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Autore: _Helene_    13/03/2011    2 recensioni
Gli strani episodi di Samantha Walker iniziarono quel fatidico giorno in cui uno strano preludio di note preannunciò la morte dei suoi genitori. Una curiosa melodia. Un insieme di strazianti violini seguiti a ruota da martellanti colpi di tamburo e strumenti ignoti dai toni cupi e gravi.
Per ben undici anni quello strano suono all'interno della sua testa cessò e la sua vita proseguì più o meno normale ma, ad aggravare la sua precaria condizione, arrivò la morte della donna che si prese cura di lei e il trasferimento in uno strano collegio religioso: la Hand Of God's House, che altro non è che una vera e propria scuola di magia. Nuove vicende si apriranno, nuovi intrecci avranno luogo tra le mura del vecchio castello e la melodia, accompagnata da terribili visioni, tornerà ad imperversare su di lei. Ma una cosa è certa: non sarà l'unica a celare un segreto. E Sam, dovrà far fronte ad un'agghiacciante verità che le è da sempre appartenuta.
«Credo di essere pazza. Anormale. Schizofrenica e bisognosa di cure. Non è normale. Vedere la morte. Così come non lo è udire la lacerante melodia che accompagna le persone al patibolo».
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Terzo.

 



«Potrai venire a stare da me, andrà tutto bene, Sam».
In cuor mio, avrei voluto credergli, ma non mi rimaneva altra scelta se non quella di finire in una gabbia per pazzi, dove, probabilmente, mi avrebbero rinchiusa all’interno di quattro mura con tanto di camicia di forza.
«Potrò chiedere ai miei», esclamò iniziando ad agitarsi notevolmente più di quanto già non lo fosse.
Mi sentivo… non so come mi sentivo.
Ci si può sentire talmente vuoti da non percepire più neppure il dolore?
Ero tranquilla, al contrario di Rich che sventolava da più di un quarto d’ora le mani ai quattro venti, cercando una posizione confortante su quello che non sarebbe stato più il mio letto.
«Rich», lo interruppi. «Vorrei rimanere da sola, ora».
Il ragazzo sgranò gli occhi con fare sbigottito, certo che non avrebbe per nessuna ragione al mondo ottemperato alla mia folle richiesta.
«Dico davvero», lo incoraggiai.
Aggrottò la fronte, poi si alzò. «Stronza fino all’ultimo, eh? Non ti importa proprio nulla di lasciar tutto e finire in una maledetta gabbia per pazzi? Dovresti ribellarti, Sam. Hai dei parenti, non è possibile che a loro non importi un fico secco di te!».
Stavo maneggiando una vecchia tela dai colori ancora freschi, ma alle sue parole mi cadde di mano, provocando un suono cupo, sordo, sbattendo al freddo pavimento in legno della mia camera/soffitta. La tempera iniziò a colare, riempiendo le crepe delle assi di un blu mare che non sarebbe mai tornato al suo posto. Il bel paesaggio marino dipinto la notte prima, stava perdendo la sua forma. In quel momento aveva solo l’aria di una macchia, di un’enorme ed informe macchia dai colori bluastri senza senso alcuno. Proprio come il mio cuore, divenuto solo un ammasso di carne, privo di emozioni.
È strano, come un insieme di parole possa farti smuovere, pensare, realizzare una determinata situazione, fino a risentire l’adrenalina fluire nelle vene, tanto da non riuscire a trattenerla.
«Rich», ripetei in tono aspro. «Voglio che tu te ne vada da questa stanza, sono stata abbastanza chiara?».
«Quindi è finita, ti arrendi così?».
Risi in modo nettamente sarcastico, «Chi ha mai parlato di arrendersi? Non ho mai lottato».
«E vai fiera di una cosa simile?».
«Rich, vattene».
Il ragazzo aprì la piccola e bassa finestra, si aggrappò ad un ramo, poi esclamò: «Te ne pentirai. Sei davvero strana, sai? Il tuo stato catatonico non ti porterà da nessuna parte. Nessuno vorrà porgerti la mano per aiutarti, nessuno ti si avvicinerà e nessuno, ripeto, nessuno, si importerà di te. È finita, Sam, per noi, ma soprattutto per te».
Detto ciò, sparì nella leggera foschia che, quel giorno, avvolgeva inspiegabilmente Greenwich.
«Non ho bisogno di nessuna mano, di nessun appoggio, né tantomeno di te, stronzo!».
Ma non mi udì, era già fin troppo lontano dalla mia portata.
Dio, quanto avrei voluto un abbraccio. Uno di quelli forti, stretti, impenetrabili, da farti mancare il fiato per degli interminabili secondi.
Urlai, urlai più forte che potei. Urlai finchè la mia gola arsa non andò in fiamme e l’incendio divampò in tutto il mio essere.
Ansimai, mentre sferragliai un chiodo arrugginito dalle assi del pavimento. Lo sguardai per degli istanti interminabili, poi il preludio rimbombò all’interno della mia testa. Un tamburo, un tamburo violento…
Più avvicinavo il chiodo al mio collo, più la melodia diventava incessante, monotona, straziante.
Qualcuno bussò alla porta, gettai il chiodo e la musica cessò.
«Sei pronta?», tuonò la stessa donna che mi aveva costretta a firmare il mio contratto verso la rovina. Posò lo sguardo sui miei quadri, poi gracchiò: «Non è permesso portarli».
Sgranai gli occhi, feci per ribattere, ma dalle mie labbra non uscì che un soffio smorzato dagli innumerevoli pensieri che fluirono contemporaneamente nella mia dolorante e frastornata mente.
L’avvoltoio richiuse la scricchiolante porta, e mi gettai in terra coprendomi il viso con i palmi ben aperti. Non piansi, avrei voluto. Eccome se avrei voluto, ma per quanto ci provassi, dai miei occhi non uscì che polvere.
Stavo per perdere l’unico straccio di vita che credevo mi sarebbe appartenuto ancora per molto, molto tempo. Ma le certezze, come dice qualche guastafeste, sono le prime a svanire.
 
 La vecchia auto delle vice direttrice parcheggiò in un largo spiazzo ornato da decine di viottoli che si diramavano in tutte le direzioni. Non vi erano molte auto, notai però un’ambulanza e una lunga Mercedes nera. 
Afferrai la valigia, aprii lo sportello ed iniziai ad osservare.
Era l’antitesi della gabbia di matti che mi aspettavo, alcune ragazze erano intente a spingersi su di un’altelena barcollante, altri erano distesi sull’erba, altri ancora leggevano un libro all’ombra di un alta betulla dai colori autunnali. Una volata di vento mi invase, facendomi rabbrividire fin nelle viscere.
L’edificio era interamente rivestito da pietre di ogni forma e dimensione, mentre un cartello posto in una delle verdi aiuole, recitava a caratteri solenni “Believe. La prima cosa che notai fu la quasi assenza di altri edifici nelle vicinanze, ed una vecchia foresta si ergeva nei dintorni, conferendo al paesaggio un’ambientazione piuttosto cupa. Avevamo viaggiato per circa un’ora, ma la donna giurò che ci trovavamo ancora nei pressi di Greenwich. Avrei voluto fuggire a gambe levate, ma un’altra figura decisamente più minuta, sbucò dinanzi i miei occhi.
«Samantha», mi sorrise. «Benvenuta».
Rimasi impassibile, continuando a fissare il selciato al di sotto dei miei piedi.
«Qualcuno ti mostrerà la tua nuova camera, avrai tutto il tempo di sistemare le tue cose e di conoscere le tue compagne di stanza, ti stanno già aspettando», poi mi porse una mano e si presentò: «Io sono la direttrice di questo posto, Jacqueline Finn».
La piccola donna aveva il viso contornato da una folta chioma grigio cenere, doveva essere sulla sessantina, ed uno strano abbigliamento risaltò ai miei occhi: mi aspettavo suore, preti, monaci e chi più ne ha più ne metta. Portava una strana mantella nera che nascondeva degli abiti piuttosto stravaganti.
Non battei ciglio, ma afferrai nuovamente la valigia. «D’accordo, la signorina Truscott ti porterà nella tua stanza, ci vediamo alle lezioni del pomeriggio, ogni tuo dubbio verrà colmato, non devi far altro che chiedere. Questa è la mappa della scuola», mi porse un opuscolo ingiallito su cui era raffigurata l’intera pianta del mio nuovo carcere, e non fui minimamente felice nel notare che fosse enorme, ma soprattutto intricato, quasi fosse un labirinto.  
Quattro torri alte all’incirca una trentina di metri attirarono la mia attenzione, avevano l’aria di vecchie torri campanarie, ed erano poste ai quattro angoli dell’edificio altrettanto decrepito.
La direttrice si congedò, poi l’avvoltoio in nero, la Truscott, mi traghettò all’interno cingendomi da una spalla.
Diedi un’occhiata in giro. Il grande salone si apriva davanti ai miei occhi, dandomi l’impressione di trovarmi in un grande e antico castello. Il tutto era illuminato da grossi candelabri, mentre numerosi arazzi erano appesi ai muri interamente in pietra. Lunghe file di librerie contenenti grossi e vecchi volumi erano annesse alle pareti, ed una strana gabbia contenente un cinguettante uccello dalle piume color vermiglio, intonava la sua soave melodia.
In che razza di posto mi avevano deportato?
Salimmo una lunga e larga scalinata che parve non finire mai, poi mi fermai di botto nel scorgere una fila di ragazzi che indossavano un’oscena divisa, dalla cravatta a strisce oro e nero.
«La tua uniforme la troverai nella tua stanza. Ci stiamo dirigendo nell’ala Nord dell’ultimo piano, è lì che si trova il dormitorio delle ragazze, mentre dal lato opposto, nell’ala Sud, si trova quello dei ragazzi».
Giungemmo dinanzi una lunga fila di porte, poste con monotonia ai due lati di uno stretto corridoio, bussò e due ragazze che parevano fare a botte si ricomposero non appena la Truscott si schiarì la voce.
«S-salve signorina Truscott», cinguettarono all’unisono. Feci un passo avanti, e la vice direttrice guardò una della due con aria di sfida, poi svanì.
«Piacere, io sono Heather, e quell’essere laggiù è Kat».
«Posso presentarmi da sola, non è certo la voce che mi manca». Così dicendo, la ragazza minuta dalla liscia chioma arancione e alcune lentiggini su entrambe le guance, sorrise nel porgermi la mano. La strinsi perplessa, poi, con un fil di voce, esclamai: «Samantha», poi subito mi corressi, «Ma preferisco essere chiamata Sam».
«Perché sei qui?», l’altra ragazza, quella alta, bionda, snella e dal naso leggermente aquilino, non fece in tempo a finire la sua frase che, l’altra, a mo’ di rimprovero, le diede una gomitata ad un’anca, poi trasparì un sorriso a trentadue denti.
«A dir la verità non lo so neanch’io».
Heather mi squadrò, poi esclamò: «La tua uniforme è sul letto, faresti meglio ad indossarla, tra meno di un’ora siamo chiamati tutti nella sala principale per il discorso della direttrice», poi sbuffò. «Una volta al mese ci annoia con le sue lunghe ammonizioni su cosa dobbiamo o non dobbiamo fare e su quanto non sia permesso utilizzare la…».
Una seconda gomitata la zittì, ma di parlare non ne avevo voglia, così si dissolsero nel nulla, lasciandomi un po’ di spazio.
I tre letti ad una piazza erano accatastati ognuno ad una differente parete, ed era come se ci fosse una netta linea divisoria tra le tre parti ben distinte. In una, foto e ritagli di giornale impiastricciavano la parete grigia, ed appariva decisamente in disordine. A giudicare dalla grande “H” posta sulla trabacca del letto, capii si trattasse del quarto d’aria di Heather. La seconda era in ordine, una vecchia chitarra classica era posta sul letto e con essa decine di spartiti dall’aria molto vecchia. Kat doveva essere una musicista, a giudicare dalle numerose riviste di musica accatastate sulla sua piccola scrivania annessa al letto.
La restante parte, la mia, come del resto la sottoscritta, era completamente vuota.

 


**

Angolo Autrice*

In primis chiedo umilmente scusa se c'ho messo così tanto a scrivere il terzo, ma in teoria dovrei essere a studiare storia dell'arte xD E poi le idee cambiano all'interno della mia testa ad una velocità madornale O.o.. non mi è mai capitato di postare una storia ancora "work in progress", perciò siate clementi ç.ç 
E tempo e voglia permettendo, sarà una trilogia, ho modificato il titolo e il gruppo della storia ( è pur sempre un horror e resterà in quel gruppo, ma si aggirerà parecchio anche sul fantasy ), ed ho annesso una cosina in più alla trama principale...:) 

Ops, dimenticavo... Un grazie a chi mi recensisce e a chi perde tempo leggendo i miei deliri ç.ç 
Adesso vado, ritorno trotterellando alla mia amata arte gotica -.-" 

A presto! :*





 
 
   
 
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