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Autore: Roxe    20/03/2011    6 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

 

 

I am Brain

 

 

Forse avrebbe dovuto chiamarle un taxi.

Alle tre di notte non era certo facile trovare una vettura libera in giro per Londra, ed era sicuro di non aver notato nel raggio di duecento metri la presenza di quel vecchio maggiolino dai sedili logori di un terribile color ruggine così bisognoso quantomeno di un cambio dell’olio e di una revisione ai freni, se non di una doverosa rottamazione.

Quindi era a piedi.
Non aveva un mezzo per poter rientrare a casa sua.

A casa loro.

Pazienza.
Aveva il cellulare dopotutto.

Di lì a poco si sarebbe calmata, avrebbe smesso di correre come un’imbecille in mezzo alla strada, e se lo sarebbe chiamata da sola, il taxi.

E comunque ormai era troppo tardi.

Sherlock Holmes alzò lo sguardo sulle tende tirate di fronte alle finestre del suo appartamento, ascoltando il ritmo sconnesso dei passi di Mary Morstan che si allontanavano rapidamente lungo Baker Street, incerti come quelli di un sonnambulo frettoloso, pronto ad impattare contro il primo ostacolo che gli si fosse parato davanti.

   sTonK

              wwwWWeEeEeEeEeEeEeEeEeEeEeEeEeEeEe

L’allarme antifurto della macchina maldestramente urtata nella corsa lanciò nell’aria il suo grido d’aiuto inascoltato, coprendo ogni altro rumore.

Sì, era troppo tardi.

Lui abbassò gli occhi a terra, ricacciato con violenza all’interno dell’appartamento da quel suono irritante che lo rendeva sordo e cieco, escludendolo totalmente da qualsiasi cosa stesse succedendo là fuori, nel resto del mondo.
Il suo sguardo restò fisso sul pavimento, evitando accuratamente di spostarsi su qualsiasi forma che emergesse dalla penombra, e concentrandosi soltanto su quell’ululato assordante che ad ogni secondo sembrava crescere di tono e d’intensità, gridando sempre più forte, e salendo sempre più in alto, fino ad infiltrare nel petto l’insopportabile urgenza di fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.

Per farlo smettere.

Di colpo scosse le spalle per scacciare la fastidiosa sensazione d’ansia che quel suono  gli metteva addosso.
Alzò la testa con uno scatto improvviso e si mosse agilmente nel buio, del tutto consapevole dello spazio che lo circondava, dirigendosi a grandi passi verso l’interruttore della luce.
Allungò la mano senza esitazione, protendendosi in avanti con un gesto rapido, insolitamente frettoloso, che proprio per questo mancò il suo obiettivo per un soffio, portandolo qualche centimetro troppo a sinistra.
Quasi sorprese dall’errore commesso le dita si spostarono con sorprendente rapidità, riguadagnando il terreno perduto ed andando a catturare con soddisfazione il pulsante grazie ad un uso sapiente del tatto.

L’indice sentiva già cedere il bottone sotto il polpastrello quando l’urlo cessò di colpo.
Così com’era iniziato.

E la stanza piombò improvvisamente nel più completo silenzio.

Quasi fosse stata mossa da quel rumore e da null’altro la mano di Holmes si bloccò a sua volta, incapace di esercitare la pressione necessaria a far scattare il contatto.
Tutto il suo corpo s’irrigidì per qualche istante, mentre il respiro trattenuto a lungo nei polmoni trovava la via d’uscita, liberandosi in un soffio leggero, e il braccio si staccava con lentezza dal muro, ricadendo morbidamente lungo il fianco.

Non appena le sue dita furono lontane dall’interruttore tutto il suo corpo si rilassò, liberato da quell’impercettibile stato di tensione che lo aveva accompagnato in ogni suo passo verso la parete.
E Sherlock si ritrovò a fissare l’oscurità quasi perfetta che lo circondava.

Sollevato.

 

Non voleva proprio accenderla quella luce.

Fino a quel momento aveva astutamente tergiversato, ma nell’istante in cui la sua mano aveva sfiorato il pulsante era stato costretto ad ammetterlo.

Era entrato in fretta e furia sbattendo la porta, restando immobile con le spalle premute contro quell’uscio chiuso a sopportare discorsi sconclusionati.
Al buio.

Non c’era alcun bisogno di accendere la luce per sentire quelle sciocchezze.
Bastava chiudere gli occhi e rovesciare la testa all’indietro, ascoltando quella voce timida e determinata che filtrava attraverso il legno, a pochi centimetri dalla sua schiena.

E non serviva accendere la luce per ritrovare la maniglia e spalancare nuovamente la porta.

Anzi doveva ringraziare la sua brillante idea di tenerla spenta se lei era rimasta sulla soglia, senza avere il coraggio di entrare, respinta da quelle tenebre ostili che avvolgevano lui e tutto ciò che lo circondava in una massa sfocata e indistinta.

Ma adesso non aveva più scuse.

Ora ch’era rimasto solo, nella quiete più assoluta, senza nessun testimone e nessuna valida ragione.
Doveva ammetterlo.

Che non voleva guardare.

I suoi occhi si dilatarono nell’oscurità, nutrendosi di quel buio rassicurante che copriva ogni cosa, nascondendo alla vista tutte le forme e risparmiandogli la fatica di arginare ancora una volta quella nuova, indefinibile sensazione d’insofferenza che provava entrando lì dentro.
Da circa dieci giorni.

C’era un fastidio, come un formicolio nel suo stomaco, o nel suo sterno, o forse in mezzo alle sue costole, che  lo perseguitava da allora.
Un disturbo seccante, che lo irritava al punto da suscitare in lui l’incontrollabile impulso di saltar giù dal letto alle sei di mattina e scappare fuori, per strada, iniziando a girovagare lungo le vie di Londra alla ricerca del miglior punto d’osservazione per scannerizzare ogni esemplare di razza umana che attraversava ignaro il suo campo visivo, rivelando al suo sguardo attento ogni più piccolo particolare della sua banale esistenza.

Non era stato difficile per lui individuare il luogo perfetto.

Comodamente appoggiato sugli ampi gradini della fontana di bronzo che dominava la piazza, stagliando nel cielo il suo angelo con le ali spiegate, Holmes sedeva immobile al centro di Piccadilly Circus, ed osservava per ore l’umanità nelle sue infinite varianti.

Un flusso incessante che non si arrestava mai.
La gente spuntava da ogni angolo, camminava, rallentava, aspettava, chiacchierava, attraversava, entrava ed usciva senza sosta, ad ogni ora del giorno e della notte, animando lo spazio di mille voci e rumori.

Qualcuno procedeva a testa bassa, fissando il suolo ed avanzando in linea retta. Altri si muovevano a coppie o in gruppo, più lentamente, interagendo tra loro con un tono ed un volume spesso incuranti di raggiungere orecchie alle quali non erano destinati.
Quasi nessuno faceva caso a ciò che lo circondava. Ognuno attraversava la vita immerso nel suo mondo, passando accanto a quello degli altri stando ben attento a rispettare una rigorosa quanto convenzionale distanza di sicurezza.

Ma quella distanza non contava nulla per Holmes.
Lui penetrava così facilmente la scorza sottile di quei mondi da sentirsi quasi aggredito dalle mille esistenze che gli scorrevano davanti, balzando con prepotenza all’occhio della sua mente.

Immerso in quella folla di colori e parole posava lo sguardo ora su uno ora sull’altro individuo che transitava alla portata del suo sguardo, delineando la sua natura con pungente precisione.

Un impiegato di banca col vizio del gioco sostava a fianco di una quattordicenne iperattiva che ostentava il suo pessimo rapporto con la madre dondolando la testa al ritmo della musica sparata direttamente sui suoi timpani da due microscopici auricolari.
Una coppia di turisti italiani sfogava le sue frustrazioni matrimoniali sulla cartina di Londra che tentava di ripiegare goffamente, lanciando a turno occhiate di disgusto al caffè americano sorseggiato dal loro occasionale vicino di marciapiede, intento a comporre con una mano sola un messaggio di scuse per il netto ritardo ad una delle sue quattro fidanzate.
L’infelice madre di tre gemelli malediceva il giorno in cui aveva varcato la soglia di quella clinica di fecondazione artificiale, mescolando con malcelata frustrazione tre porzioni di latte in polvere dentro un thermos ricoperto di fiori e farfalle.
Un gruppo eterogeneo e chiassoso di adolescenti  eccitati sedeva al suo fianco, agitandosi nel tentativo di smaltire l’adrenalina residua dopo la fuga da scuola, mentre la femmina alfa, fasciata in una corta minigonna rossa, parlava con voce squillante e  sguaiata di compiti in classe e d’amore.

Niente di tutto questo era realmente interessante.
Ma il semplice processo d’elaborazione era sufficiente a raggiungere il suo obiettivo.

Qualsiasi cosa andava bene pur di mantenere in attività il cervello.
Un numero di giri non certo esaltante, ma sufficiente a tenere acceso il motore e impedire che si spegnesse, smettendo di pensare.

Ed iniziando a provare.

 

Sherlock ascolta… io e Mary…

 

Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.

Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

Era un’emersione lenta e faticosa, perché non esisteva probabilmente sull’intero pianeta un intreccio di fili così tesi e robusti come quelli che imprigionavano e delimitavano il suo cervello, proteggendolo da tutto ciò che non cadeva sotto il suo diretto controllo, e finendo per schiacciare ogni intruso molesto contro le pareti del cranio, senza lasciargli alcuno spazio vitale.

Solo così la macchina era perfetta.

Ed era davvero perfetta.

Non c’era niente che potesse deviare, danneggiare o rallentare i processi della mente. Tutto poteva essere calcolato con feroce precisione, lasciando all’errore un intervallo talmente esiguo da potersi circoscrivere nell’ordine di cifre infinitesimali.

Nessun fastidioso granello di sabbia s’incastrava nel meccanismo, impedendo la sua naturale e rapidissima rotazione.

Nessuna interferenza era possibile.

 

…avremmo deciso di andare a vivere insieme, quindi…

 

Scontato.

Dal primo momento in cui Watson aveva appoggiato gli occhi su quella testa bionda e quelle iridi azzurre lo aveva capito con una chiarezza disarmante.
Che sarebbe andata a finire così.

La parte razionale di Sherlock, che poi era la quasi totalità di lui, si era anche fermata ad osservare il bizzarro fenomeno con occhio scientifico.
Sudorazione eccessiva, respiro affannoso, comportamenti idioti, alterazione del sonno e dell’appetito.
Una quantità incalcolabile di sospiri.

Questo era quello che la gente definiva un colpo di fulmine, probabilmente.

Il soffocante senso di fastidio che aveva provato osservandoli. Quello non era stato preso in considerazione.
Non rientrava nei parametri e non contribuiva in nessun modo alla comprensione dell’evento.
Semmai costituiva un noioso effetto collaterale, da stritolare con forza tra le ganasce della logica.

Eppure, nonostante tutto l’autocontrollo di cui era capace, che definire totale era oltremodo riduttivo,
vedere lo sguardo di John fisso fuori dalla finestra, incollato sulla figura esile che si allontanava a passo rapido e leggero lungo il marciapiede, aveva provocato in lui una sensazione impossibile da decifrare con i soli dati in suo possesso, che vista da un occhio esterno ed obiettivo sarebbe risultata spaventosamente simile al terrore.

Da allora aspettava solo il giorno in cui lo avrebbe detto.

 

…mi trasferirò tra dieci giorni.

 

E quel giorno era arrivato.

Esattamente come aveva previsto.
Tutto secondo copione. Noioso come la stragrande maggioranza degli eventi che caratterizzano la normale vita di un normale essere umano. Prevedibile in ogni sua parte.

Ma quel seccante formicolio no.
Non l’aveva messo nel conto.

Era qualcosa d’inatteso, che si agitava dentro di lui ignorando uno dopo l’altro i severi avvertimenti della ragione.

Non sapeva cosa fosse. E stranamente non voleva saperlo.
Lo sentiva emergere da un luogo a lui sconosciuto all’interno di se stesso, aggirando con astuzia le fitte e robuste difese che lo separavano dalla coscienza.
Ed ogni volta si avvicinava un po’ di più, costringendolo a moltiplicare i suoi sforzi per ricacciarlo indietro.
Là da dove era venuto.

Ma poi la sera tornava a casa e sentiva ancora il suo odore. Vedeva le sue cose sparse in giro. La sua giacca buttata sulla poltrona e le stoviglie ancora sporche nel lavandino. Il computer acceso sulla sua pagina web. L’eco dei suoi passi al piano di sopra.

Avvertiva la sua presenza.

E aspettava il giorno in cui sarebbe entrato lì dentro e non l’avrebbe più sentita.

Scoprendosi incapace di guardare.

 

John si alzava la mattina all’alba per cercare d’incontrarlo. Di parlargli.
Tentava di bloccarlo sulla porta con gli occhi impastati dal sonno e la voce rauca, soffocata dagli umori della notte ancora incastrati nella gola.

Ma Sherlock gli sfuggiva ogni volta.
Scivolava fuori dalla sua stanza con un balzo lesto ed inquieto, attraversava a grandi passi la cucina e spariva giù per le scale senza lasciargli il tempo di aprire bocca, per poi sgattaiolare a notte fonda attraverso l’ingresso con la medesima rapidità, tornando a chiudersi in camera. Sordo ad ogni richiamo.

Non voleva incontrarlo.
Non voleva parlargli.
Non voleva sentire la sua voce.

Quella voce incerta, sfrontatamente velata di dolore, che urtava con un gesto spietato e inatteso le pareti della psiche, allentando lo spazio tra un filo e l’altro ed aprendo la strada all’avanzata del nemico.

Una voce dalla quale era necessario stare lontani.
Per difendersi.
Per non perdere posizioni. Per mantenere l’equilibrio.

Per poter conservare il controllo.

 

… Non scappare! Volevo chiederti… Hai bisogno che ti trovi un altro coinquilino?…

 

Oh sì.
Gli sarebbe mancata la straordinaria idiozia delle sue domande.
Quella sua rara dote di non capire mai un accidente di niente, anche quando la soluzione era ignobilmente ovvia.

 

               E allora vai via.
                             Vattene.

 

Sherlock... aspetta!

 

                            No.

                                    VATTENE.

                 Fa’ quello che hai deciso di fare.

            Non temporeggiare ancora.
                             Esci da questa maledetta casa e poi fine a questa atroce agonia.

 

Oggi.
Dopo dieci lunghi giorni. E dieci brevissime notti.
Quell’insopportabile attesa era finita.

La creatura bionda che l’attendeva accucciata sul pianerottolo ne costituiva la prova più evidente e sfacciata.

Se n’era andato.

Non c’era più traccia di lui.

E Sherlock Holmes invece era esattamente là, nell'ultimo posto al mondo in cui avrebbe voluto essere, fermo di fronte alla parete di quella stanza buia, con lo sguardo fisso sul pavimento e le pupille dilatate che iniziavano lentamente ad abituarsi alla penombra.
Incapace di alzare gli occhi.

Non voleva proprio guardarla, quella stanza traboccante di cose.
Eppure completamente vuota.

Restava immobile con la testa china, le braccia distese lungo i fianchi e le spalle curve. Inghiottito da qualcosa che per quei dieci giorni era riuscito in qualche modo a tenere a bada, e che ormai non era più in grado di dominare.

Qualcosa a cui si rifiutava di dare un nome.

Perché forse non l’aveva.
E se l’aveva. Beh.

Lui non voleva saperlo.

 

Ma gli argini erano rotti.
Il cervello girava a vuoto improvvisamente privo di qualsiasi appiglio, come una potente macchina da corsa che squarcia l’aria col suo rombo assordante, alzando i giri del motore fino a diffondere intorno a sé un acre odore di bruciato, senza aver ingranato alcuna marcia.
E mentre quel fragore infernale continuava a crescere all’interno delle sue orecchie, un familiare senso d’oppressione affiorò a tradimento in mezzo al petto, per la prima volta completamente slegato dal suo incessante bisogno di mantenere sotto sforzo la sua mostruosa corteccia cerebrale.

Era sempre lui.
Quel consueto ed insopportabile senso di vuoto che lo assaliva quando la noia sotterrava la sua esistenza sotto la cappa grigia e pesante dell’inerzia. Sempre con la stessa ferocia, e la stessa impeccabile puntualità.
Identico ogni volta.

Ma non quella volta.

Era lo stesso vuoto. E non lo era.
Come se avesse le medesime dimensioni ma si trovasse in un’altra parte del corpo, molto lontano dal cervello.
Eppure agiva allo stesso modo, provocando in lui la medesima urgenza di riempirlo.
A qualunque costo.

Non si era mai sentito così. E si era sempre sentito così.
Sopraffatto da quella sensazione antica eppure del tutto nuova, che per la prima volta non sapeva controllare.
Ed alla quale non c’era rimedio.

O forse sì.

 

Sherlock alzò di scatto la testa, come risvegliandosi da un lungo sonno.

I suoi occhi si mossero rapidamente nel buio, ormai del tutto assuefatti alla penombra, avventurandosi senza timore in mezzo alla stanza ed iniziando ad esplorare con minuzia ogni superficie.
La luce pallida che filtrava attraverso le finestre era ormai più che sufficiente alle sue pupille dilatate per distinguere le forme che sfilavano sotto il suo sguardo attento, impegnato nella ricerca di un oggetto preciso tra i mille che si affollavano in ogni angolo della stanza, tutti indistintamente grigi.

Prima d’ogni altra cosa guardò sul caminetto.
Era lì che lo teneva di solito, incastrato tra il muro e quella lugubre statuetta nera. Ma la sagoma inconfondibile del suo violino torreggiava trionfante sui resti dell’antico reperto, schiacciandolo senza pietà con la sua massa ingombrante che resisteva sospesa da giorni in quel precario equilibrio.
La mascella s’irrigidì mentre lo sguardo correva lungo lo sbalzo in pietra, constatando con malcelata stizza l’assenza di ciò che stava cercando tra gli oggetti appoggiati confusamente su quel bordo sottile.
La sua attenzione si spostò rapidamente sulla poltrona nera, esplorando tra i cuscini per scovare un rigonfiamento sospetto o anche solo un segno della presenza di un intruso scivolato inavvertitamente tra le cuciture.
Ma non riuscì a vedere niente.

Scrollò il capo con impazienza, distogliendo lo sguardo.

Da qualche parte nel suo cervello un’eco lontana cercava di ricordargli quanto fosse scarsamente logico e razionale tentare di trovare qualcosa in una stanza completamente immersa nel buio.

 

Ma l’opzione di accendere la luce non era contemplata.

 

Con un movimenti secco del collo ruotò la testa verso la finestra, tentando di scorgere quella forma conosciuta tra i mucchi di fogli e libri che affollavano la scrivania, formando una barriera di carta impenetrabile alla vista.

Niente.

Allora girò su se stesso, serrando le gambe tra loro con uno scatto deciso, e fissando la sagoma scura del divano nel tentativo d’individuare qualcos’altro sulla sua superficie oltre il cellulare e il giaccone nero buttato di traverso sul bracciolo.

Niente.

Lo sguardo passò sul tavolino. Ricoperto di cartacce e vestiti.

Niente.

Sul mobile accanto alla porta.

Niente.

Si allungò persino sul tavolo della cucina, per non lasciare nulla d’intentato.

Niente.

 

Lui e la sua fottutissima mania di spostargli le cose.

Dove cazzo aveva messo il suo astuccio in pelle?

 

Di colpo fece un passo in avanti.
Afferrò il vecchio cuscino con la bandiera britannica e la coperta grigia posati sulla poltrona al suo fianco e li sollevò verso l’alto con un gesto nervoso.
Restò immobile per qualche istante, con le braccia alzate e le dita strette su quella stoffa ruvida, fissando con sguardo vitreo il sedile vuoto sotto di lui.

Niente neanche lì.

 

Poi accadde tutto velocemente.
In una manciata d’istanti.

Si mosse senza preavviso. Mostrando una velocità di cui non sapeva d’essere capace.
Abbassò bruscamente le braccia e gettò tutto a terra. Con rabbia.
                                                                                                           Stonf

Con la stessa rabbia avanzò verso la libreria, affondando le mani tra un volume e l’altro e tirandoli fuori dagli scaffali a gruppi di cinque o sei con uno strattone rapido e brutale, lasciandoli cadere a terra con un tonfo sordo.
                                                  SbaM              ThUd
                                                                             ThuMp

Uno scarto di lato.
E un brusco manrovescio sulla pila interminabile di libri che giaceva in equilibrio precario sul tavolino laterale, che rovinò a terra disperdendo il suo pesante ed instabile fardello di fronte al camino con un orribile fracasso.

                                                                                  CRASH

Il respiro accelerato. Affannoso.
I pugni chiusi, le unghie conficcate nella carne,  le labbra serrate, deformate dalla collera.
Si voltò con un movimento sguaiato ed impetuoso, talmente esasperato da fargli quasi perdere l’equilibrio, e si diresse a grandi passi verso la scrivania, calpestando senza esitazione i volumi rovesciati a terra sotto di lui.
Con rabbia.

                                      SBAM

Entrambe le mani, a palmo aperto. Sbattute sul tavolo e poi infilate tra i fogli e le carte. Alzando, spostando, accartocciando. Freneticamente. Senza controllo.
Su e giù in mezzo a quello scompiglio.

Con rabbia.

Non c’era.
Non era neanche lì.

Non era da nessuna parte.

 

Poi scattò.
Di colpo in avanti.
Il busto allungato sul tavolo. Le spalle in rotazione ed i piedi divaricati, inchiodati a terra per sostenere meglio l’impatto.

Con un gesto di sorprendente violenza spazzò via tutto quello che si trovava sul piano di legno, rovesciandolo a terra con un ampio e furioso movimento delle braccia, mentre dalla sua gola usciva il rantolo soffocato e feroce di una belva ferita.

- grrraaaaaaAAAAHH!

La massa informe e pesante degli oggetti che ingombravano la scrivania, i libri, i bicchieri, le penne, il computer, la lampada, le provette, tutto si sparse ai suoi piedi, impattando al suolo con uno schianto assordante.
E i fogli volarono per aria, avvolgendolo in un caos bianco ed impazzito, che volteggiò attorno alla sua testa disegnando nell’aria infiniti movimenti bizzarri, per poi ricadere lentamente verso il basso, sparpagliandosi alla rinfusa sul pavimento. Accanto ai pezzi del suo cuore.

                                             CRASH

 

Ora davvero non l’aveva più.

 

Con un calcio spietato scaraventò ciò che restava del computer portatile verso la finestra, guardandolo infrangersi contro la parete e precipitare a terra, sbriciolato in mille minuscoli frammenti.
                                                                                                   cRacK

Indietreggiò a tentoni. Barcollando.

Si voltò di scatto ed iniziò a percorrere la stanza a grandi passi.
La bocca spalancata ingurgitava aria con un ritmo secco ed irregolare. Le braccia distese e le lunghe dita ripiegate come artigli roteavano disordinatamente per conservare l’equilibrio del corpo durante i suoi movimenti scomposti.

Girava in tondo come una bestia in gabbia.
Ruotando la testa da ogni lato, mentre gli occhi dilatati si aggiravano a casaccio nel buio, contemplando senza vederlo quel macello di oggetti rotti e sparsi a terra per tutto l’appartamento.
Totalmente fuori controllo.

 

D’improvviso ci fu un lampo.

Una luce intensa attraversò il suo cervello. Abbagliandolo.
E Sherlock Holmes si bloccò.

Al centro esatto della stanza.

Chiuse gli occhi.
Reso cieco da quel bagliore.
Le membra si rilassarono di colpo e le mani ricaddero lungo i fianchi, come private della loro energia. Mentre una voce delicata ma ferma emergeva dalla memoria, ricordandogli cosa doveva fare.

Con un balzo fulmineo saltò sul tavolino di fronte al divano.
Atterrò nel piccolo spazio che lo separava dal sedile e si chinò in avanti.
In un attimo le dita si strinsero intorno al cellulare abbandonato tra i cuscini, sollevandolo e portandolo rapidamente all’altezza del volto.

Lo spesso strato di polvere che lo ricopriva splendeva in controluce con un riflesso iridescente.

Di scatto portò l’apparecchio vicino alle labbra.

                                    ffffffffffhhhhh

Con un soffio deciso spazzò via dalla superficie lucida la patina del tempo, liberando una piccola nube di pulviscolo che si disperse nell’aria danzando intorno al suo viso.
Un lesto sfregamento contro il bavero della giacca terminò l’operazione di pulizia.

Il suo pollice scattò nervosamente sul tasto d’accensione, sorpreso e irritato di non ricevere alcun segno di vita dall’apparecchio schiacciato contro il palmo della mano, stretto tra le dita ben più del necessario.

Non  si accendeva.

Certo che non si accendeva.
Era buttato lì da dieci giorni, la batteria doveva essersi scaricata una settimana fa.

Il caricatore.

Lo aveva intravisto rovinare a terra assieme al resto della scrivania.

Con un altro balzo fu sul pavimento. Inginocchiato tra le carte ed i vetri.
La mano libera afferrò il lungo filo nero che spuntava sotto la lampada frantumata, tirandolo con forza verso l’alto e liberando la matassa ingarbugliata dalla sua prigione di macerie.

Trovato.

Scattò in piedi.
Il telefono in una mano e il caricatore nell’altra, guardandosi intorno alla ricerca di una presa.

Non riusciva a ricordare dove fosse.
In cucina forse.

O sotto la scrivania.

Era difficile persino per lui.
Anzi.

Era difficile soprattutto per lui concentrarsi in quello stato d’agitazione, dopo dieci giorni che dormiva tre ore a notte e mangiava a stento. Come un perfetto idiota.
Con un gesto goffo si asciugò il sudore dalla fronte, tentando senza successo di controllare i sospiri affannosi che uscivano ininterrottamente dalle sue labbra, uno dietro l’altro.

Alla fine la vide. Nonostante il buio.
Bianca e sporca, occupata da un’antica quanto inutile ciabatta, a pochi centimetri di distanza dal caminetto.

In un paio di falcate fu di fronte al muro.

Sradicare l’inutile prolunga ed inserire l’alimentatore nella presa fu semplice.
Non lo fu altrettanto riuscire ad infilare la minuscola spina dell’alimentazione nella presa del telefono.

Le dita malferme e frementi si stringevano attorno al cavo, incapaci di fissare lo spinotto.
E lui non riusciva a far altro che sbattere ripetutamente il piccolo spuntone metallico contro la scorza di plastica attorno al minuscolo foro, ricoprendola di segni e graffi.
Come un ubriaco.

Si bloccò all’improvviso, abbassando le braccia.
Chiuse gli occhi. Inspirò a fondo.

 

Calma.

 

Espirò.
Li riaprì.
E provò di nuovo.
Con mani finalmente salde.

Entrò al primo colpo.

Aveva ragione.
Come sempre del resto.

Non c’era davvero niente che potesse alterare in modo così devastante le facoltà mentali come l’emozione.

 

Il telefono si accese subito.
Holmes osservò con impazienza lo schermo illuminarsi e mostrare il suo inutile messaggio di benvenuto.
Si abbassò di scatto sulla poltrona nera. Sedendo sul bordo.
Le gambe piegate sotto il corpo, il busto proteso in avanti ed entrambe le mani aggrappate al cellulare.

Menu principale.
Messaggi.
Componi messaggio.

Iniziò a digitare con una rapidità impressionante.
Le sue agili dita battevano freneticamente sulla superficie del telefono, spostandosi da un tasto all’altro con un ritmo precipitoso, accompagnato dagli scatti ugualmente rapidi dei suoi occhi.

                          Tic tIc tiC tic TIc tIC TIC tIc Tic tic tIC TiC Tic tIc

Il chiarore intenso sprigionato dal piccolo schermo illuminava il suo viso assorto e concentrato con una delicata luce bianca, stagliando il suo profilo nella penombra.

Compose il messaggio tutto d’un fiato.
Senza fermarsi un istante.

Trattenendo il respiro dalla prima all’ultima lettera.

 

Fatto.

 

Sullo schermo comparve il tasto invio.

E di colpo tutta l’aria trattenuta nei polmoni venne espulsa fuori con violenza.
Assieme alla tensione.
Al caos.
Alla follia.

Ed alla rabbia.

Sherlock Holmes si raddrizzò sulla poltrona.
Restando immobile nel buio. Circondato dalle rovine del suo mondo sparpagliate per tutta la stanza.
Lo sguardo fisso su quello schermo bianco. Il volto privo di qualsiasi espressione. Le labbra dischiuse ed il respiro leggermente accelerato, ma profondo e regolare.

Le pupille contratte, ferite dal bagliore che s’irradiava dalle sue mani avvolte attorno al vetro ed alla plastica, scosse da un tremito impercettibile.

Il pollice si sollevò lentamente, fermandosi a qualche millimetro da quel tasto.
Senza riuscire a premerlo.

Il cervello gli comandava di muoversi. Ma lui non obbediva.

 

Continuava a fissare quelle lettere nere incise nella luce.

 

Che scintillavano debolmente.

                                     Davanti ai suoi occhi.

 

 

A friend told me to be honest with you.
So… here it goes.
I'm thankful for every day of these years spent with you.
For everything we shared. Every chance I had to grow.
I'll keep the best of them with me wherever you will go.
This isn't what I want, but I'll take the high road.
Maybe it's because I don't want to walk around angry.
Or maybe it's because I finally understand.

There are things we don't want to happen, but have to accept.
Things we don't want to know, but have to learn.

And people we can't live without,

 

but have to let go.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:
1. Sono quasi del tutto certa che esista in questa sezione un’altra fic intitolata I am brain.
Ricordo benissimo di averla vista, ma purtroppo quando sono andata a ricercarla non l’ho più trovata…
In ogni caso mi scuso con l’autrice per aver bissato la sua idea. >< Ho tentato in tutti i modi di pensare ad un titolo diverso che rendesse altrettanto bene, ma non sono riuscita a scovare niente di nemmeno lontanamente efficace come questa frase, che di per se stessa rappresenta un po’ il sunto estremo degli intenti di Arthur Conan Doyle riguardo il suo personaggio.
Per quel che ricordo dell’altra fic la frase era usata nel suo reale ed originale significato, mentre nel mio caso è usata per contrasto, quindi spero di non aver ‘sovrapposto’ troppo le due idee.
Anyway!
I am brain è l’estratto di una frase di Holmes («I am brain, Watson. The rest of me is a mere appendix») tratta dal breve racconto The Mazarin Stone, uno degli unici due testi di Doyle raccontato in terza persona e non direttamente dal dottore, perché progettato per il teatro, per il quale sarà poi realmente adattato con il titolo The Crown Diamond: An Evening With Mr Sherlock Holmes.
La scelta spero sia chiara.
Il ‘contrasto’ di cui parlavo qualche riga sopra consiste nel fatto che il titolo identifica Holmes con il suo cervello attraverso la definizione che lui dà di se stesso, mentre il capitolo parla in realtà di quel ‘resto’ che cervello non è, che nel titolo non c’è, ma che in lui esiste nonostante tutto. E che qualche volta –qualche rara, rarissima volta- smette di essere una mera appendice.
Di fatto questo è un tentativo di mettere Holmes alle prese con il suo lato irrazionale.
Lo so è stato un tentativo quantomeno temerario… **;;  Anche perché questo suo ‘lato’ è per lo più inesistente…
Ma proprio perché salta fuori così raramente ho notato che riesce a coglierlo del tutto impreparato le poche volte che emerge dagli abissi dell’ipotalamo.
Nel caso specifico della mia fic proprio l’essere cervello di Sherlock gl’impedisce di contestualizzare correttamente le emozioni, al punto da farlo soccombere goffamente al suo NON essere solo cervello ma uomo dotato di tutta una serie di altri organi annessi, che a suo modo si scopre geloso, arrabbiato, abbandonato, e…

2. Scommetto che in questo preciso momento starete pensando: Ma guarda questa furbetta che si schernisce dicendo che non sa l’inglese di qui e non lo capisce di là, e poi ti tira fuori questo popò di messaggino semi poetico…
Vi avverto da ora e per sempre… se vedete un bel testo inglese con frasi lunghe e compiute nelle mie fic, state sicure/i al 100% che è una citazione letterale o quasi di un testo già esistente.
In questo caso il messaggio di Holmes è la trasposizione leggermente rimaneggiata (segnalare eventuali errori pliz) del finale dell’epi 02 della sesta stagione di Criminal Minds, in onda attualmente su FOXCRIME.
Essendo la serie ancora inedita dalla tv in chiaro italiana non specifico niente per evitare spoiler importanti. Chi l’ha già vista riconoscerà sicuramente la scena ed il contesto.
Vi metto qui di seguito la mia personale traduzione, che per inciso in certi punti è piuttosto differente dall’adattamento italiano, il quale come al solito se ne va abbastanza per i casi suoi rispetto al testo originale.

 Un’amica mi ha detto di essere sincero con te.
Quindi… ecco qua.
Sono grato per ogni giorno di questi anni che ho trascorso assieme a te.
 Per tutto quello che abbiamo condiviso. Tutte le occasioni che ho avuto di crescere.
Terrò con me tutti i ricordi migliori ovunque tu andrai.
Questo non è ciò che voglio, ma mi comporterò da persona corretta.
Forse perché non voglio consumarmi nella rabbia.
O forse perché ho finalmente capito.

Ci sono cose che non vogliamo che accadano, ma che dobbiamo accettare.
Cose che non vogliamo sapere, ma che dobbiamo imparare.

E persone senza le quali non possiamo vivere,

 

ma che dobbiamo lasciar andare.

 

3. I sentimenti letti come un fastidioso granello di sabbia che inceppa l’ingranaggio perfetto della logica non sono un parto della mia corteccia bensì una citazione (l’ennesima) da Sir Arthur.
Si tratta di un estratto del discorso di Watson sui ‘sentimenti’ di Holmes per Irene Adler -l’unica donna che sia mai riuscita a batterlo- che costituisce l’incipit del racconto Uno scandalo in Boemia.
In quel caso il dottore descrive chiaramente l’altissimo interesse che l’amico prova per la donna, ma esclude categoricamente che Sherlock sia innamorato di lei, paragonando il sentimento dell’amore appunto ad un granello di sabbia assolutamente deleterio al funzionamento di quella perfetta macchina da deduzione che è il suo coinquilino. Quindi…
Chi vuole intendere… in tenda! /\

Tra l’altro mi ero scurdata di dirlo nel primo capitolo, ma anche il discorso di Sherlock riferito per bocca di John sull’estrema dannosità dei sentimenti che interferiscono con il ragionamento logico (qui ribadito nel finale) è Made By Conan. Si tratta infatti di una citazione rimaneggiata e riassunta della vera risposta che dà Holmes a Watson -rifiutando di congratularsi con lui- quando quest’ultimo gli comunica la sua intenzione di prendere in moglie Mary Morstan e di trasferirsi a vivere con lei alla fine del racconto Il segno dei Quattro.

C’è infine un’altra citazione, più velata e più complicata da individuare, che però preferirei non rivelare, perché implica la trattazione di un tema imponente che ora come ora, in questa storia, non volevo affrontare ma solo sfiorare appena con la punta delle dita.
Quindi chi la vede la vede (perché si vede, se sai certe cose, e l’ho scritto in nota proprio per questo, per rassicurare chi la vede che ci ha visto giusto), ma mi raccomando… shhhhhhh!
Sarà il nostro segreto. **
Tanto vi assicuro che è ininfluente ai fini della storia. Anzi direi che è quasi dannoso capirla.
Ma io non resisto alle citazioni, accidenti a me! ><

4. Dovevo dirlo nelle note del secondo capitolo, come annunciato nelle note del primo, ma è scivolato nelle note del terzo causa prolungamento imprevisto di questa fic che doveva avere solo due cap e per ora è più che raddoppiata.
Per ora…
Il TERZO motivo per cui ho scelto la song Transatlanticism come titolo iniziale e come colonna sonora della storia sta proprio nel finale qui di sopra narrato.
È un motivo un po’ ‘registico’ -del tipo vorrei girare telefilm ma mi manca la telecamera- quindi provate a seguirmi con l’immaginazione.
Dovreste visualizzare la scena finale, in cui Holmes è fermo nella penombra della stanza, incapace di decidersi a spedire quel messaggio. E mentre lo guardate dovete sentire il pezzo finale di questa canzone, che inizia circa dal minuto 6:20 (eh sì è lunghetta).
Lo dovete immaginare lì, seduto al buio, in quella stanza distrutta, lo sguardo fisso sullo schermo, il dito sul pulsante, mentre la musica ripete ossessivamente in un crescendo di chitarra elettrica e batteria… So come ooonnn... Come ooooon….
Come oooooonn!

Lentissimo zoom all’indietro.
Dissolvenza in nero.
Titoli di coda.

 

 

Questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere…
Perché era il cuore della fic, il motivo per cui l’ho scritta, e quello per cui ha saltato la fila.
Accostare Holmes alle emozioni è sempre pericoloso e complesso.
Il rischio di scivolare lontano da lui è altissimo, ed è necessario pensare ad ogni frase.
Non so se sono riuscita nel mio intento, perché ‘tenere’ è difficile quando si descrive quello che alla fine è un momento di confusione e di panico, seppur vissuto da un essere controllato e razionale come Sherlock.
Spero che nonostante il caos, l’emozione, la rabbia, e i sentimenti, lui sia rimasto da qualche parte tra le mie righe.

  
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