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Autore: Miss Demy    08/03/2011    24 recensioni
New York City. La città che non dorme mai. Forse perchè è proprio di notte che si accendono le luci del Moonlight.
Un incontro improvviso, un ritrovarsi in un luogo inaspettato.
In una città, dove l'amore è solo una leggenda metropolitana, vengono meno le certezze del bel Marzio Chiba, crolla il suo Mondo e se ne crea uno nuovo, uno migliore.
Dal cap.2:
- Nessuno parlava, riuscii a sentire il suono della cintura che veniva slacciata. Non poteva essere. Seiya voleva…
Non riuscivo neanche a pensarlo, figuriamoci a dirlo.
Non mi importava delle conseguenze, aprii la porta, o meglio, ci provai.
Purtroppo era chiusa a chiave. Disperazione. Ma perché? Non la conoscevo, non sapevo nulla di lei. Eppure il cuore mi batteva forte se ripensavo al suo sguardo e alla sua dolcezza di quella maledetta-santa mattina.
“Seiya, apri questa porta. Subito. Muoviti!” ripetevo, battendo pugni sulla porta, facendo intendere che avrei continuato finché non mi avesse lasciato entrare.
Il mio respiro si faceva sempre più affannato, la mano iniziava a farmi male. Non mi importava però. Io dovevo proteggerla.

Dal cap.11
-Guardavo l'Upper East Side e mi sembrava di osservarla per la prima volta.
Quella magia che si era appena creata all'interno della stanza, con lei tra le mie braccia e Lei stretta a me, così da poter udire il suo cuore battere all'impazzata sulla mia schiena mi fece riflettere sul fatto che; bastava davvero poco, era sufficiente soltanto l'affetto e l'amore delle persone amate per rendere felice un uomo.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Moonlight'
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Cap. 13: Mezze verità



 22 Novembre 2010 – Upper East Side
Ore 9.00
 
Il cielo di New York City quella mattina era grigio, cupo, addensato da nuvole; la pioggia continuava a scendere da ormai tre giorni senza dare segni di interruzione, infrangendosi sui vetri delle finestre, sui marciapiedi, su tutto ciò che riuscisse a raggiungere. Manhattan, frenetica di per sé, era diventata invivibile. Automobili bloccate nel traffico per ore e ore, incidenti stradali che peggioravano il caos cittadino e lo stress dei newyorkers, clacson che sembravano impazziti. Chi poteva, faceva a meno di uscire.
Chi ne aveva la possibilità, restava nella tranquillità della propria abitazione, riscaldato dall’amore delle persone amate.
Io ero uno di questi.
 
Per quanto fosse inevitabile il rumore della frenesia dell’Upper East Side che si propagava nel mio appartamento, io e Bunny avevamo trascorso quei cinque giorni insieme, tra cui gli ultimi tre sotto le coperte, a goderci quel po’ di magia che ci meritavamo; nonostante i miei impegni lavorativi fossero sempre presenti e da non trascurare, riuscivo  a scrivere e a smaltire parte del mio lavoro senza togliere a Lei le attenzioni che meritava.
Era serena, rilassata; pian piano la tristezza sempre presente nei suoi occhi da quando l’avevo conosciuta quel 13 Novembre stava lasciando posto alla tranquillità. Il mio amore la confortava, la rasserenava; sapeva che io mi sarei preso cura di Lei e che non avrebbe più dovuto affrontare tutto da sola.
Uscivamo solo per andare da Usa nelle ore di visita pomeridiane e per comprare qualcosa al supermarket in fondo alla strada che collegava l’ospedale all’isolato successivo a quello del mio appartamento; la piccola era contenta sapendo che Bunny vivesse da me e ogni volta che ci vedeva scherzare – più che altro per far divertire lei -, quando davo un bacio o facevo una carezza a Bunny, Usa sorrideva. In quei giorni, per fortuna, le sue condizioni erano state buone; nonostante il grigiore del cielo della City, i nostri cuori erano illuminati dalla gioia di vedere la bambina sorridere e stare bene. Per quanto fosse possibile in un reparto oncologico, eravamo felici.
 
Quella mattina mi svegliai agitato, irrequieto. Dopo essermi alzato e aver bevuto un caffè, iniziai a scrivere approfittando del fatto che Bunny stesse ancora dormendo.
Ma l’ansia aumentava sempre di più, l’attesa era diventata insostenibile. Guardavo il cellulare ogni cinque minuti, lo portavo sempre con me ma, niente, nessuna chiamata, nessuna novità.
 
Sospiravo davanti al mio Apple, picchiettando i polpastrelli sui bordi e attendendo l’ispirazione che tardava ad arrivare.
Ma niente; erano trascorsi quarantacinque minuti e, niente. Nessun’idea, solo ansia e un’attesa ingestibile.
“Dannazione!” esclamai sorreggendo la testa con le mani, con gli occhi chiusi.
 
“Buongiorno, amore mio.”
Sollevai la testa, tornando alla realtà dai miei pensieri e dalle mie perplessità:
“Buongiorno, bambina, non mi ero accorto che fossi qui” risposi non appena la notai  poggiata alla parete del salone, di fronte a me.
Con sguardo dispiaciuto e un po’ curioso, avanzò verso di me, coperta solo dal maglione grigio di lana che avevo indossato il giorno prima; si chinò a darmi un bacio sulle labbra, prendendo il mio viso fra le mani:
“Marzio, cosa c’è?” Aveva intuito che qualcosa non andava.
Le cinsi la vita con le braccia, facendola sedere sulle mie gambe:
“Niente. Stai tranquilla, ho solo delle scadenze da rispettare.” Cercavo di essere più credibile possibile.
Divenne triste, preoccupata e, stringendosi a me:
“Dì la verità, non è che ti sei già stancato di me?”
Un sorriso spontaneo uscì dalla mia bocca; la allontanai da me, quel poco per poterle accarezzare il viso e baciarla:
“Ma cosa ti salta in testa, bambina?”
Inclinò la testa di lato, stropicciando le labbra come a voler farmi capire che ormai non sapeva più cosa pensare.
“Io ti amo da morire, impossibile che mi stanchi di te. Credimi.” Era l’unica frase vera di tutta quella conversazione.
Ma lei non sembrava convinta, con voce di chi in fondo sapeva che c’era dell’altro e non solo la preoccupazione delle scadenze; ravviando i ciuffi dei miei capelli all’indietro, insistette:
“Da qualche giorno sei sempre sovrappensiero e guardi in continuazione il display del telefono” esitò un istante, poi: “A volte ti parlo e non mi ascolti neanche.”
Cercai di rassicurarla: “Sto aspettando la telefonata del mio capo, stai tranquilla Bunny, non c’è niente che non va. Io ti amo.” La baciai e, quella mezza verità sembrò renderla più serena.
Annuì, premendo le sue calde e carnose labbra sulla mia fronte e alzandosi:
“Vado a fare colazione.” Cercava di togliersi quella voce rammaricata e quell’espressione ancora insicura.
Le sorrisi, riprendendo a scrivere. Almeno, ci provai; dovevo cercare di non far trasparire le mie ansie e le mie preoccupazioni. Lei si fidava di me, si era affidata a me, aveva bisogno di amore e rassicurazioni e non potevo rischiare che temesse che qualcosa non andasse. Non potevo permettermi che dubitasse del mio amore per Lei; dato che io, per amore, per Lei, avrei fatto di tutto. Anche mentirle.
 
Ore 13.00
Bunny era riuscita a preparare la pasta alla carbonara; inizialmente non era stato così semplice per Lei fare entrare i lunghi spaghetti ancora crudi all’interno della pentola; avevo riso tanto guardando il suo viso imbronciato e sentendole ripetere: “Ce la faccio da sola!” mentre cercavo di aiutarla.
Pian piano ce l’aveva fatta e il suo viso si era disteso in un grande sorriso pieno di soddisfazione. Mi aveva guardato con sguardo eloquente di chi riusciva sempre a cavarsela. Come darle torto.
Stavamo per sederci a tavola quando il mio cellulare squillò provocandomi un bruciore al cuore.
Come un lampo lo raggiunsi e, per quanto ci avessi provato, l’espressione agitata nel mio viso fu chiaramente leggibile. Bunny mi guardò preoccupata notando con quanta fretta cercassi di rispondere il prima possibile.
La mia agitazione, la speranza nel cuore che portavo ormai da due giorni sparì non appena lessi il display, lasciando spazio alla delusione.
Risposi al telefono; il mio tono poteva rendere palese la mia delusione anche a Mister Taiki.
Mi avvisava di aver anticipato il rientro nella City e avrebbe voluto incontrarmi l’indomani pomeriggio.
Maledizione, ci mancava solo lui!
Ovviamente non potei fare altro che acconsentire; l’indomani ci saremmo incontrati alla RoseEdition, in uno dei grattacieli dell’Upper East Side.
 
Quando tornai in cucina, non mi resi conto che la mia espressione delusa era diventata, in maniera evidente, rivelatrice di agitazione che andava crescendo sempre di più.
Sospirando ripresi ad attorcigliare gli spaghetti.
 
Bunny mi osservava, mi studiava in silenzio; cercava di non farsi accorgere anche se – inevitabilmente - avvertivo il suo sguardo su di me.
Ovviamente facevo finta di nulla, continuando a fissare il mio piatto senza avere il coraggio di guardarla negli occhi; quella situazione era imbarazzante e io non ce la facevo più a fingere, non volevo doverlo fare con Lei, proprio con Lei alla quale non avrei mai voluto dover mentire.
Pranzammo in silenzio, accompagnati dal suono della pioggia che si infrangeva sul vetro della finestra.
Quando finimmo, mi alzai per sparecchiare ma mi precedette; mi cinse la schiena da dietro e io non potei far altro che voltarmi verso di Lei.
“Sei più tranquillo, ora che hai sentito Mister Taiki?” La sua voce era dolce come sempre ma i suoi occhi dispiaciuti, per quanto Lei cercasse di non farlo notare.
Per un attimo non capii, poi ricordai la mezza verità:
“Sì.” La strinsi forte, baciandole la testa: “Stai tranquilla bambina, è tutto ok.”
 In realtà non andava bene per nulla, la telefonata che aspettavo da ormai due giorni non arrivava e per di più l’incontro anticipato col capo mi metteva ancora più ansia di quella che già avessi.
 
Annuì, strofinando così la sua guancia sul mio maglione, poi alzò la testa, incontrando i miei occhi:
“Riprendi a scrivere?”
Ma sapevo cosa sperava, cosa desiderava, capivo che aveva voglia di sentirmi vicino e non distante come, senza volerlo, mi stavo dimostrando negli ultimi due giorni. E anche io, nonostante la tensione, avevo bisogno di Lei, del suo contatto, del suo amore; avevo bisogno di sentirla mia.
La sollevai da terra e fu costretta a cingermi le gambe sulla schiena per aggrapparsi a me; iniziai a baciarla con tutta la passione che provavo per Lei mentre mi dirigevo verso il camino all’interno del salone; Bunny ricambiava i miei baci mordendomi le labbra e catturandole con lo stesso desiderio che anche Lei provava per me fino a quando non si ritrovò adagiata sui grandi cuscini.
Sorrise divertita e, nonostante la pioggia, il mio cuore davanti ai suoi occhi luminosi rivide il sole. Chiusi le tende delle finestre accanto al camino e mi sdraiai con delicatezza su di Lei:
“Dopo… scriverò dopo!”
 
Ore 14.30
Dopo aver fatto l’amore la portai a letto e lì, sotto le coperte, si strinse a me, poggiando la testa sul mio petto e riscaldandomi col suo respiro sul mio collo; rimanemmo abbracciati a lungo ad ascoltare il suono della pioggia che scendeva sempre più fitta e in maniera incessante.
Non c’era bisogno di parlare; erano le mie carezze sui suoi lunghi capelli e sulla sua vellutata schiena a cercare di trasmetterle il mio amore e l’infondatezza delle sue paure…
Se solo avesse saputo!
Presto, chiuse gli occhi lasciandosi trasportare nel mondo dei sogni avvolta fra le mie braccia e ne approfittai per rilassarmi qualche altro minuto prima di riprendere a lavorare. Fu proprio nel momento in cui la mia mente si dimenticò di tutti i pensieri che il mio cellulare squillò.
Un tuffo al cuore, una paura ma anche un’enorme speranza.
Cercando di non svegliarla, mi alzai dal letto e, dopo aver guardato il display, col cuore in gola risposi. Finalmente, dopo due giorni di agonia, la sentenza era arrivata.
 
Indossai di corsa un paio di pantaloni e, mentre stavo per infilarmi il maglione, Bunny aprì gli occhi notando la mia fretta.
Confusa, si sedette sul letto e, portando il piumone all’altezza del petto, con voce curiosa e un po’ agitata:
“Dove stai andando? Che sta succedendo Marzio?”
I suoi occhi divennero lucidi, passò una mano sulla fronte ravviando all’indietro i ciuffi dorati mentre una sensazione di terrore era visibile nel suo volto.
Mi sedetti sul letto e prendendo il suo viso fra le mani, con un sorriso sincero e voce rassicurante:
“Mia madre ha bisogno di me ma torno presto.” Le baciai le labbra e con una mano accarezzai le sue guance asciugando le lacrime.
Scosse la testa: “Cosa ho sbagliato? Ti prego dimmelo.” La sua voce era sempre più agitata; prese le mie mani nelle sue: “Se ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio ti chiedo scusa ma…” Un singhiozzo: “Ti prego non lasciarmi.” Era spaventata. Confusa e spaventata.
Mi sentii in colpa, un verme, la stavo terrorizzando senza volerlo, la stavo facendo preoccupare sapendo che l’unica cosa di cui avesse bisogno fossero le rassicurazioni e le continue dimostrazioni d’amore. Ma non potevo dirle la verità.
 
Ripresi a baciarla, con dolcezza ma anche con estrema passione sentendo le sue lacrime scendere e bagnare anche il mio viso fino a quando riuscii persino ad assaporarle. Mi strinse forte, cingendomi il collo con le braccia e facendo sì che il piumone scivolasse dal suo corpo.
Era rigida, i muscoli delle sue braccia sempre più tesi mentre mi teneva a sé con tutta la paura di perdermi.
“Amore mio, non hai fatto nulla, io ti amo. Non ho nessuna intenzione di lasciarti.” Le baciai la fronte: “Ti prego credimi, non ti farei mai del male.”
Si allontanò da me quel poco per potermi guardare negli occhi e quando capì che non mentivano, che il mio amore per Lei era sincero, si fidò:
“Torna presto, va bene?”
E lì, in quegli occhi azzurri come il cielo, luminosi ma allo stesso tempo lucidi e spaventati, capii che per Lei avrei fatto di tutto. Anche se ciò avrebbe significato spaventarla.
Sorrisi per rassicurarla e, dopo un ultimo bacio sulle labbra, indossato il mio cappotto, aprii la porta d’ingresso richiudendola alle mie spalle.
 
Ore 17.00
Ero di nuovo sotto la pioggia; avevo dimenticato l’ombrello e, ad ogni modo, non era il caso di camminare a piedi.
Decisi quindi di prendere un taxi anche se ero consapevole che col super affollamento nelle strade sarei rimasto bloccato a lungo prima di arrivare a destinazione. Quando il tassista mi domandò dallo specchietto retrovisore dove desiderassi andare, senza esitare, con voce ferma e sicura, risposi:
“Al Moonlight.”
 
L’insegna era ancora spenta, la porta ancora chiusa. Dall’esterno era però possibile udire il suono delle musiche utilizzate per le esibizioni. Suonai il citofono posto di lato alla porta e attesi qualche secondo.
Una ragazza aprì la porta e, prima che potesse avvisarmi che il locale fosse ancora chiuso, con voce ferma e sicura la informai:
“Devo parlare con Lady Amy.”
“Ma… ha un appuntamento?” La ragazza dai capelli biondi legati in una mezza coda sembrava in difficoltà.
“No ma è importante… dica che riguarda Bunny.”
Lei mi aveva dato del ‘lei’, era giusto quindi che lo usassi anche io, nonostante la conoscessi bene dato che era una delle accompagnatrici ai tavoli, oltre che una Moonlight dancer.
“Bunny? Come sta? Dov’è?” La ragazza spalancò gli occhi non appena nominai quel nome che tanto amavo e io riuscii ad avvertire preoccupazione nella sua voce.
“Sta bene; per favore potrei entrare e parlare con Lady Amy?” Cercai di farle notare che fuori continuava a piovere e non avevo intenzione di continuare a bagnarmi.
Indietreggiò, permettendomi di entrare. Le Moonlight dancers continuarono a provare non curanti della mia presenza e quelle sotto al palco, in pausa, mi osservarono curiose cercando di capire perché fossi lì a quell’ora; molte di loro si ricordavano di me.
“Aspetti qui, informo Lady Amy.” E si avviò verso la scalinata; fece una piccola esitazione e, voltandosi verso di me:
“Posso sapere il suo cognome?”
“Chiba. Marzio Chiba.” Il mio nome glielo avevo già detto quando una sera Seiya aveva presentato sia lei che Rea a me e Moran; la stessa sera che la mia vita cambiò non appena vidi Bunny per la prima volta su quel palco; lo stesso sul quale, in quel momento, alcune Moonlight dancers provavano una sensuale coreografia.
Sorrise e, allontanandosi sempre più, con tono molto solare:
“Avviso Lady Amy e torno subito!”
Annuii, sorridendo di fronte a tanto entusiasmo.
 
Tornò dopo alcuni minuti con viso sorridente: “Lady Amy la aspetta.”
Chinai il capo in forma di ringraziamento e aggiunse:
“Marzio, mi saluti Bunny per favore.”
“Lo farò senz’altro! Grazie mille Marta.”
 
Salii la scalinata notando una delle prime porte aperta. All’interno, di spalle, Lady Amy era rivolta verso la finestra ad osservare la frenesia della strada sottostante.
Bussai ugualmente e si voltò.
I capelli corti, tinti di blu, mettevano in risalto i suoi occhi color turchese e, un tailleur azzurro, come gli orecchini a forma di goccia, la faceva apparire più grande e più matura della sua età.
“Prego, entri.”
Non esitai. Entrai chiudendo la porta alle mie spalle. Vedendomi a disagio, mi fece segno di accomodarmi, indicando la poltroncina color nocciola ad un lato della scrivania.
Non appena mi sedetti, Lady Amy, accendendo una sigaretta, domandò:
“Non ho molto tempo quindi mi dica…”
Mi guardò con sguardo eloquente, poi riprese:
“Cosa vuole da me?”
Dal suo tono, dalle sue espressioni, dal modo di porsi capii che era una ragazza dura, forte, che sapeva imporsi e farsi rispettare.
O forse non era in realtà così; probabilmente la sua era una maschera, una di quelle che dovevano essere usate in quel teatrino chiamato Moonlight.
Magari, in fondo, era una ragazza dolce e sensibile che aveva dovuto solo prendere le redini di un’attività particolare dopo la morte del padre. E si sa; se le donne sono belle non si dà loro molta importanza nel mondo degli affari, si preferisce trattare sempre con gli uomini.
E lei questo non poteva permetterlo; ecco quindi che la maschera da uomo d’affari veniva tirata fuori e indossata sul suo viso dai lineamenti delicati.
 
“Si tratta di Bunny.”
Mi guardò, seria, lasciando uscire il fumo della sigaretta dalla sua bocca.
Continuai: “Voglio che lasci questo locale.”
Stavolta dalle sue labbra fuoriuscì una risata divertita.
Si alzò dalla poltrona di fronte alla mia e, dalla libreria accanto alla scrivania, tirò fuori una carpetta rosa.
La aprì e voltando pagina per pagina alcuni fogli bianchi, ne estrasse alcuni.
Iniziò a leggere, inspirando dalla sigaretta:
“Bunny Tsukino, contratto sottoscritto il 5 Novembre 2010 e valido fino al 5 Novembre 2011.” Scorrendo con gli occhi e voltando pagina: “In caso di recessione il risarcimento dovuto sarà di 40.000 dollari.”
Sapevo già quelle cose:
“Lady Amy, ascolti; Bunny mi ha parlato molto bene di lei, mi ha detto che lei è molto gentile e mette le ragazze a loro agio ma, vede…”
Si sedette di nuovo di fronte a me, studiando meglio il contratto.
“Voglio che lasci questo posto perché lavorare qui non è ciò che veramente desidera. Lo ha fatto solo per la sorella, lei saprà già la situazione…”
Posò il contratto sulla carpetta ancora aperta e, coi gomiti sulla scrivania e le mani giunte a sorreggerle il mento, mi guardò annuendo e cercando di seguire meglio il mio ragionamento.
“Adesso ci sono io che penserò a Lei. Non ha più bisogno di lavorare qui.”
Presi coraggio: “Non ho tutto quel denaro per il momento ma presto il mio nuovo libro verrà pubblicato e - come è già accaduto dopo la pubblicazione del mio primo lavoro – spero di riuscire a trovare la somma per il risarcimento.”
 
Ero disperato, volevo a tutti i costi convincerla ma la paura di non farcela e magari mettere Bunny in ulteriori guai – dato che non sapeva che sarei andato al Moonlight – era tanta, troppa.
 
Non potevo esitare, dovevo mostrarmi sicuro di me; in passato non sarebbe stato così difficile ma in quel momento, in quella situazione, c’erano troppi interessi in gioco, c’era Lei coinvolta. Non era facile per me rimanere lucido e freddo. Ma dovevo.
“Per favore Lady Amy, mi dica cosa posso fare… ci sarà un modo. Io non lo so, questo non è il mio ambito. Io sono soltanto uno scrittore.” Riflettei un attimo e poi giocai la mia carta vincente:
“I miei libri sono pubblicati dalla RoseEdition.” Sapevo che fosse una casa editrice molto famosa in tutto lo Stato di New York; una sorta di garanzia.
 
 La sua espressione, da curiosa divenne enigmatica.
Si alzò dalla poltrona e, dopo aver schiacciato per bene la sigaretta sul posacenere di cristallo posto al lato della scrivania, si avvicinò alla finestra, scostando la tenda gialla per poter osservare il cielo della City grigio e nuvoloso.
“Il Moonlight perderebbe tanti clienti, molti vengono proprio per Bunny.” Una pausa, poi, con tono riflessivo: “Ho sempre trovato volgare la pubblicità del Moonlight sui manifesti di NYC… le mie ragazze non dovevano passare sotto gli occhi di tutti, non le ho mai volute vedere su cartelloni di Time Square o su lati degli autobus *”
Volevo chiederle cosa significassero le sue parole ma mi precedette, voltandosi verso di me e fissandomi seria, con una determinazione mai vista prima di allora in una persona:
“Voglio un libro.” Annuì e, con una consapevolezza maggiore che stesse facendo la scelta giusta:
“Un libro dove si pubblicizzi il mio locale; che parli delle mie ragazze e di quest’attività.” Sempre più convinta:
“Parli pure di lei, di Bunny, di come vi siete conosciuti… non mi interessa; voglio solo che si pubblicizzi il Moonlight, che più persone possibili conoscano il mio locale e si incrementi la clientela.”
La guardai titubante; era sufficiente un libro?
“Ovviamente non occorre che io le specifichi quale dovrà essere il titolo del libro… e quale immagine dovrà comparire in copertina.”
“No, certo che no!” La mia voce aveva appena tremato, la paura si era trasformata in incredulità, una luce piena di speranza era intravedibile all’uscita di quel tunnel in cui Bunny era entrata in maniera condizionata.
Si avvicinò a me e, incurvandosi in avanti in modo da potermi guardare dritto negli occhi, con voce astuta:
“Voglio un contratto firmato dal suo editore dove si metta per iscritto che vi vincolate alla pubblicazione del libro.”
Per un attimo il pensiero a Mister Taiki e al suo possibile rifiuto mi terrorizzò ma poi, determinato e con molta fiducia in me stesso; con la speranza che non fosse giusto che certe situazioni non trovassero una via d’uscita e confidando in tal proposito anche nella Provvidenza Divina, annuii:
“Domani pomeriggio parlerò con il mio editore. Lo porterò qui e decideremo i dettagli.”
Un sorriso e uno sguardo furbo e deciso, da donna di successo, le si palesò sul viso:
“A domani, signor Chiba.”
 
E così lasciai il Moonlight, colmo di speranza e di consapevolezza che quello fosse il giorno più bello e felice di tutti quelli trascorsi negli ultimi anni della mia vita; la pioggia scendeva ancora dal cielo della City ma il mio cuore intravedeva già l’arcobaleno.
Salii sul taxi dando un’ultima occhiata all’insegna del night club ancora spenta; sperai con tutta l’anima che presto il Moonlight, da luogo in cui Bunny aveva fatto esperienze non adatte ad una ragazza ingenua e sensibile come Lei, potesse trasformarsi in un’ancora di salvezza; in un libro col quale, ancora una volta potesse capire il mio amore per Lei.
 
Non appena rientrato in casa, il suono di un pianto mi diede la conferma che Bunny fosse già tornata dall’ospedale; chiusi la porta e mi poggiai con le spalle su di essa abbassando le palpebre e cercando di prepararmi psicologicamente.
Entrai nella mia camera e Lei era lì, al buio, seduta sul bordo del letto con i gomiti sulle ginocchia e la testa sorretta dalle mani.
Non riusciva a smettere di piangere, affogava tra i suoi singhiozzi ed io per una volta non mi preoccupai per Lei, anzi.
Avanzai e, inginocchiandomi davanti a Lei, presi il suo viso fra le mani:
“Bunny, sono qui.”
Portando le sue mani sulle mie, con sguardo incredulo, come se fosse soltanto un bellissimo sogno, tra un singhiozzo e l’altro e gli occhi gonfi appannati dalle lacrime, sorrise:
“Hanno trovato un donatore.” Di nuovo un singhiozzo, ancora lacrime; bisogno di lasciar uscire tutta la paura e il terrore che aveva vissuto nell’ultimo anno; necessità di liberarsi l’anima dalla tensione accumulata dal giorno in cui seppe della malattia di Usa.
Tolse le sue mani dalle mie per cingermi il collo e abbracciarmi forte:
“Marzio, hanno trovato un donatore, hanno trovato un donatore…”
Continuava a ripeterlo, con il mento poggiato sulla mia spalla, come se dovesse ancora realizzarlo Lei stessa; come se fosse così bello da sembrare quasi impossibile.
Stretta a me, riuscii ad avvertire il suo cuore battere talmente forte da sembrare che le stesse per uscire dal petto.
Accarezzandole i capelli, percependo tutte le sue emozioni venir fuori attraverso quello sfogo, sentendola tremare, rigida, dentro il mio caldo abbraccio, una lacrima uscì anche dai miei occhi; le baciai la spalla mentre Lei non riusciva a staccarsi da me e, con voce tremante risposi:
“Sono tanto felice Bunny.”
Era la verità; sapere che fosse felice, vederla piangere di gioia era quello che avevo voluto dal giorno in cui la conobbi. Era tutto ciò che rendeva felice anche me.
E lì, in quella stanza buia in cui era possibile udire i tuoni che presagivano altra pioggia sulla città che non dorme mai; lasciando andare tutta la sua felicità in quel pianto liberatorio, rimase stretta a me fin quando pian piano iniziò a calmarsi ma; anche quando fu più serena, era talmente emozionata che non riuscì neppure ad accorgersi che il mio sguardo, seppure pieno di gioia, non fosse per nulla sorpreso.


Note:
*: ispirato a Sex and the City. La foto della protagonista appare su un lato dell’autobus.
 


Il punto dell’autrice
 
Cari lettori, innanzitutto perdonatemi per avervi fatto attendere tanto!
Sono stata  molto impegnata con gli esami e ho iniziato una nuova fanficion ‘La melodia del cuore’.
Spero che l’attesa sia stata ben ripagata e che questo capitolo non vi abbia deluso. Vi confesso che ormai manca poco alla fine di questa storia e un po’ mi dispiace perché sono molto affezionata a questi personaggi :(
Vi prometto che d’ora in poi aggiornerò più di frequente, nel frattempo, se avete due minuti da dedicare ancora a me e alla mia storia, lasciate un commento facendomi sapere cosa ne pensate, ve ne sarei grata!
Ringrazio come sempre tutti coloro che mi seguono e che mi dimostrano il loro affetto sia tramite le recensioni qui su EFP che sul ‘Moonlight fan club’ di facebook!
Un bacione e a presto!
Demy


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