indietro come solo Usagi sapeva fare, e contagiava tutta la macchina, tutte e quattro loro. Makoto rideva più forte di tutte, con quel suo modo di fare mascolino, e Minako invece squittiva. Ami cercava di contenersi ma non riusciva a non singhiozzare risate sommesse. Rei le guardava nello specchietto retrovisore e sorrideva, i fari che inondavano una strada scura.
Un semaforo lampeggiava di arancione, questo Rei lo ricordava meglio di ogni cosa. Lampeggiava così, uno, due, uno, due. La notte i semafori non servono, per questo li spengono. Ami diceva sempre che era una stupidaggine, perché anche di notte le macchine vanno in giro. Minako invece diceva che era meglio così, c'è meno gente di notte e almeno chi c'è può passare velocemente. Proprio in quel momento stavano discutendo di questo fatto, forse per quel motivo Rei lo ricordava meglio di ogni cosa. Per un secondo, -uno solo- o forse anche meno, aveva girato la testa per controllare che da destra non venisse nessuno. L'aveva fatto anche a sinistra, poi era passata senza rimettere la prima.
A quel punto Usagi aveva urlato, qualcosa che suonava come Sua, fusa, o chiusa, che Rei non aveva capito. Makoto si era attaccata alla maniglia della portiera, e Minako si era piegata in avanti. Rei aveva pestato il piede, e la macchina si era riempita di grida.
Rei aveva stretto i denti, e schiacciato di più, più forte, e ancora di più, fino a far stridere le pastiglie, a consumare l'asfalto, finché il ginocchio non le faceva male, che sembrava andare a fuoco. Aveva sentito l'osso girarsi dentro la gamba, ma aveva stretto più forte il volante, le nocche bianche dallo sforzo, e s'era imposta di non urlare. Non l'aveva fatto.
La macchina si era fermata a pochi centimetri da quello che doveva essere una carcassa, un incidente precedente. Forse di pochi minuti, o come spiegarsi l'assenza di polizia? E perché non aveva le luci accese, quel coglione?! -Rei aveva la bocca aperta e il viso contratto nello sforzo. Nello specchietto retrovisore, lo sguardo viola le aveva restituito il panico più puro.
Usagi le aveva posato una mano sulla coscia.
« E' tutto ok... » -Aveva detto, ma la sua voce tremava. Tutte si erano spaventate. Rei aveva guardato di nuovo nello specchietto. Tre sguardi inondati di terrore. Quello di Ami, anche di lacrime. Deve aver pregato, si era detta Rei.
« State... tutte bene? » -Aveva chiesto con voce vibrante, voltandosi del tutto, mentre mollava la frizione e la macchina si spegneva, lasciandole inghiottire dal buio della città. Le aveva guardate negli occhi, questa volta non attraverso lo specchio. Stavano bene. Solo allora Rei s'era abbandonata sul sedile, con il fiato corto, distendendo il ginocchio dolorante e cercando di recuperare la calma, cercando di frenare i battiti del suo cuore, partiti all'impazzata. Appena in tempo, cazzo.
E poi, aveva guardato a destra. Una luce l'aveva accecata. E, come una mano di gigante, aveva sollevato la macchina.

~

Esattamente nove anni dopo, Rei si trovava nel suo tempio, nella sua stanza, rannicchiata sul futon, e da circa mezz’ora fissava la sua amica dal ghigno argentato. Piangeva.
Ottocentodue.
Da due anni contava tutte le volte che era scoppiata a piangere. E ottocentodue era un numero piuttosto interessante, tenendo conto che trecentosessantacinque per due fa settecentotrenta. Aveva pianto quasi ogni giorno.
Era tutto impolverato, in quella stanza bianca, e pieno di vecchie bambole e giochi, ma a Rei non importava. Aveva i capelli in bocca, tutti impastati dalla saliva, e sporchi, e sudati, che le facevano salire conati di vomito ad ogni respiro. Da quanto non faccio una doccia? -Ma non le importava, piangeva e fissava la sua amica dal ghigno argentato. Piangeva lacrime salate e che le inondavano gli occhi viola e i sudici veli neri appiccicati al volto. Deglutì, e le parve di mandar giù cocci di vetro.
Strinse i denti, si mise una mano sul ventre e tentò invano di regolarizzare il respiro. Per qualche secondo smise di piangere, chiuse gli occhi e si calmò.
Ottocentodue.
Da due anni contava tutte le volte che era scoppiata a piangere per quello che era successo. Ottocentodue volte su ottocentodue. Cento per cento. Le comparve con forza nel buio degli occhi serrati la notte di nove anni prima, per l'ottocentoduesima volta. E probabilmente, molto di più, visto che contava solo da due anni. Ma com'era stato possibile? Come? Perché quei due imbecilli, che avevano fatto uno scontro in pieno incrocio non avevano segnalato la cosa? Perché le luci erano spente?
Quante volte si fosse fatta questa domanda, Rei non lo sapeva. Erano le cose che non contava più.Dopo nove anni che ti chiedi una cosa, smette quasi di esistere per te. Fluttua nell'aria, sempre. La respiri, quella domanda.
Rei si rigirò sulla schiena, e guardò il soffitto. Era candido come tutto il resto della sua stanza, con l'eccezione di un pezzo d'intonaco staccato a metà. Dovrò metterlo a posto. Ma non lo avrebbe fatto, e lo sapeva. Perché stava piangendo, e quasi non lo vedeva, e poi perché quel segno l'aveva fatto Usagi almeno nove anni prima, e che diritto aveva lei di cancellarlo? Era stato il giorno che le aveva detto di essere incinta. Avevano lanciato in aria tutto, tutta la stanza, ogni oggetto, dalla felicità. E a un tratto, Usagi aveva lanciato una bambola di porcellana. Molto furbo. Quella si era schiantata sul soffitto segnando l'intonaco indelebilmente, e frantumandosi in mille pezzi. Si erano guardate per due secondi nettissimi, e poi erano scoppiate in una risata isterica, divertita e impossibile da scalfire. Perché quando sei così felice, niente ti tocca. Niente ti vede. C'è da festeggiare, aveva detto Rei. E l'avevano fatto.
Si rigirò di nuovo sul fianco, spaventata dai ricordi felici, rivide la sua amichetta dal ghigno argentato. La lametta. Le tornarono in mente tutte le cose che loro amavano, e che lei amava di loro. Pensò alle loro risate dolci, speziate, alle loro carezze ogni volta che stava male, che ogni volta la facevano volare via, lontano da quell’orribile pianeta.
Erano state le uniche persone che Rei aveva amato sul serio. E alla fine, alla fine gliele avevano portate via. Non erano morte, questo no. Ma è come se lo fossero, sussurrò una voce nella sua testa. Non voleva credere più né all’amore e né alla vita. Ma voleva vedere come sarebbe finita la sua –oppure se lo ripeteva solo perché era troppo codarda per porvi fine. Quindi si limitava a far male al suo bozzolo di farfalla, al suo involucro vuoto, al suo corpo, per alleviare il tremendo dolore che le pesava sull’anima. Il fuoco dentro si era spento da troppo tempo.
Tentò di urlare, pensando a Ami, Makoto, Minako, Usagi, ma non le uscì che un soffocato sussurro. Rei capì che non c’era via d’uscita, a quel punto. Non aveva più nessuna forza. Si passò le mani fra i capelli e provò a ricominciare a piangere; non aveva forza nemmeno per quello. Si sentiva morire, piano piano sentiva che stava per addormentarsi per non svegliarsi che l’indomani. Ma non voleva dormire, non voleva essere stanca, aveva paura di dormire per gli incubi del passato, che sempre più spesso tornavano a infestare le notti di stelle. Era debole e piccola, povera Rei, rannicchiata sul futon, con le veneziane abbassate per non esser costretta a vedere la luce.
Spalancò gli occhi, e si asciugò una lacrima con una mano; guardandola poi e vedendola tutta nera pensò che il mascara doveva ormai essere diventato poltiglia. Guardò di nuovo la lametta, e poi si osservò le cicatrici sulle braccia e sui polsi: erano davvero brutte, alcune anche violacee. Si vedeva che non le aveva mai disinfettate.
Inorridita dalla sua stessa carne, le nascose alla vista mentre buttava la lametta lontana, lontana dalla sua pelle, lontana dal bozzolo. Rimise le mani, ornate di anelli e bracciali tintinnanti, al viso, e si girò a sbirciare la lametta abbandonata sul pavimento; era un’attrazione invincibile quella esercitata dal sorriso, -dal ghigno del piccolo oggetto di metallo arrugginito.
Uno scatto in avanti.
Fuori dallo spazio buio e riparato, allo scoperto, sulla lametta. Che chiedeva sangue. Che le sorrideva dolcemente, rassicurante, melliflua. Voleva sentirne di nuovo l’odore, sentire la sua carne lacerarsi, sentire il potere di fare al suo corpo quello che voleva, senza che nessuno la fermasse.Sentire l’odore metallico, rugginoso, sentir scorrere il dolore a purificarla… Ad annientare la mente.
Non farlo, Rei –le gridò la sua parte felice. La sua Nemesi.
Zitta, stà zitta!!! –Ribatté lei, e ripensava ancora a ogni dolore, ad ogni colpa, e a Usagi e alla sua casa, senza sapere che casa fosse o se casa fosse. Eravamo in cinque, in quella macchina, cinque! (sei) Come ho potuto...?
« NO! » –Gridò alla fine, stremata. E la lama tagliò. Recise le vene con dolcezza decisa, e il sangue scorse ancora, a cristalli rossi, e a fiumi. Le cicatrici si riaprivano, una a una, e lei urlava, e la lametta tagliava. Su, giù, destra. E ancora. E ancora.
Posti più nascosti, che hanno anche sempre fatto più male. Tagliava come una furia, come se non fosse nata per far altro. Voleva solo ridurre a brandelli quel corpo.
Lo odiava. Lo odiava. Lo odiava.
Con un ultimo colpo secco sul polso si lasciò andare sul pavimento, spaventata di tanta rabbia in corpo ad una persona sola; proprio lei, poi. La lametta era vicinissima a lei, ma non ebbe il coraggio di prenderla ancora. Chiuse gli occhi.

~

« Usa, ti prego, Usa... » -Una voce rotta di pianto in una stanza di ospedale nera. Nera nonostante i fiori luminosi. Nera nonostante il bianco delle pareti. Nera. Nera. Nera.
« Usa, ti prego... » -Adesso sta piangendo apertamente, si china sul letto. Usagi si scuote, l'allontana.
« Ci hai uccise tutte » -Dice. Rei scuote la testa, sta piangendo, la scuote con forza, con disperazione, non vede più niente. Stanza nera.
« No, Usa, ti prego... » -Come non sapesse dire altro, se non ti prego. Per cosa prega, poi, non si capisce. Prega per il perdono, forse?
« Era dentro di me, Rei, era dentro di me... » -Sta piangendo anche Usagi, adesso.
« No, Usa, no, ti prego, ti prego... Eravamo tutte e cinque, eravamo insieme, lo sai, lo sai che non è stata- » -Fa quasi innervosire che non sappia chiedere scusa. Che sappia solo dire ti prego, ti prego.
« Eravamo in sei, Rei. C'era anche Chibiusa, c'era, la sentivo. E adesso non la sento più » -Non sa nemmeno lei quello che dice, ma la sua voce è orribilmente ferma. Terribilmente ferma. Non fa nemmeno una piega. Non fa una vibrazione. Come se le avesse imparate a memoria, quelle parole.
« No, Usagi! » -Finalmente la rabbia si impossessa anche di Rei. Accusata ingiustamente, maledizione, non è colpa sua!- « Non c'era, non c'era niente, cazzo! »
Usagi la guarda. Non c'è pietà nel suo sguardo, non c'è perdono. Non c'è rabbia, nemmeno, non c'è tristezza. Non c'è niente.
« Esci »
Rei esce. Senza chiedere scusa.

~

Ci sono cose che non contiamo mai. Come le volte in cui andiamo a scuola, o le volte in cui mangiamo cioccolato. Non ci importa sapere quante sono state, nella nostra vita. Rei non smise mai di chiedersi se fosse stata colpa sua, in quei nove anni. Né di domandarsi perché. Perché, per esempio, lei ne era uscita illesa. Perché non era morta. Perché il camionista che aveva investito la loro macchina non si fosse fermato. Non smise mai di chiedersi se davvero avesse preso la decisione giusta, a frenare. Forse, se avesse evitato la carcassa, sarebbe riuscita ad evitarlo. O forse no, forse sarebbe saltata in aria la macchina, si sarebbero cappottate, e sarebbero morte tutte e cinque -tutte e sei.
Così si dava forza, e non moriva. Così tagliava, e non uccideva. La prontezza che aveva avuto nel frenare era stata forse peggio della morte? Avrebbero davvero preferito morire?
Con Usagi ne avevano parlato molte volte. Molte. Usagi disse per sempre di sì. Che avrebbe preferito morire con Chibiusa, che vivere nell'eterna convinzione che non sarebbe mai più nata. Ma Rei di Usagi non sapeva nulla da anni, e per quel che ne sapeva poteva benissimo essere tutto scritto nel destino.
E' colpa mia?
Questo, Rei non lo sapeva.
E se in un anno ci sono trecentosessantacinque giorni, e in nove anni ce ne sono tremiladuecentottantacinque, che vuol dire settantottomilaottocentoquaranta ore, che vuol dire quattro milioni di minuti, che vuol dire una cosa come tre miliardi di secondi, Rei se l'era chiesto esattamente quel numero di volte.
Solo che erano talmente tante che aveva smesso di contarle.

   
 
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