Naive
Capitolo 20 – Fly, fall, burn
“ I've been locked inside
your Heart-Shaped
box for weeks,
I was drawn into your magnet tar pit
trap . ”
(Nirvana – Heart
Shaped Box)
-
Non ci posso credere – a Linda sarebbe tanto piaciuto sprofondare nel letto
candido, su cui l’avevano obbligata a stendersi, e scomparire da quella stanza.
Il viavai che aveva reso la stanza affollata nelle due ore precedenti, e che le
aveva procurato una crisi di claustrofobia, era appena stato sostituito da un
vuoto ancora più opprimente. – Non ci posso credere – Linda sospirò. Michelle
era seduta sul bordo del suo letto, e le stringeva la mano come se fosse stata
sul punto di morire. Steven, sbucato fuori da chissà dove, non sembrava essere
in grado di stare fermo: girovagava incessantemente per la stanza, gettando
guardinghe e del tutto inutili occhiate fuori dalla finestra. La gentile e
rugosa infermiera che le aveva disinfettato il taglio sul sopracciglio, che si
era procurata cadendo a terra, era appena uscita dalla stanza. – Non ci posso
propr… - da quando era arrivata a scuola trafelata, Michelle non aveva fatto
altro che ribadire la propria incredulità, forte del supporto di Steven che
continuava ad annuire alle sue frasi. Linda maledisse mentalmente lo sciagurato
anonimo che aveva deciso di fare una telefonata al magazzino dei ragazzi. Aveva
aggiunto all’agonia che rappresentava l’attesa del ritorno dei suoi genitori,
in quel momento nell’ufficio della vicepreside, anche quella dell’arrivo di
Maxie, Axl o chissà chi altri. – L’ho capito, che non ci puoi credere – disse
mesta, appoggiando il capo ai cuscini del letto.
-
Ma, insomma, non ci posso credere! –
squittì Michelle, vagamente offesa, saltando in piedi ed unendosi a Steven in
quella specie di danza tribale attorno al suo letto. Se non fosse stato per l’incredibile
stanchezza e la sua naturale pazienza, Linda sarebbe scoppiata in un pianto
esasperato. – Chi l’avrebbe detto… Lei!
Non ci posso credere! – la figura in ombra, seduta in un angolo remoto della
stanza, ebbe un sobbalzo quando l’agitata brunetta citò in causa colei che
aveva spedito Linda in infermeria. La povera vittima invece, che era stata
consolata da alcune decine di studenti a lei sconosciuti nelle ore precedenti,
non mostrò alcuna reazione. – Nessuno se lo sarebbe immaginato – decretò con un
cipiglio saggio Steven, incrociando le braccia e gettando un’occhiata di
traverso a Duff, il quale però teneva lo sguardo incollato al muro. L’amico non
si era mosso da quando erano giunti in quella stanzetta, senza proferire alcuna
parola. Con un sospiro, il batterista scostò gli occhi dall’altro, per poi
riprendere il proprio buffo avanti-indietro. Michelle lo imitò.
-
Sono arrivata appena ho potuto! Quel cazzone guida come nonna Marshall! Cosa ti ha fatto?!
– probabilmente nemmeno la stessa Maxie aveva compreso ciò che le era uscito di
bocca, data la velocità della sua voce. La ragazza aveva spalancato le porte
dell’infermeria, precipitandosi al letto e gridando come una matta. Linda provò
il forte impulso di chiedere gli occhi e fingere di dormire, giusto per
sfuggire a quello che sarebbe stato l’ennesimo interrogatorio, ma si trattenne.
– Quello che vedi, Maxie. – rispose a bassa voce,
indicando svogliatamente la ferita sul sopracciglio che ancora bruciava per il
disinfettante. – Io non guido come la tua stupida nonna! – la protesta di Axl
si perse nei meandri della mente della brunetta, che con un certo sforzo riuscì
anche ad ignorare le imprecazioni della biondina. Nella stanza si scatenò un
nuovo brusio, dettato dalle voci nervose dei presenti. Ancora mezza distesa
sullo scomodo letto, Linda sollevò lo sguardo soltanto per cercare quello di
Duff, invano. Il ragazzo sembrava completamente estraneo alla situazione, con
un’espressione dura sul volto dai lineamenti dolci. Loro erano gli unici a non
parlare, perché entrambi sapevano che non sarebbe servito a nulla.
-
Vorrei sapere come cazzo fai a stare così calma!
– se l’aspettava. Da quando era cominciato quel lungo quarto d’ora di assurde
strilla e frasi sconnesse, Linda non aveva fatto altro che attendere che
qualcuno le ponesse quella fatidica domanda. E la morettina poteva persino
affermare di aver previsto che la mittente di quella domanda sarebbe stata
Maxie. Aveva sentito i vividi occhi azzurri dell’amica bruciare
sull’espressione assorta del proprio viso, sin da quando era entrata nella
stanza seguita da Axl, il quale non nascondeva certo la sua voglia di lasciare
quel posto. Linda era anche certa di aver sentito, per qualche secondo, il
risentimento della biondina sulla pelle. Il perché di quel sentimento non era
difficile da immaginare. – Non sai fare altro che stare lì, in silenzio, come
una bambola rotta! Reagisci! O ti va bene che lei ti abbia fatto questo? –. Linda alzò lo sguardo ad incrociare
quello dell’amica, stringendo i denti. Delusione, ecco cosa leggeva negli occhi
di Maxie. – Adrien fa solo una gran pena. E questo mi rende molto più reattiva
di te. – qualcosa, nell’immagine che tutti avevano sempre avuto della vecchia
Linda, si spezzò. Il suono doloroso di quel nuovo distacco si riversò nello
stupore di Maxie e di tutti i presenti, negli occhi sgranati del ragazzo seduto
qualche metro più in là. Ma Linda parve non farci caso. Era stanca che tutti le
ripetessero quanto Adrien fosse malata ma
che nessuno lo capisse realmente, nascondendo la sua reale essenza dietro
insulti facili e pronomi.
-
Marshall! L’infermeria non è un pub! – mai, prima di allora, aveva adorato la
vecchia infermiera della scuola così tanto. Proprio nel momento in cui era
stata sul punto di arrossire ed abbassare lo sguardo davanti al silenzio
generale, ecco comparire l’arzilla signora, pronta a metterla involontariamente
al riparo da danni ben più grandi della mancanza di riposo. – Vi voglio tutti
fuori di qui! La signorina Johnson ha bisogno di riposo! – a nulla servirono le
proteste di Michelle e Steven. L’infermiera era irremovibile, la stanza doveva
essere vuota prima dell’arrivo dei genitori di Linda. Con la scusa di dover
prestare attenzioni alle raccomandazioni della signora sul suo taglio al
sopracciglio, Linda distolse lo sguardo da Maxie, la quale
era ferma nel punto in cui la risposta inaspettata della ragazza l’aveva
immobilizzata. Non aveva voglia di leggerle negli occhi azzurri il dispiacere
per la durezza con cui si era preoccupata
per lei. L’avrebbe perdonata senza attendere scuse verbali che non
sarebbero arrivate, ma solo dopo. In quel momento, Linda aveva solo bisogno di
un po’ di silenzio. E di una conferma in particolare. – Colpisci duro, Lindie –
per poco non si lasciò scappare un sussultò quando si
trovò la figura di Axl davanti. Il ghigno sul volto del ragazzo era leggero, ma
dalle presenza comunque ingombrante. Imitando un
pugile, sferrò un paio di pugni a vuoto, guardandola beffardo senza lasciar
intendere il motivo di quei gesti. La moretta lo fissò allontanarsi insieme a
Maxie, la quale le aveva già dato le spalle, e pensò che l’unica persona in
grado di capire quel ragazzo sarebbe sempre stata Izzy. Sospirò.
-
Cazzo, che seccatura di donna… - sbuffò Michelle, lanciandosi un’occhiata alle
spalle come per controllare che la combriccola non l’avesse lasciata sola. Poi
si voltò di nuovo verso la ragazza, con un sorriso benevolo sugli occhi ma lo
sguardo assente, come se la sua testa in quel momento fosse stata concentrata
su un luogo distante, in una dimensione onirica. Linda le lanciò uno sguardo
perplesso, in attesa di una qualche spiegazione o anche solo di una parola,
cercando di non pensare né a Maxie né a… beh, a tutto il resto. – Dai, insomma.
Passerà. – come se si fosse trattato di una strana malattia. Sensuale e
provocante nei panni di spogliarellista, agli occhi di Linda Michelle sarebbe
sempre risultata una persona un po’ buffa, troppo bella nella propria
semplicità nascosta per un mondo come quello. – Ci vediamo piccola. – non fece
neanche caso all’odiato soprannome, quella volta: l’amica le diede un buffetto
sulla spalla, non compassionevole, soltanto gentile, prima di catapultarsi
fuori. – Sono in ritardo! Mi dispiace! Ma che succede…? – La voce baritonale e
veloce di Slash si spense nel suono dello strillo acuto della brunetta. Il
ragazzo, trafelato dopo una corsa che doveva aver messo a dura prova i deboli
polmoni, cercando di varcare la soglia dell’infermeria, aveva investito
Michelle col proprio corpo. – Scimmione! Scimmione!
Sei in ritardo, sì! Ti ho chiamato ore
fa, e spero che tu abbia una buona scusa per… - il battibecco si perse nei
corridoi della Renton. Amaramente Linda si chiese quanto tempo ci avrebbero
impiegato per tornare insieme.
Rimaneva
solo una persona nella stanza, che aveva alimentato una goccia alla volta il
carico di aspettativa che vibrava nelle vene di Linda. – McKagan, tu non
andare. Il preside vuole parlarti. – si limitò ad aggiungere la vecchia
infermiera, indifferente, prima di tornare a sistemare alcuni farmaci negli
scaffali. Se, quando la stanza era stata piena di gente, la ragazza aveva
cercato di evitare di guardare Duff, adesso che erano rimasti soli non poteva
farne a meno. Gli ingranaggi della sua mente razionale cercavano le parole
giuste da dire, ma una piccola ed importante parte del suo cuore si chiedeva se
esse esistessero, se ci fosse qualcosa di giusto da fare con quell’enigma di
ragazzo. Con la testa appoggiata alla finestra e lo sguardo al cielo, i
contorni del suo corpo apparivano indefiniti, inafferrabili. E, tutto sommato,
Linda non si sentiva tenuta a dire alcunché. – Ho bisogno di aria nuova. – la
ragazza aveva appena formulato quel pensiero, quando dalla bocca di Duff uscì
quella frase. Probabilmente, nessuno dei due afferrò immediatamente le
molteplici verità nascoste in quelle poche lettere. Il futuro sembrava ancora
una minaccia, più che una promessa, ma Linda seppe
subito che, qualunque cosa sarebbe successa, almeno per un po’ avrebbero goduto
di un momento di pausa. Tutti e due. Duff si alzò e, a dispetto di tutto, uscì
dalla stanza.
Il
locale era esattamente come se lo ricordava: il fumo creava una sorta di nebbia
sul soffitto, e la poca aria che rimaneva doveva essere divisa fra tutti gli
avventori che affollano lo stretto ambiente. L’odore di sudore e di birra
diventava sopportabile solo con l’abitudine, ed Adrien Miller poteva vantarsi di non sentire alcuna puzza.
Non dopo tutti i mesi trascorsi in quel tugurio, che era stato teatro di uno
dei suoi più grandi segreti. La ragazzo portò il
bicchiere alle labbra, mentre sentiva addosso gli sguardi lascivi di un paio di
barbuti balordi seduti all’angolo. Accavallò le gambe, bene attenta
a non distogliere lo sguardo dalla crepa che percorreva tutto il muro dietro il
bancone. Un’espressione seccata, o una manifestazione di apprezzamento, tutti
questi segni rassicurano una persona indipendentemente dal profitto che ne
trae. Il vuoto negli occhi di Adrien avrebbe fatto scappare a gambe levate i
due uomini, privandola di ogni divertimento. E questo lei lo sapeva benissimo.
Quel
pomeriggio ogni passo che l’aveva portata fuori dal cancello della scuola aveva
privato il suo corpo di peso, come se stesse galleggiando nell’aria. Aveva
continuato a camminare, finché non si era ritrovata a correre fra la folla di
Los Angeles, anche quando aveva oltrepassato il punto in cui aveva lasciato la
propria moto. Lo scorrere del tempo era stato scandito dal rumore dei propri
passi sul cemento, mentre il resto del mondo scendeva nel più completo
silenzio. Si era resa conto che forse avrebbe dovuto fermarsi un’eternità dopo
il calcio all’addome della piccola Linda, eterea come un fantasma fra le
persone che la guardavano con diffidenza. Adrien sapeva di aver provato
un’infinita quantità di emozioni, che avevano stravolto non solo il suo animo e
anche il suo fisico. Ma non se ne rendeva conto: ogni volta che provava a
setacciare i propri sentimenti alla ricerca di qualcosa che la sconvolgesse,
trovava solo un educato stupore per il modo in cui il suo corpo aveva perso il
controllo, spingendola a fare tutta quella strada di corsa. Anche il quel
momento, seduta sullo sgabello dello sporco pub, sentiva il cuore vuoto e un strano ronzio nel cervello.
Tornata
a casa, aveva provato a telefonare a Meredith, una, due,
tre volte, finché non aveva riposto la cornetta del telefono una volta per
tutte. Era rimasta chissà quanto a fissare il proprio riflesso nello specchio,
immobile nell’ingresso della dependance, avvertendo unicamente la spiacevole
sensazione di essere immateriale. Poi aveva preso le chiavi della moto e se
n’era andata ancora. Non aveva pensato di raggiungere quel posto, le sue dita
attorno ai comandi della moto avevano agito da sole. E il barlume di coscienza
che ancora brillava in lei, in quel momento, le stava suggerendo di andarsene.
La figura di Robin Keenan, che la sua mente creava seduta e sorridente sullo
sgabello al suo fianco, era troppo vivida. I colori che illuminavano
l’ologramma della donna le pizzicavano gli occhi, prima che Adrien sbattesse le
palpebre e cancellasse la fantasia. “Che
cosa strana” pensò, sorseggiando il drink ad alta gradazione. Aguzzando
l’udito, si accorse che i due uomini che l’avevano puntata stavano parlando
dello stratagemma migliore per rimorchiarla. Con un gesto veloce della mano,
afferrò l’orlo della propria gonna di jeans, sollevandolo a scoprire le cosce
oltre il limite della decenza. Riempire il vuoto che la feriva più di qualsiasi
esplosione di emozioni era una priorità dettata dalle regole che si era
imposta. Lascia che annusi l’osso, poi
toglilo di scatto quando tenta di morderlo.
-
Adrien! Sei proprio tu? – una voce trillante richiamò la sua attenzione,
emergendo dal brusio e dalla mediocre musica degli altoparlanti. Adrien non
riuscì a reprimere una smorfia, prima di voltarsi a vedere chi fosse
intervenuto a guastarle il divertimento: se i due uomini agivano secondo il
copione di qualsiasi essere maschile, come era probabile che accadesse,
spaventati dall’entrata in scena di una nuova figura in quel momento erano prossimi
alla ritirata. Addio passatempo. – Da quanto tempo! – la ragazza che le stava
venendo incontro non aveva un’aria particolarmente familiare. Carina, vestita
secondo i dettami della moda giovanile, in apparenza solare, era il genere di
persona che Adrien amava classificare nelle banalità. “Non come Robin”. Non ricordava di averla mai incontrata prima
d’ora. – Ciao! – trillò, sfoderando il proprio migliore sorriso entusiasta. Lo
sguardo spiritato, la voce diabolica che aveva fatto tremare Duff McKagan quel
pomeriggio, tutti quei dettagli della vera lei erano scomparsi. La nuova
arrivata, dai tratti orientali e sicuramente molto carina, si sporse per
baciarla sulle guance. Se anche aveva fatto fuggire i suoi corteggiatori,
poteva rivelarsi un’alternativa, un nuovo modo per trascorrere la serata. – Qua
ci lavora Naz! Ti ricordi di Naz? Oh sarà così contenta di… -.
Bastò
un movimento di quella svampita, un impercettibile spostamento che permise alla
rossa di guardare oltre la sua spalla. Non fece nemmeno in tempo a chiedersi
chi diavolo fosse Naz. La persona che era appena entrata nel suo campo visivo
era l’ultima che si aspettava di trovare non in un luogo del genere, ma in un momento del genere. Istintivamente
sorrise, prima ancora di comprendere la ragione per il neonato entusiasmo.
Tutto stava per diventare molto più intrigante. – Scusa… - mormorò,
interrompendo il monologo della propria interlocutrice. Questa le rivolse uno
sguardo perplesso, a cui rispose con un sorrisetto tirato, di cortesia, prima
di appoggiarle il proprio bicchiere quasi vuoto fra le mani e superarla con
pochi passi. Non si curò di prendere visione dell’espressione scandalizzata
della moretta, non gliene importava nulla. La figura che aveva individuato se
ne stava seduto sopra uno dei tavolini, attorniato da sbruffoni e eccentrici
individui che brindavano a chissà cosa con ettolitri di birra. Chissà perché
non era accompagnato dalla sua squadretta, si chiese Adrien. Sarebbe stato
interessante trovare lui, scoprire le
emozioni che sicuramente avrebbe saputo suscitare in lui. Vedere come dopo tutto era ancora succube della sua presenza. Perché doveva essere succube di lei. Era
inimmaginabile il contrario. Ma Adrien si sarebbe accontentata dell’unico dei
suoi amici che ancora non era passato per il suo letto.
Izzy
inarcò un sopracciglio quando la vide arrivare, il passo da modella in
contrasto con ogni elemento di quella bettola. Portò il boccale colmo di birra
alla bocca senza perderla di vista, assicurandosi che avesse puntato proprio
lui, che quel sorriso da seduttrice fosse riservato alla sua persona.
L’espressione sul viso del moretto era indecifrabile. – Ciao! Ma che cosa ci
fai qui? – non poteva suonare più falsa e pretenziosa agli occhi del ragazzo.
Prima che avesse il tempo di risponderle, una serie di esclamazioni volgari si
levò da parte degli amici di bevute che erano in sua compagnia. Izzy non perse
neanche un bagliore emanato dalla scintilla che scattava in quegli occhi grigi,
appena un complimento, educato o meno, giungeva alle orecchie della rossa. Era
qualcosa che andava al di là della semplice vanità. Ingurgitando un nuovo sorso
di birra fresca, Izzy si domandò come mai quella strana ragazza si fosse fatta
vedere, nonostante la probabilità che la notizia degli eventi pomeridiani
l’avesse raggiunto era alta. “Povera,
piccola Linda”. – Un giro. – rispose semplicemente dopo un lungo silenzio.
-
Ti dispiace se mi unisco alla comitiva? – per un attimo, il sorriso
affascinante di Adrien Miller parve vacillare sotto le lampade al neon di bassa
qualità, sotto gli occhi di tutti i presenti. Fu una stoccata di disagio che
mandò in confusione chi già era caduto ai suoi piedi, prima che la gravità che
l’orbita della ragazza esercitava lo acchiappasse nuovamente. C’era una strana
smorfia sul volto di Izzy, un sorriso storto che nascondeva un’indecifrabile
mistero. Che scioglieva,
letteralmente, e non nell’accezione positiva del termine. La rossa era abituata
a provare quelle sensazioni osservandole riflesse negli occhi delle proprie
vittime. – Certo che no. – si limitò a rispondere il moretto, ammiccando
all’indirizzo della ragazza. Il sollievo che quel piccolo gesto generò fu quasi
travolgente. No, non c’era alcun dubbio. Come
tutti gli altri: Izzy Stradlin sarebbe stato una nuova tacca alla sua
collezione, un altro uomo che l’avrebbe amata nonostante tutto. Dopo che ebbe
preso posto al tavolo e che ebbe incantato qualche balordo con un paio di
astuti giochi di parole, lo sfiorarsi delle loro mani le diede l’inequivocabile
risposta. Quella notte, Adrien si sarebbe fatta amare da Izzy. Come tutti da gli altri. Come da Duff.
-
L’avresti fatto anche tu? – Axl si sarebbe incazzato. Si sarebbe incazzato a morte, e probabilmente una volta
riuniti tutti in magazzino gli avrebbe fatto vedere i sorci verdi. Ma diamine,
se ne era valsa la pena: con la macchina che aveva fregato al suo migliore
amico, avrebbe potuto portare la ragazza seduta sul sedile anteriore del
passeggero in capo al mondo. E, conoscendosi, Slash sapeva che, con la giuste dose di alcol nello stomaco, avrebbe potuto
portarla anche sulla luna. – Cosa? – purtroppo per lui, l’esaminatrice statale
che l’aveva bocciato all’esame di guida qualche anno prima aveva ogni ragione
del mondo. Bastavano le labbra sensuali di Michelle Young a distrarlo: in quel
momento, ogni occhi del riccio stavano rincorrendo le linee dell’abito aderente
della ragazza, mentre la suddetta, in u impeto di
disperazione all’ennesimo semaforo rosso ignorato, teneva le mani strette
attorno alla cintura di sicurezza. Lo sguardo bruno di Michelle era però carico
di determinazione. – Avresti fatto anche tu… tutto questo… per lei? – le parole
sembravano morirle in gola. Slash aggrottò le sopracciglia scure.
-
Non picchierei mai una signora! – sbottò offeso, portando per la prima volta da
quando erano partiti lo sguardo sulla strada intasata di macchine. Quelle
domande ipnotiche di Michelle non lo stavano aiutando a ricordare dove fosse
quel ristorante carino e chiccoso dove
avrebbe voluto portarla. Se anche gli era sembrato che quel mastino travestito
da bambola avesse abbassato la guardia e scordato la disastrosa fine della loro
storia, pensò Slash, non era così. – Non sto parlando di quello! – strillò la
ragazza, spazientita dall’incapacità del riccio di capire le sue parole. Il
ragazzo fu certo che il proprio padiglione auricolare non sarebbe più stato lo
stesso. – E spiegati, cazzo! – sbraitò, spedendo gentilmente a quel paese ogni
buon proposito di comportarsi come un galantuomo. Le donne! Avrebbero sempre
adottato la tecnica migliore per mandarlo nel pallone, ad ogni suo tentativo di
redimersi dai propri errori. –
Rallenta! – gridò in risposta Michelle, dopo un’ardita manovra del ragazzo con
cui sorpassarono un grosso camion sgusciando nel traffico, ben sopra i limiti
di velocità consentiti.
-
Dico, come Duff… Avresti fatto come lui? – non appena l’atmosfera da corsa
clandestina si calmò, ecco che Michelle decise di avanzare la domanda. Poche
parole elusive bastarono per vedere sbiancare le nocche delle grandi mani di
Slash, strette sul volante come se fosse stato il suo unico appiglio. La
ragazza deglutì, riflettendo a lungo prima di continuare, mentre edifici tutti
uguali e facce sorridenti scorrevano sfocate dietro i finestrini. I raggi del
sole sul punto di tramontare colpirono i loro visi e il loro silenzio. –
Ameresti… una ragazza così tanto da ignorare ogni suo difetto? – ormai avevano
perso ogni chiarezza sui soggetti di quelle frasi. I diversi significati
nascosti in una domanda, pronunciata dalla brunetta in un tono di circostanza,
erano dolorosi se associati ai ricordi di un pomeriggio non troppo lontano, in
cui Slash aveva sottolineato come non fosse portato per le relazioni. Il
ragazzo si azzardò a gettare un’occhiata alla propria interlocutrice, trovando
gli occhi neri di questa fissi sulla strada davanti a loro. Velocemente, il
riccio scostò il proprio sguardo prima di dare a Michelle un buon motivo per
incatenarsi a lui ancora di più. Comprendere che quella ragazza aveva bisogno
di sentirsi dire la verità non sarebbe mai equivalso ad una dichiarazione da
romanzo rosa. Slash non le avrebbe mai donato tutto l’affetto profondo di cui
lei sentiva necessità, sarebbe stato in grado soltanto di provarci. Ed ogni
cosa che il ragazzo non disse valse più di mille parole. – Ti va se ci facciamo
una pizza? -.
Oh,
era meraviglioso. Era meraviglioso sentire il proprio stomaco vuoto riempirsi
di alcol, così come il deserto nel suo cuore si stava riempiendo di tutte quella sensazioni che le erano mancate quel
pomeriggio. Soddisfazione. Euforia. Amore.
Un amore diverso da quello di cui tutti gli altri si accontentavano, dettato da
quell’incontrollabile consapevolezza che tutti i presenti erano ai suoi piedi.
Adrien chiuse gli occhi, reclinò il capo all’indietro e, sorridendo, convertì
la propria adrenalina in un grido liberatorio. – Così, piccola! – rispose
qualcuno, mentre rialzando le palpebre la ragazza trovava attorno a lei la
stanza girare. La musica che pompavano gli altoparlanti era soltanto una delle
tante sostanze che l’avevano spinta ad alzarsi in piedi sul tavolo ed iniziare
a ballare. In quel momento, continuando a volteggiare su sé stessa al centro
della scarsa illuminazione della stanza, non ricordava nemmeno come erano
arrivati a quella festa. Quasi per sbaglio, incrociò lo sguardo divertito di
Izzy che, seduto in qualche sfocato angolo di una stanza semisconosciuta, la
indicò ad alcuni ragazzi con cui stava chiacchierando. L’ammiccare malizioso
del ragazzo a tutti quelli sconosciuti parve rinvigorirla. Gettando l’ennesima
bottiglia di birra svuota alle proprie spalle, incurante della marea di gente
che come lei stava ballando, Adrien riprese a volteggiare, il sorriso sulle
labbra.
Izzy
inarcò le sopracciglia, mentre uno dei tanti spacciatori d’hashish della festa
gli urlava qualcosa nelle orecchie senza comunque farsi comprendere. Nel buio
della stanza, rischiarata soltanto da alcune luci al neon provenienti da chissà
dove, la marea di capelli di un rosso sbiadito si agitava fuori tempo: ponendo
attenzione alla scarsa qualità della canzone tipicamente pop che stava
spaccando loro i timpani, il ragazzo si domandò se non fosse un bene il
deleterio senso del ritmo di Adrien. – Sono cinquanta dollari a pezzo! – il
moretto si voltò di scatto verso il brutte ceffo al
proprio fianco, che mostrò un sorriso che da tempo non vedeva il dentifricio
non appena Izzy fece un cenno affermativo con il capo. Quasi di pari passo con
quello della benzina, il prezzo della droga aumentava sempre di più. – E’ una
fregatura! – gridò il chitarrista, pur prendendo a frugare nelle proprie tasche
alla ricerca di qualche bigliettone. Lo spacciatore, che era anche il
proprietario della casa in cui si stava svolgendo la festa, sembrò leccarsi i
baffi alla vista dei dollari che il moretto si era guadagnato col sudore,
insieme al resto del gruppo. Denaro, droga, amore, ognuno è schiavo di qualche
particolare croce.
Dopo
che entrambi ebbero intascato le proprie ricchezze, Izzy tornò a guardare la
figura al centro dell’attenzione generale. Era facile abbandonarsi all’energia
ingannevole di quel corpo che ondeggiava, cadere nella scatola a forma di cuore
dove Adrien custodiva tutti i propri burattini. Ricordò come, sin dal primo
momento in cui l’aveva vista, non gli era piaciuta quella scintilla strana che
la ragazza serbava nello sguardo. Nell’affrontare un mondo sprecato e i
fallimenti continui tipici della vita, ognuno di loro si dimostrava
tremendamente arrabbiato, furioso anche senza un motivo consistente. Persone
come Michelle, vittime di una punizione immeritata, come Axl o Maxie, facili
all’ira per natura, persino come la piccola Linda, che però soffocava i propri
sentimenti attraverso la differenza; come Duff,
pieno di una forte delusione che lo accomunava a tanti
altri della loro generazione: era la rabbia a muovere tutta quella gente. Ma
non Adrien. Appena Izzy si trovò abbastanza vicino al tavolo per farsi udire
dalla ragazza, questa si lasciò cadere all’indietro: con riflessi pronti il
moretto la afferrò, imprecando rudemente quando per poco non persero
l’equilibrio. – Portami via. – il chitarrista non seppe mai se Adrien pronunciò
veramente quella parole, mentre gli allacciava le
braccia la collo. Ma gli chiarì definitivamente che quella ragazza non ce
l’aveva realmente con qualcuno, era solo disperata.
Izzy
Stradlin non era un santo, e probabilmente non lo sarebbe mai stato. Doveva
probabilmente ancora nascere la persona in grado di incastrarlo in qualche
schema morale. E quando Adrien avvicinò a quello del ragazzo il proprio
delicato faccino, che nascondeva tanti segreti ma non mutava in bellezza, non
si fece pregare ad accontentare il forte desiderio della ragazza di sentirsi
amata. Se la rossa era abituata ad accontentare uno sconosciuto, pur di colmare
la voragine che celava nel proprio cuore, non erano certo
affari suoi. Lui era giovane, disinibito, e con in
corpo qualche ettolitro di superalcolici vari, e quella strana ragazza era più
ingenua di quanto la gente pensasse. Guidato dalle indicazioni ricevuto in
precedenza dallo spacciatore, risalì facilmente le scale di una casa ancora
avvolta nelle tenebre, dalle forme e colori a loro sconosciute. Adrien non
accennava ad allentare la stretta delle braccia attorno alle spalle
del moretto, la testa nascosta nel collo di Izzy in un gesto simile a quello
dei bimbi, negli attimi di smarrimento. Il ragazzo si rese conto di essere
turbato dal pensiero di trovare sul viso sconvolgente di Adrien un’espressione
semplicemente diversa, ma quel
pensiero scomparve non appena trovò una stanza da letto, stranamente libera. I
sentimenti di una delle tante non sarebbero mai stati affari suoi.
Mentre
Izzy la spogliava degli ultimi indumenti, entrambi distesi su un letto
sconosciuto, Adrien dovette reprimere l’impulso di sorridere per l’enorme,
balsamica soddisfazione che stava provando in quel momento. Non avrebbe più
avuto bisogno di preoccuparsi, di perdere il controllo su sé stessa, di
commettere gli sbagli di quel pomeriggio: Izzy le avrebbe donato sé stesso,
come tutti gli altri, sarebbe caduto nella sua tela. Doveva farlo. Sì, sarebbe successo, pensava Adrien mentre si
compiaceva della foga con cui il ragazzo la toccava. Sarebbe stato come se
nulla fosse accaduto, come se Reese Miller non fosse mai esistito, come con… “Duff”. Il cambiamento fu impercettibile
quanto improvviso: il buio, che da sempre si era dimostrato confidente ed
amante della rossa, permise ad Izzy di non accorgersi della mascella contratta
della ragazza, mentre questa si trovava incapace di bloccare la sequenza dei
propri pensieri. Duff si era arreso: l’amara verità la colpì con tutta la forza
possibile, mentre con lentezza quasi atemporale distoglieva lo sguardo dal
volto distorto di Izzy, appoggiando la guancia sul cuscino maleodorante. Non
avrebbe versato alcuna lacrima: dentro di lei, la tredicenne ormai morta stava
già piangendo.
Fu
guardando il muro alla propria destra, l’intonaco grigio nella penombra, che
con il resto del proprio corpo si aggrappò ad Izzy. Forse Adrien sperava di
aver trovato qualcun altro che non la lasciasse più, qualcun altro che
apprezzasse i lati peggiori della sua personalità come lei aveva amato quelli
del fratello scomparso. Ma tutto attorno a lei era troppo freddo: quella volta,
aveva perso sul serio. – Dove vai? – non si accorse quasi dell’attimo preciso
in cui Izzy si allontanò dal suo corpo. Semplicemente, quando Adrien si decise
ad scostare lo sguardo dalle crepe nel muro, trovò il ragazzo seduto sul bordo
del letto, intento ad infilarsi la maglietta. Il moretto si volse a guardarla,
le sopracciglia aggrottate e le labbra assottigliate da chissà quale
sentimento. – Credevi che sarei rimasto qui per sempre? – era stata una domanda
pronunciata con così tanta spontaneità da risultare stridente con l’espressione
del chitarrista. Nel volto di Izzy, la ragazza vide soltanto un’immensa pietà:
quella smorfia continuò a perseguitarla anche dopo che lui se ne fu andato. Si
strinse in quelle lenzuola, distante da quel luogo mille miglia, ad ascoltare i
rumori della festa che si spegneva. Sapeva benissimo che le chiavi della moto
erano custodite in una delle tasche della minigonna, abbandonata ai piedi del
letto, ma non si alzò. Voleva fingere di non essere il mostro orribile che era
diventata, un attimo in più. – Buonanotte, Duff -.
A
non troppi chilometri di distanza, Duff McKagan si stava spiacevolmente
rendendo conto che quella notte non sarebbe riuscito a prendere sonno. Con un
sospiro, si rigirò sullo scomodo divano, constatando amaramente che le proprie
lunghe gambe sporgevano di tutto il polpaccio oltre il bordo del mobile. Il
magazzino era deserto: chissà dov’erano gli altri. Imbucati in qualche rave
party, o a casa di qualche ragazza carina alla quale avevano straparlato di
amore eterno. Il ragazzo sbuffò. Si sentiva infinitamente debole, per non
essere in grado d’ignorare il tuffo al cuore che lo scuoteva non appena qualche
ricordo di troppo s’insinuava fra i suoi pensieri. “Questa è la fine, vecchio mio” la
sensazione di essere stata trasformata nell’eroina di qualche soap opera gli
riempi il palato di un retrogusto amaro, che nulla aveva a che fare con
l’ironia di quell’affermazione. Avrebbe potuto ripetersi infinite volte che
quel giorno era stato in realtà l’inizio di qualcosa di nuovo: l’unica emozione
che in quel momento poteva riempirgli il cuore era quell’inesorabile delusione.
La felicità sarebbe arrivata: in quel momento c’era solo tutto
i cocci dell’uomo che aveva cercato di essere, al fianco di Adrien. –
Buonanotte -.
“ So much hate
for the
ones we love? ”
(Placebo – Running up
that hill)
NOTE DELL’AUTRICE
Okay,
sono di frettissima. Vi annuncio che il prossimo sarà l’ultimo capitolo di
questa storia, che è finalmente giunta al termine J nonostante sia durata meno di Love will tear us
apart, vi giuro che avevo smesso di sperare di poter
cliccare “Completa”. E’ stato molto difficile scrivere di Adrien, della sua
storia morbosa e complicata con Duff, di come lei abbia rovinato le vite di
tutti. Ma sono contenta di aver portato a termine questo lavoro, perché mi ha
aiutata a maturare il mio stile di autrice. Per lo meno, io mi sento così:
cresciuta in queste righe, pronta per una nuova sfida. Dopo questa storia, mi
prenderò un periodo di pausa e mi asterrò da scrivere fan fiction. Ma non vi
preoccupate (!), tornerò: ho un sacco di altre storie da scrivere
J (Aiuto N.d.Voi).
Parliamo delle citazioni in questo capitolo:
non sono proprio riuscita a fare a meno di ficcare un’altra frase di Palahniuk,
nella parte dedicata a Linda e Duff. “Da
quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?”
da Invisible Monsters: ormai posso dire che Shannon MacFarland
è la mia maggiore fonte d’ispirazione. Squilibrata proprio come Adrien. Axl che imita un pugile, poi,
è una omaggio a Fight Club.
Avete
riconosciuto, vero, la ragazza che avvicina al bar avvicina Adrien? xD
Michelle
e Slash non torneranno insieme: il fatto è che il ragazzo non accetterà mai il
lavoro di Micha. Preserveranno però un rapporto di amicizia. Oddio, troppi
spoiler del prossimo capitolo!
Naive
è direttamente consecutiva a Love will tear us apart:
siamo nel maggio 1985, e fra qualche giorno Izzy troverà Naz vomitante nel
vicolo di un locale di periferia. L’Izzy malvagio che avete visto in questo
capitolo è il lato oscuro dello stesso ragazzo che perderà la testa per Naz,
semplicemente Adrien non gli piace. Le persone possono essere crudeli.
Io
vi amo. Anche per questa storia, mi avete donato una fiducia immensa e io ve ne
sono immensamente grata. Giuro, ho adorato tutte le vostre recensioni e spero
di non avervi davvero deluso! Grazie. Grazie, grazie, grazie.
Bye