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Autore: Maybe Charlie Knows    30/03/2011    7 recensioni
"Perché no? In fondo, è pur sempre qualcosa che ti riguarda… - non sapeva bene come etichettare ciò che aveva scoperto leggendo un giornale che gli altri avevano ignorato. Era qualcosa che aveva preso forma nella sua mente nel momento meno appropriato per le scoperte, e su cui poi aveva rimuginato per ventiquattro ore prima di trovarsi Adrien davanti. Quelle parole sbiadite sulla carta stracciata avevano dato un senso talmente grande da lasciarlo di stucco, incapace di decidere cosa fare. Aveva la possibilità di prenderla alla sprovvista e vincerla, per una volta, eppure… - Appunto. E’, come dici tu, un mio segreto. Qualcosa che mi riguarda. Il che vuol dire che lo so già, e che quindi non ho bisogno che sia tu a farmelo sapere. – sul volto pallido coperto di minuscole efelidi si aprì uno di quei sorrisi che Duff aveva temuto.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Axl Rose, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Naive

 

 

 

 

Naive

 

Epilogo – Up in the air

 

 

 

 

 

 

 

Ci proverò ad odiare, se non ci riuscirò,

  mio malgrado, dovrò amare. […]

  E non mi scrivere, non mi chiamare, non mi pensare,

  perché da oggi un’altra cosa cerco, e sono certo

  sarà diverso da quella cosa che ho perso.

 

(Articolo 31 – Un’altra cosa che ho perso)

 

- Non puoi stare dicendo sul serio - Izzy lo guardò ghignando, appoggiandosi con una spalla al muro polveroso, incurante dell’intonaco che andò a depositarsi sulla camicia. Il magazzino piombò nel silenzio più assoluto, inquilini compresi. Axl, dopo qualche secondo d’immobilità dovuta allo stupore, imitò il ghigno beffardo dell’amico di una vita, godendosi l’espressione sul volto di Duff. Slash, come se fosse stato l’attore di un film comico da quattro soldi, cercò di passare inosservato canticchiando fra sé e sé qualcosa che assomigliava vagamente a “Michelle” dei Beatles, mentre Steven, essendosi appena risvegliato in pieno dopo sbornia, aveva l’aria di non aver capito nulla. – Non puoi essere serio, cazzo! – la voce di Duff, il timbro della quale preludeva ad una sfuriata coi fiocchi, rispecchiava esattamente la vasta gamma di emozioni che stava attraversando il corpo del ragazzo in quel momento. La rabbia che le novità di Izzy avevano scatenato era sul punto di esplodere. – Non vedo perché dovrei venirti a raccontare una cosa del genere, se non fosse vera – ribatté tranquillo il moretto, trattenendosi dallo scoppiare a ridere.

 

- Bella zoccola – ovviamente, non sarebbe potuto mancare l’intelligente commento di un Axl Rose particolarmente in vena di punzecchiare qualche povera vittima. Duff volse la testa verso il rosso talmente velocemente da farsi quasi male: l’occhiata che lanciò al cantante avrebbe spaventato anche un pugile professionista. – Taci, che ti sei scopato anche sua sorella! – la grassa risata di Axl risuonò per le quattro mura del magazzino, e Duff ebbe la tentazione di scagliarsi addosso a quel pallone gonfiato dell’amico per sfogare la propria rabbia. Riuscì a trattenersi soltanto quando notò che, in quello che avrebbe dovuto essere un gesto di ostentata baldanza, Axl aveva sbattuto la testa contro la testata in legno del divano, rivestita da un cuscino che non aveva attutito il colpo. Scostò lo sguardo dal ragazzo, che con indifferenza cercava di soffocare le proprie smorfie di dolore. - Che stronzi… - la bestemmia che seguì quell’imprecazione contro i propri amici avrebbe scandalizzato un camionista. Duff girò sui tacchi, ben deciso a cercare un pacchetto di sigarette e ad ignorare la beffa stampata sul viso di Izzy. Fu allora che incrociò lo sguardo di Slash.

 

Colto sul fatto mentre, ostentando quel disinteresse che equivaleva ad una dichiarazione di colpevolezza, cercava di sgattaiolare verso il portellone aperto del magazzino, incontrando lo sguardo ancora annebbiato dalle precedenti rivelazioni del biondino, Slash si fermò di colpo. Sul viso per metà coperto dalla cascata di riccioli neri spuntò una sorta di sorriso, una smorfia tirata che rivelava uno strano disagio. Quando il chitarrista si accorse dell’aggrottarsi delle sopracciglia dell’amico, il cervello del quale stava arrivando velocemente all’unica conclusione possibile, prese ad annuire senza un motivo preciso, come se quel gesto potesse mitigare l’esplosione che stava per coglierli. – No… - il fatto che Duff non avesse alzato subito la voce avrebbe dovuto rappresentare un punto a suo favore, ma Slash riuscì a sentirsi solo più teso. Non era portato per le bugie, e nemmeno per tacere: se portava con sé una scomoda verità, qualsiasi persona gliel’avrebbe letto in faccia. – Quando? – non si accorse immediatamente della domanda del biondino. Il riccio era più impegnato ad ignorare le risatine sommesse di Axl e Izzy.

 

- Duff, amico… - fin dall’inizio del proprio discorso, Slash comprese di stare sbagliando. Alla sola menzione dell’appellativo che usavano fra di loro scherzosamente, la furia comparve sul volto solitamente pacifico del bassista. Slash si passò una mano fra i capelli, abbassando lo sguardo al suolo ma senza essere in grado di levarsi dalla faccia un tirato, fastidioso sorriso che sapeva di scusa. – Avevo appena scaricato Michelle… E lei me l’ha tirato fuori dai pantaloni! Eravamo in gita, ti ricordi? Stavo male, ti ricordi? E’ una cosa strana… - decise di tacere una buona volta quando gli occhi spalancati di Duff rischiarono seriamente di staccarsi dalle loro orbite. “In gita” era tutto chiaro: aveva sempre saputo che Adrien era venuta in qualche modo a conoscenza della scappatella con la Keenan. Prima di tutto, i rapporti tra la rossa e la professoressa non erano mai stati uguali a quelli fra uno studenti e un docente qualsiasi: tutte le voci che erano circolate dopo il licenziamento di Robin avevano contribuito ad alimentare le certezze di Duff. Qualunque relazione vi fosse stata tra Adrien e Robin Keenan negli anni precedenti, al Ballo d’Inverno era andata distrutta. E, come da copione, in Canada la ragazza aveva cercato vendetta. Ma aveva fatto di più: li aveva fregati entrambi, l’insegnante e Duff. Si era portata a letto il suo migliore amico.

 

Come d’altronde aveva fatto anche lui. Ma questo Duff non poteva saperlo con certezza. – Sì, sì, bravi. Sul serio, bravi! – il biondino li guardò uno ad uno truce, persino il povero Steven che, con i capelli conciati peggio di un cespuglio di rovi, non aveva ancora compreso l’argomento della conversazione. Axl sembrava sul punto di soffocarsi a causa delle risatine isteriche che lo scuotevano: per un attimo, Duff sperò che accadesse. Quando si accorse che anche Izzy stentava a trattenere il riso, il ragazzo rivolse loro un sarcastico battimani. Slash saltellava sul posto come se fosse stato colto da un impellente bisogno di orinare, senza il coraggio però di muovere un passo fuori dal magazzino. Era più nervoso che mai. – Fottetevi tutti! – al bassista bastarono pochi passi per raggiungere l’angolino dove erano appoggiate al muro due malandate chitarre acustiche. Doveva assolutamente trovare un modo per incanalare la propria rabbia fuori dal corpo, o avrebbe fatto una strage. – E a Steven non dici niente? Anche lui se l’è trombata! – le parole di Slash lo raggiunsero poco prima che afferrasse uno dei due strumenti. Duff si concesse un sospiro profondo, prima di battere violentemente il palmo della mano sulla propria fronte.

 

Sembravano passati anni da quella scena, sostante sul sottilissimo confine che divide la tragedia dalla commedia. Anni, eppure era passato poco meno di un mese. – McKagan, indossa quel tocco e mettiti in fila, immediatamente! – un’inviperita e ipertesa professoressa Pitterman quasi lo travolse, mentre controllando per l’ennesima volta che tutti gli studenti dell’ultimo anno fossero presenti ripercorreva la lunghezza del retro del palco. Sembrava che quell’anno il corpo insegnanti della Renton si fosse impegnato il doppio per allestire la cerimonia di consegna dei diplomi. Forse, pensò con amarezza e al contempo divertimento Duff, perché finalmente se ne sarebbero andati via loro. Fissò con astio il tocco che aveva fra le mani, dall’aspetto vecchio e polveroso nonostante fosse nuovo di zecca, e pensò preoccupato al cespuglio che sicuramente in quel momento aveva al posto dei capelli. L’unica consolazione era che, per quanto ridicolo sarebbe apparso con quel coso, il suo destino sarebbe sempre stato migliore di quello del povero Slash. Dopo aver giustamente respirato a fondo alla ricerca di un po’ di coraggio, era sul punto d’indossare il tocco quando qualcuno gli assestò una violenta manata sulla schiena.

 

- Ci stiamo diplomando! – a giudicare dal tono incredulo della voce di Steven, nemmeno lui avrebbe creduto prima di quel giorno che potesse accadere realmente. Anche se, nella graduatoria scolastica, le loro sufficienze li avevano resi in grado di lasciare la scuola, tutti sapevano che quei voti erano stati il frutto dell’esasperazione dei professori che li avevano detestati in quegli anni. – E guarda Slash! – la risata sguaiata di Steven esplose all’improvviso, attirando le occhiatacce di alcune studentesse con cui non avevano mai parlato. Il dito del batterista era puntato su una figura molto curiosa, che a prima vista sarebbe potuto sembrare un manichino con una strana parrucca in testa. In realtà, era semplicemente Slash, che non ne aveva voluto sapere di pettinare all’indietro i ribelli ricci e che in quel momento, molto probabilmente, non era in grado di vedere un tubo. Duff si lasciò contagiare dall’ilarità di Steven per quella buffa scena, trovandosi a massaggiarsi le costole doloranti per il troppo ridere. – Stronzi – il grugnito del chitarrista che, avvicinatosi, sembrava avere l’intenzione di fare a botte, riuscì soltanto a divertirli di più.

 

- Adler! – il richiamo militaresco della Pitterman li fece scattare tutti sull’attenti: Steven fu persino tentato dall’eseguire il tipico saluto dei marines, ma si rese conto che, finché non avesse stretto fra le mani quell’accidente di diploma, sarebbe stato meglio non stuzzicare troppo la professoressa. – Smettila di gozzovigliare con McKagan e Hudson! – nonostante nessuno dei tre sapesse il significato del verbo “gozzovigliare”, compresero tutti dall’espressione psicopatica della Pitterman che era meglio eseguire gli ordini. Purtroppo, Steven non fu in grado di trattenersi oltre – Signorsì, signora! – gridò, facendo sussultare dallo spavento le stesse studentesse che prima li avevano squadrati di malocchio. Slash, che stava cercando di soffocare una risata, sembrava sul punto di soffocare sé stesso. – Hudson, corri al tuo posto prima che decida di bocciarvi tutti in chimica, anche quest’anno! – Duff si chiese come fosse possibile che l’insegnante, pur rimanendo una docile vecchietta per i nove mesi scolastici, il giorno della consegna dei diplomi si trasformasse in una tale belva. Prima che la Pitterman potesse aggiungere altro però, i due ragazzi scattarono verso il gruppetto di studenti.

 

Riconoscere i capelli di Maxie, freschi di una nuova passata di tinta biondo platino, in mezzo a quel mare di teste non fu un’impresa difficile: oltre che dalla riconoscibile chioma bionda della ragazza, Duff fu aiutato dal volume della voce con cui quella si stava lamentando di tutto. - … e poi, cazzo, fa caldo! Perché dobbiamo indossare questa roba? Tu, poi! – l’infinita pazienza della martire che, come sempre, aveva accettato di stare ad ascoltare le infinite tiritere contro ogni cosa di Maxie avrebbe dovuto essere dichiarata patrimonio dell’umanità. Del resto, pensò avvicinandosi con un sorrisetto ilare Duff, la vittima era la stessa che aveva accettato, tempo addietro, di fare da insegnante a lui e a Slash. – Ciao! – Linda e la biondina si voltarono verso di lui, salutandolo con un cenno del capo. – Ciao fighetta da quattro soldi. – il ragazzo non si curò della solita cordialità di Maxie, che normalmente lasciava presumere il buon umore di quest’ultima. La moretta gli rivolse uno sguardo sconsolato, prima di tornare a guardare l’amica che, stufa di lamentarsi delle pesanti toghe che indossavano, prese ad inveire contro le rate dell’università.

 

- Ehi… – quando Maxie decise che le loro risposte monosillabiche non erano in grado di soddisfare la loro voglia di conversazione, i due ragazzi tirarono un sospiro di sollievo. Duff si passò una mano sulla fronte, maledicendo il caldo californiano e la tradizionale cerimonia all’aperto che li stava privando dell’aria condizionata. Da dietro il palco, che era stato allestito per l’occasione, un brusio crescente di voci fece loro capire che la consegna dei diplomi stava per avere inizio. – Prima del nostro anno, allora! Complimenti! – proseguì Duff, indicando il drappo giallo che contraddistingueva la toga di Linda da tutte le altre. La ragazza arrossì, abbassando lo sguardo, ma in compenso gli regalò un sorriso gioioso che lasciava trasparire tutta la soddisfazione che stava provando. – Grazie – rispose, prima di lasciare spazio ad un imbarazzante silenzio che occupò qualche minuto. Erano stati giorni difficili, che erano durati ere geologiche e che li aveva visti lontani, l’uno dall’altra e da tutto ciò che poteva legarli al passato. Lo sforzo che Duff compì per indirizzare la conversazione verso i risultati scolastici di entrambi lo lasciò basito, sottolineando i limiti che si erano posti in quell’ultimo mese.

 

- Lei… lei non c’è? – se c’era qualcosa che Linda Johnson aveva imparato da lei, era la capacità di dissimulare i propri sentimenti; ed era destinata ad essere un’abilità che Duff non avrebbe mai padroneggiato. Mentre il tono della ragazza fu di circostanza, per niente coerente al tumulto interiore che le aveva provocato fare quella domanda, il biondino esternò tutto il proprio disagio nell’espressione del viso. Deglutendo, si passò un mano fra i capelli che non aveva ancora provveduto a coprire col tocco, cercando di apparire calmo ed indifferente. – Non lo so. Non è affar mio. – per un mese, da quel giorno in cui la verità aveva preso a sberle tutti quanti, Duff non era stato capace d’impedirsi di fissare durante le lezioni il banco vuoto di Adrien Miller. Nessuno aveva fatto domande sull’episodio che aveva visto il presunto triangolo amoroso come protagonista, anche se le voci di corridoio erano state tante, ed indiscrete. Se anche Duff avesse avuto il coraggio di ammettere l’esistenza del triangolo e, contemporaneamente, di dichiarare che il terzo elemento non era stata la povera Linda, ormai la bomba era esplosa. L’assenza chiacchierata di Adrien li aveva privati di ogni privacy, li aveva riempiti di dubbi e l’unico silenzio che era stata in grado di costruire era quello che aveva allontanato la moretta e Duff.

 

- Immagino di no – ma nemmeno l’ormai impenetrabile Linda riuscì ad esimersi dall’infilare una vena di sarcasmo in quelle poche sillabe. Duff non si trattenne dal guardarla con gli occhi fuori dalle orbite, mentre la ragazza tenne lo sguardo fisso davanti a sé, preservando in apparenza quel velo di timidezza che era stato il suo cruccio per anni, e che in quel momento le conferì una dolcezza affascinante. Prima che il biondino potesse dire qualcosa d’incredibilmente stupido, un sudatissimo professore di spagnolo corse loro incontro, il sorriso rivolto a Linda. – Johnson, prima che tutti gli studenti ricevano il proprio diploma, avrà luogo il tuo discorso. – approfittando del fatto che l’uomo sembrava non essersi neanche accorto della sua presenza, Duff distolse lo sguardo dalla ragazza e dal resto del mondo, gli occhi verdi rivolti verso il cielo terso di giugno. “Non finirà mai” pensò, stranamente senza alcuna punta di amarezza. Non sarebbe mai finito il tormento del marchio che Adrien aveva inciso col fuoco sulla sua pelle, attraverso mesi di bugie ed inganni che l’avevano quasi ucciso, ma che contemporaneamente l’avevano temprato in vista del futuro. Quando aveva chiuso lo porta di quell’armadietto immondo, il ragazzo era stato convinto che quel capitolo della sua vita si fosse chiuso: semplicemente, si era sbagliato. I ricordi avrebbero bruciato per sempre: non rimaneva altro che imparare dagli errori. Improvvisamente, spostando lo sguardo verso i portici lontani dell’edificio scolastico, qualcosa d’inaspettato s’intrufolo nel suo campo visivo.

 

- Ehi, Linda! – “No, ti prego. E’ già abbastanza difficile così.” la ragazza si voltò con un sorriso leggero al richiamo di Duff, invece di raggiungere l’inizio della fila ordinata di studenti che andava formandosi. Il discorso di fine anno spettava a lei, in quanto alunna coi risultati migliori alle graduatorie, e se prima di quel momento aveva tremato come una foglia al pensiero di dover parlare davanti a tutti, ora smaniava di concedersi al pubblico. Eppure, nonostante la fretta, non fu in grado d’impedirsi di attenere che il biondino si posizionasse davanti a lei. Pian piano, la sensazione di vuoto allo stomaco che aveva provato ogni volte che Duff sfoderava quel sorrisetto nervoso che preludeva ad una cattiva notizia, quella era riuscita a soffocarla; eppure, i piccoli gesti con cui il biondino tirava fuori il lato più bello di sé stesso riuscivano ancora ad alterarle l’umore. Lezione di Adrien Miller numero uno: non lasciare mai e poi mai che gli altri notino che la parte più fragile di te dipende dalle loro azioni. E’ una debolezza inutile che si concede chi è abituato a perdere. – Sì? – domandò Linda, quando si accorse che Duff stava avendo delle difficoltà a parlare. L’imbarazzo era visibile sul volto del ragazzo per via delle chiazze rossastre che gli coloravano le guance. – Mi chiedevo… ci vai con qualcuno al ballo di stasera? – domandò infine con strafottenza. “Oh, è adorabile”.

 

- Veramente, sì… - abbassando i grandi occhi marroni sull’erba secca e poco curata del giardino della Renton, Linda confesso impedendosi di scoprire la sorpresa fin troppo indiscreta sul volto di Duff. Non aveva voglia di sentire ancora una volta sottolineare quanto fosse stupefacente l’idea che lei uscisse con qualcuno. – Ci vado con Ethan… il quarterback della squadra di football, sai. – quando per la prima Ethan Cooper le aveva rivolto la parola, non aveva la più pallida idea di trovarsi di fronte al gentile ragazzo che l’aveva soccorsa quando Adrien aveva dimostrato a tutto quanto folle fosse. Anche dopo, quando aveva incominciato ad aspettarla per accompagnarla a casa dopo le lezioni, aveva continuato a non sapersi spiegare ciò che stava accadendo. Non è Duff, aveva ripetuto per giorni la vocina malevola nella sua testa finché non si era decisa a rivolgere un sorriso radioso ad Ethan, accettando il suo invito al ballo di fine anno. Nessuno sarebbe mai stato come Duff, né nella vita reale né nel cuore di Linda, ma la ragazza non trovava neanche più lo stesso gusto della sofferenza in una battaglia che considerava persa. – Oh. Già… anch’io ci vado, con un’amica delle nuove ragazze di Izzy e Steve… Beh, immagino che ci vedremo là. – la prima bava di vento della giornata scompigliò loro i capelli, rendendo invisibili le persone che attorno a loro parlavano. Gli sguardi che si rivolsero furono pieni di calore, mentre nei loro stomaci si diffondeva la sensazione di vuoto di una delusione che avrebbe compreso solo dopo anni.

 

La donna fu tentata di togliersi il foulard che aveva avvolto attorno al proprio capo quella mattina, lasciando la villa per mettere per la prima volta piede nei luoghi di sua figlia. Le dita scattarono per pochi istanti verso il nodo di sete sotto al collo, dove un leggero strato di sudore ricordava alla sua pelle perfetta quando il caldo potesse essere fastidioso; poi, come scottata, le riabbassò, con un sospiro. Era meglio non farsi vedere, anche se nessuno l’avrebbe riconosciuta per ciò che era veramente: se anche si fosse scoperta, sarebbe rimasta agli occhi di tutti Lisette Schneider-Niven. In quel momento, non si sentiva né l’ex modella né la moglie perfetta che rappresentava. “Una pessima madre” pensò con amarezza “Ecco cosa sei”. Tristemente, quel pensiero non le suscitò l’immenso dispiacere che sarebbe stato normale provare. In lontananza, oltre un cumulo disordinato di sedie di plastica, gli studenti lanciarono in aria i propri tocchi nel classico gesto d’esultanza alla fine della carriera scolastica. Solo uno rimase in disparte, senza muovere un dito, ma questo Lisette non lo notò.

 

Camminare per quei posti, che avevano conosciuta Adrien molto più di Lisette, era come essere al centro di un’esperienza extracorporea, trascendentale. La donna si guardava attorno, cercando con gli occhi gli angoli in cui quella figlia sconosciuta aveva cercato ombra, rifugio, il conforto che lei non era stata in grado di donarle dopo la scomparsa di Reese. Si figurava la ragazza sorridere a qualche incauto compagno che aveva commesso l’errore di avvicinarsi troppo alla sua rete di perfette menzogne, e la confrontava con la figurina che si era rinchiusa in casa per un mese a quella parte; la paragonava al fantasma che quella mattina aveva scelto di abbandonare tutti, sulle orme del fratello. “Me ne torno a New York City” aveva semplicemente detto, stando seduta sul bordo del proprio letto e continuando a darle le spalle, come se invece di stare parlando con sua madre stesse semplicemente esprimendo un pensiero ad alta voce. Un nodo spesso e doloroso si era formato nella gola di Lisette, che come sempre non aveva saputo negare, che come sempre non aveva saputo dirle alcunché. Non l’aveva accompagnata all’aeroporto, dopo averla osservata in silenzio preparare una valigia: la donna nutriva la speranza che, non permettendo alla partenza di Adrien di fossilizzarsi in un ricordo, avrebbe potuto fingere che fosse ancora con lei. Come avevano fatto per anni. Come lei aveva fatto con Reese.

 

Il momento migliore di un viaggio in aereo è il suo inizio. I secondi esatti in cui il bestione di acciaio si stacca dal suolo, magari bruscamente per una manovra scorretta del pilota, la visione che si ha dal minuscolo finestrino della terra che si allontana, anche la sensazione sgradevole delle orecchie tappate: tutte cose che Adrien Miller stava letteralmente adorando, seduta su una comoda poltrona della prima classe, eppure così rigida e fredda. Gli occhi erano fissi oltre il vetro del finestrino, verso l’infinito cielo che costituiva l’unico elemento non mutevole del paesaggio urbano: in realtà, Adrien non stava osservando niente di particolare fuori dalla bolla metallica dell’aereo. L’unica cosa che riusciva a vedere era il suo mondo cadere a terra, briciola dopo briciola. “Amore” la voce di Duff, il nomignolo con cui si era rivolto a lei tante volte, non riusciva a non suonare stucchevole e falsa fra i suoi pensieri. Pensandoci in continuazione, la ragazza le aveva tolto la limpida sincerità che l’aveva fatta squillare, pronunciata dalle labbra dolci del biondino.

 

Aveva scelto New York, come città verso cui scappare: non Londra, dove forse una Meredith distratta e confusa fra i ricordi l’avrebbe attesa; non Santa Monica, dove avrebbe potuto conservare l’aria di Los Angeles lontano da ciò che l’aveva contaminata. New York. Dove è cominciato tutto, avrebbe definito lei la motivazione del luogo della sua fuga, se qualcuno gliel’avesse chiesto; dove sei esplosa, dentro e fuori, sarebbero state le parole più vere, che la ragazza non avrebbe mai pronunciato. – Desidera qualcosa, signorina? – una hostess dal viso gentile, rotondo e gonfio di una felicità tranquilla fra quattro mura imbiancate di fresco e bambini piccoli che strillano, si sporse verso di lei, servizievole. Adrien avrebbe desiderato tanto permettere a sé stessa di risponderle sgarbatamente, magari ferendole l’anima in profondità: il controllo sul proprio istinto che aveva perso nell’ultimo periodo era stato tanto, davvero troppo. – No, grazie – rispose affabile, voltando la testa per trapassarla con uno sguardo che rimase freddo nonostante l’educazione e la classe della sua voce vellutata. La donna si allontanò, leggermente confusa, ed Adrien si lasciò scappare un sospiro: quegli erano gli attimi in cui la storia finiva.

 

E si sentiva sospesa nell’aria, letteralmente: in un punto oscuro della sua mente, la cintura di sicurezza e le pareti dell’aereo scomparivano ad intervalli regolari, lasciandola precipitare in un vuoto che, lei lo sapeva, non sarebbe mai terminato in una schianto. Duff era lontano. Robin era lontana. I rumori delle ali d’acciaio che sferzavano le nuvole erano appena accennati, dietro la lastra che la separava dal resto del mondo. I suoi respiri profondi rimasero la sua unica compagnia, avendo chiuso gli occhi, finché un’insistente prurito mentale non la costrinse a cercare la persona che in quel momento la stava fissando. “Oh” un uomo, o poco più. Nulla di che: completo grigio ed anonimo, capelli radi sulla nuca ed ingrigiti sulle tempie, fronte imperlata da un sudore di vecchiaia che avanza. E la stava fissando con lascivia. O, meglio, se avesse saputo oltrepassare la sottile linea che determina la consapevolezza di sé stessi, avrebbe capito che stava fissando le sue gambe lunghe, scoperte da una minigonna. A stento trattenne un sorrisetto compiaciuto: dentro di lei, una bimba scoppiò in lacrime. Ma poteva ignorarla ancora un po’.

 

 

 

 

 

 

 

Grand Forks, North Dakota

May 21st 1987

 

 

 

Adrien.

Ti scrivo queste poche righe, anche se credo non le leggerai;

appena vedrai il nome del mittente, le getterai in un cestino e prenderai in giro il mio lato melodrammatico

come hai sempre fatto.

Ma vale la pena tentare.

Ho fatto fatica a reperire il tuo indirizzo: tua madre non sapeva nemmeno della mia esistenza, ma

mi ha aiutato comunque. Deve tenere a te, dopotutto.

Mi sono svegliata, una mattina, e ho scoperto di non farcela più:

dovevo parlare con te, dirti ciò che non ti ho detto.

E, forse, il fatto che tu non leggerai nulla di ci che ti sto scrivendo non cambierà le cose:

non hai mai ascoltato;

forse sono solo io che ho bisogno di parlare.

Amo un uomo: è dolce, gentile, premuroso, divertente

come una volta credevo fossi tu. Josh,

con lui ogni tanto mi sento. Vive a Huston, insegna filosofia.

Ma questo di certo non t’interessa:

aspetto una figlia, e una volta forse le avrei dato il tuo stesso nome;

adesso, non riuscirei a crescerla sapendo che potremmo allontanarci come è successo a noi.

A volte, sento la tua mancanza, ma sono lampi che scompaiono

presto. Non era la fine che mi sarei aspettata, quando ti ho conosciuta.

Forse, è davvero meglio così,

meglio che tu mi abbia ferita,

meglio che tu abbia triturato la mia vita,

meglio che me ne sia accorta, seppur tardi.

Vedo spesso Michael alla televisione, cambiato, cresciuto, forse persino invecchiato,

come tutti noi. Osservare

i cambiamenti del suo viso non mi provoca più colpi al cuore da tempo, ormai.

Ti ha amata, e l’hai fatto anche tu. Almeno in parte;

di questo sono sicura.

Vorrei che questo angolo che mi sono ritagliata per pensarti potesse concludersi in un modo diverso,

ma, per noi, non ci sono mai state parole facili.

 

Robin

 

 

 

 


I'm not saying its your fault,
  although you could have done more:
  oh, you're so naive yet so.

 

[…]

 

You’re such an ugly thing

for someone so beautiful.

 

[…]

 

Just don’t let me down.

 

(The Kooks – Naïve)

 



 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

 

Anche quest’avventura è finite: mi sembra proprio strano, non è la stessa sensazione d’esultanza che ho provato alla fine di Love will tear us apart; ma il senso di soddisfazione, quello è anche maggiore. Sarà perché, come dicevo anche nei precedenti capitoli, questa storia mi ha fatta crescere.

Veniamo ai dettagli tecnici: il ricordo di Duff che c’è all’inizio e la parte iniziale della consegna dei diplomi dovrebbero servire a sdrammatizzare un po’, ma ormai sono abituata a scrivere di fatti tristi, violenti e tragici, perciò la mia vena umoristica potrebbe far pena. Pazienza. Credo che l’ultima parte dell’epilogo sia venuta bene. Negli ultimi paragrafi su Adrien si può notare un riferimento al finale de “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. Non per quanto riguarda alla trama, quanto alla struttura lessicale.

Stranamente, non ci sono altre particolari citazioni in questo brano: tutto è fuoriuscito dalla mia mente.

Il fatto che poi Slash canti “Michelle” non è un caso, per le signore che adorano il nostro chitarrista insieme all’omonima cantata dai Beatles. Non si sono proprio lasciati, s’intuisce dal finale dei paragrafi finali dell’ultimo capitolo: certo, non potrà mai esserci qualcosa di serio. Diciamo, sono una coppia molto aperta.

Grazie a tutte voi, che mi avete sostenuta fino alla fine: scrivere questa storia sarebbe stato impossibile senza i vostri commenti, le vostre dritte, l’aspettativa di leggere i vostri complimenti e le vostre critiche dopo aver postato. Vi adoro, sul serio. Spero che ognuna di voi continuerà a seguirmi quando, a fine aprile, comincerò la mia nuova storia. Per farmi pubblicità, vi lascio il titolo: “SCOOP – L’errore più grande”.

E’ in arrivo anche una Missing Moments di cinque appuntamenti su Love will tear us apart. Di quest’ultima però, non so dirvi la data precisa.

Grazie ai Kooks, che con la loro canzone mi hanno ispirata e supportata.

GRAZIE ANCORA A TUTTE VOI!

 

Goodbye

 

 

Charlie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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