Naive
Epilogo – Up in the
air
“
Ci proverò ad odiare, se non ci riuscirò,
mio malgrado, dovrò amare. […]
E non mi scrivere, non mi chiamare, non mi
pensare,
perché da oggi un’altra cosa cerco, e sono
certo
sarà diverso da quella cosa che ho perso. ”
(Articolo 31 – Un’altra cosa che ho perso)
- Non puoi stare dicendo sul
serio - Izzy lo guardò ghignando, appoggiandosi con una spalla al muro
polveroso, incurante dell’intonaco che andò a depositarsi sulla camicia. Il
magazzino piombò nel silenzio più assoluto, inquilini compresi. Axl, dopo
qualche secondo d’immobilità dovuta allo stupore, imitò il ghigno beffardo
dell’amico di una vita, godendosi l’espressione sul volto di Duff. Slash, come
se fosse stato l’attore di un film comico da quattro soldi, cercò di passare
inosservato canticchiando fra sé e sé qualcosa che assomigliava vagamente a
“Michelle” dei Beatles, mentre Steven, essendosi appena risvegliato in pieno
dopo sbornia, aveva l’aria di non aver capito nulla. – Non puoi essere serio,
cazzo! – la voce di Duff, il timbro della quale preludeva ad una sfuriata coi
fiocchi, rispecchiava esattamente la vasta gamma di emozioni che stava
attraversando il corpo del ragazzo in quel momento. La rabbia che le novità di
Izzy avevano scatenato era sul punto di esplodere. – Non vedo perché dovrei
venirti a raccontare una cosa del genere, se non fosse vera – ribatté
tranquillo il moretto, trattenendosi dallo scoppiare a ridere.
- Bella zoccola – ovviamente,
non sarebbe potuto mancare l’intelligente commento di un Axl Rose
particolarmente in vena di punzecchiare qualche povera vittima. Duff volse la
testa verso il rosso talmente velocemente da farsi quasi male: l’occhiata che
lanciò al cantante avrebbe spaventato anche un pugile professionista. – Taci,
che ti sei scopato anche sua sorella! – la grassa risata di Axl risuonò per le
quattro mura del magazzino, e Duff ebbe la tentazione di scagliarsi addosso a
quel pallone gonfiato dell’amico per sfogare la propria rabbia. Riuscì a
trattenersi soltanto quando notò che, in quello che avrebbe dovuto essere un
gesto di ostentata baldanza, Axl aveva sbattuto la testa contro la testata in
legno del divano, rivestita da un cuscino che non aveva attutito il colpo.
Scostò lo sguardo dal ragazzo, che con indifferenza cercava di soffocare le
proprie smorfie di dolore. - Che stronzi… - la bestemmia che seguì
quell’imprecazione contro i propri amici avrebbe scandalizzato un camionista.
Duff girò sui tacchi, ben deciso a cercare un pacchetto di sigarette e ad
ignorare la beffa stampata sul viso di Izzy. Fu allora che incrociò lo sguardo
di Slash.
Colto sul fatto mentre,
ostentando quel disinteresse che equivaleva ad una dichiarazione di
colpevolezza, cercava di sgattaiolare verso il portellone aperto del magazzino,
incontrando lo sguardo ancora annebbiato dalle precedenti rivelazioni del
biondino, Slash si fermò di colpo. Sul viso per metà coperto dalla cascata di
riccioli neri spuntò una sorta di sorriso, una smorfia tirata che rivelava uno
strano disagio. Quando il chitarrista si accorse dell’aggrottarsi delle
sopracciglia dell’amico, il cervello del quale stava arrivando velocemente
all’unica conclusione possibile, prese ad annuire senza un motivo preciso, come
se quel gesto potesse mitigare l’esplosione che stava per coglierli. – No… - il
fatto che Duff non avesse alzato subito la voce avrebbe dovuto rappresentare un
punto a suo favore, ma Slash riuscì a sentirsi solo più teso. Non era portato
per le bugie, e nemmeno per tacere: se portava con sé una scomoda verità, qualsiasi
persona gliel’avrebbe letto in faccia. – Quando? – non si accorse
immediatamente della domanda del biondino. Il riccio era più impegnato ad
ignorare le risatine sommesse di Axl e Izzy.
- Duff, amico… - fin
dall’inizio del proprio discorso, Slash comprese di stare sbagliando. Alla sola
menzione dell’appellativo che usavano fra di loro scherzosamente, la furia
comparve sul volto solitamente pacifico del bassista. Slash si passò una mano
fra i capelli, abbassando lo sguardo al suolo ma senza essere in grado di
levarsi dalla faccia un tirato, fastidioso sorriso che sapeva di scusa. – Avevo
appena scaricato Michelle… E lei me l’ha tirato fuori dai pantaloni! Eravamo in
gita, ti ricordi? Stavo male, ti ricordi? E’ una cosa strana… - decise di
tacere una buona volta quando gli occhi spalancati di Duff rischiarono
seriamente di staccarsi dalle loro orbite. “In gita” era tutto chiaro: aveva sempre saputo che Adrien era
venuta in qualche modo a conoscenza della scappatella con la Keenan. Prima di
tutto, i rapporti tra la rossa e la professoressa non erano mai stati uguali a
quelli fra uno studenti e un docente qualsiasi: tutte le voci che erano
circolate dopo il licenziamento di Robin avevano contribuito ad alimentare le
certezze di Duff. Qualunque relazione vi fosse stata tra Adrien e Robin Keenan
negli anni precedenti, al Ballo d’Inverno era andata distrutta. E, come da
copione, in Canada la ragazza aveva cercato vendetta. Ma aveva fatto di più: li
aveva fregati entrambi, l’insegnante e Duff. Si era portata a letto il suo
migliore amico.
Come d’altronde aveva fatto
anche lui. Ma questo Duff non poteva saperlo con certezza. – Sì, sì, bravi. Sul
serio, bravi! – il biondino li guardò uno ad uno truce, persino il povero
Steven che, con i capelli conciati peggio di un cespuglio di rovi, non aveva
ancora compreso l’argomento della conversazione. Axl sembrava sul punto di
soffocarsi a causa delle risatine isteriche che lo scuotevano: per un attimo,
Duff sperò che accadesse. Quando si accorse che anche Izzy stentava a trattenere
il riso, il ragazzo rivolse loro un sarcastico battimani. Slash saltellava sul
posto come se fosse stato colto da un impellente bisogno di orinare, senza il
coraggio però di muovere un passo fuori dal magazzino. Era più nervoso che mai.
– Fottetevi tutti! – al bassista bastarono pochi passi per raggiungere
l’angolino dove erano appoggiate al muro due malandate chitarre acustiche.
Doveva assolutamente trovare un modo per incanalare la propria rabbia fuori dal
corpo, o avrebbe fatto una strage. – E a Steven non dici niente? Anche lui se
l’è trombata! – le parole di Slash lo raggiunsero poco prima che afferrasse uno
dei due strumenti. Duff si concesse un sospiro profondo, prima di battere
violentemente il palmo della mano sulla propria fronte.
Sembravano
passati anni da quella scena, sostante sul sottilissimo confine che divide la
tragedia dalla commedia. Anni, eppure era passato poco meno di un mese. –
McKagan, indossa quel tocco e mettiti in fila, immediatamente! – un’inviperita e ipertesa professoressa Pitterman
quasi lo travolse, mentre controllando per l’ennesima volta che tutti gli
studenti dell’ultimo anno fossero presenti ripercorreva la lunghezza del retro
del palco. Sembrava che quell’anno il corpo insegnanti della Renton si fosse
impegnato il doppio per allestire la cerimonia di consegna dei diplomi. Forse,
pensò con amarezza e al contempo divertimento Duff, perché finalmente se ne
sarebbero andati via loro. Fissò con
astio il tocco che aveva fra le mani, dall’aspetto vecchio e polveroso nonostante
fosse nuovo di zecca, e pensò preoccupato al cespuglio che sicuramente in quel
momento aveva al posto dei capelli. L’unica consolazione era che, per quanto
ridicolo sarebbe apparso con quel coso,
il suo destino sarebbe sempre stato migliore di quello del povero Slash. Dopo
aver giustamente respirato a fondo alla ricerca di un po’ di coraggio, era sul
punto d’indossare il tocco quando qualcuno gli assestò una violenta manata
sulla schiena.
-
Ci stiamo diplomando! – a giudicare dal tono incredulo della voce di Steven,
nemmeno lui avrebbe creduto prima di quel giorno che potesse accadere
realmente. Anche se, nella graduatoria scolastica, le loro sufficienze li
avevano resi in grado di lasciare la scuola, tutti sapevano che quei voti erano
stati il frutto dell’esasperazione dei professori che li avevano detestati in
quegli anni. – E guarda Slash! – la risata sguaiata di Steven esplose
all’improvviso, attirando le occhiatacce di alcune studentesse con cui non
avevano mai parlato. Il dito del batterista era puntato su una figura molto
curiosa, che a prima vista sarebbe potuto sembrare un manichino con una strana
parrucca in testa. In realtà, era semplicemente Slash, che non ne aveva voluto
sapere di pettinare all’indietro i ribelli ricci e che in quel momento, molto
probabilmente, non era in grado di vedere un tubo. Duff si lasciò contagiare dall’ilarità
di Steven per quella buffa scena, trovandosi a massaggiarsi le costole
doloranti per il troppo ridere. – Stronzi – il grugnito del chitarrista che,
avvicinatosi, sembrava avere l’intenzione di fare a botte, riuscì soltanto a
divertirli di più.
-
Adler! – il richiamo militaresco della Pitterman li fece scattare tutti
sull’attenti: Steven fu persino tentato dall’eseguire il tipico saluto dei
marines, ma si rese conto che, finché non avesse stretto fra le mani
quell’accidente di diploma, sarebbe stato meglio non stuzzicare troppo la
professoressa. – Smettila di gozzovigliare con McKagan e Hudson! – nonostante
nessuno dei tre sapesse il significato del verbo “gozzovigliare”, compresero
tutti dall’espressione psicopatica della Pitterman che era meglio eseguire gli
ordini. Purtroppo, Steven non fu in grado di trattenersi oltre – Signorsì,
signora! – gridò, facendo sussultare dallo spavento le stesse studentesse che prima
li avevano squadrati di malocchio. Slash, che stava cercando di soffocare una
risata, sembrava sul punto di soffocare sé stesso. – Hudson, corri al tuo posto
prima che decida di bocciarvi tutti in chimica, anche quest’anno! – Duff si chiese come fosse possibile che
l’insegnante, pur rimanendo una docile vecchietta per i nove mesi scolastici,
il giorno della consegna dei diplomi si trasformasse in una tale belva. Prima
che la Pitterman potesse aggiungere altro però, i due ragazzi scattarono verso
il gruppetto di studenti.
Riconoscere
i capelli di Maxie, freschi di una nuova passata di tinta biondo platino, in
mezzo a quel mare di teste non fu un’impresa difficile: oltre che dalla
riconoscibile chioma bionda della ragazza, Duff fu aiutato dal volume della
voce con cui quella si stava lamentando di tutto. - … e poi, cazzo, fa caldo!
Perché dobbiamo indossare questa roba? Tu, poi! – l’infinita pazienza della
martire che, come sempre, aveva accettato di stare ad ascoltare le infinite
tiritere contro ogni cosa di Maxie avrebbe dovuto essere dichiarata patrimonio
dell’umanità. Del resto, pensò avvicinandosi con un sorrisetto ilare Duff, la
vittima era la stessa che aveva accettato, tempo addietro, di fare da
insegnante a lui e a Slash. – Ciao! – Linda e la biondina si voltarono verso di
lui, salutandolo con un cenno del capo. – Ciao fighetta da quattro soldi. – il
ragazzo non si curò della solita cordialità di Maxie, che normalmente lasciava
presumere il buon umore di quest’ultima. La moretta gli rivolse uno sguardo
sconsolato, prima di tornare a guardare l’amica che, stufa di lamentarsi delle
pesanti toghe che indossavano, prese ad inveire contro le rate dell’università.
-
Ehi… – quando Maxie decise che le loro risposte monosillabiche non erano in
grado di soddisfare la loro voglia di conversazione, i due ragazzi tirarono un
sospiro di sollievo. Duff si passò una mano sulla fronte, maledicendo il caldo
californiano e la tradizionale cerimonia all’aperto che li stava privando
dell’aria condizionata. Da dietro il palco, che era stato allestito per
l’occasione, un brusio crescente di voci fece loro capire che la consegna dei
diplomi stava per avere inizio. – Prima del nostro anno, allora! Complimenti! –
proseguì Duff, indicando il drappo giallo che contraddistingueva la toga di
Linda da tutte le altre. La ragazza arrossì, abbassando lo sguardo, ma in
compenso gli regalò un sorriso gioioso che lasciava trasparire tutta la
soddisfazione che stava provando. – Grazie – rispose, prima di lasciare spazio
ad un imbarazzante silenzio che occupò qualche minuto. Erano stati giorni
difficili, che erano durati ere geologiche e che li aveva visti lontani, l’uno
dall’altra e da tutto ciò che poteva legarli al passato. Lo sforzo che Duff
compì per indirizzare la conversazione verso i risultati scolastici di entrambi
lo lasciò basito, sottolineando i limiti che si erano posti in quell’ultimo
mese.
-
Lei… lei non c’è? – se c’era qualcosa che Linda Johnson aveva imparato da lei, era la capacità di dissimulare i
propri sentimenti; ed era destinata ad essere un’abilità che Duff non avrebbe
mai padroneggiato. Mentre il tono della ragazza fu di circostanza, per niente
coerente al tumulto interiore che le aveva provocato fare quella domanda, il
biondino esternò tutto il proprio disagio nell’espressione del viso.
Deglutendo, si passò un mano fra i capelli che non aveva ancora provveduto a
coprire col tocco, cercando di apparire calmo ed indifferente. – Non lo so. Non
è affar mio. – per un mese, da quel giorno in cui la verità aveva preso a sberle
tutti quanti, Duff non era stato capace d’impedirsi di fissare durante le
lezioni il banco vuoto di Adrien Miller. Nessuno aveva fatto domande
sull’episodio che aveva visto il presunto triangolo amoroso come protagonista,
anche se le voci di corridoio erano state tante, ed indiscrete. Se anche Duff
avesse avuto il coraggio di ammettere l’esistenza del triangolo e,
contemporaneamente, di dichiarare che il terzo elemento non era stata la povera
Linda, ormai la bomba era esplosa. L’assenza chiacchierata di Adrien li aveva
privati di ogni privacy, li aveva riempiti di dubbi e l’unico silenzio che era
stata in grado di costruire era quello che aveva allontanato la moretta e Duff.
-
Immagino di no – ma nemmeno l’ormai impenetrabile Linda riuscì ad esimersi dall’infilare
una vena di sarcasmo in quelle poche sillabe. Duff non si trattenne dal
guardarla con gli occhi fuori dalle orbite, mentre la ragazza tenne lo sguardo
fisso davanti a sé, preservando in apparenza quel velo di timidezza che era
stato il suo cruccio per anni, e che in quel momento le conferì una dolcezza
affascinante. Prima che il biondino potesse dire qualcosa d’incredibilmente
stupido, un sudatissimo professore di spagnolo corse loro incontro, il sorriso
rivolto a Linda. – Johnson, prima che tutti gli studenti ricevano il proprio
diploma, avrà luogo il tuo discorso. – approfittando del fatto che l’uomo
sembrava non essersi neanche accorto della sua presenza, Duff distolse lo
sguardo dalla ragazza e dal resto del mondo, gli occhi verdi rivolti verso il
cielo terso di giugno. “Non finirà mai”
pensò, stranamente senza alcuna punta di amarezza. Non sarebbe mai finito il
tormento del marchio che Adrien aveva inciso col fuoco sulla sua pelle,
attraverso mesi di bugie ed inganni che l’avevano quasi ucciso, ma che
contemporaneamente l’avevano temprato in vista del futuro. Quando aveva chiuso
lo porta di quell’armadietto immondo, il ragazzo era stato convinto che quel
capitolo della sua vita si fosse chiuso: semplicemente, si era sbagliato. I
ricordi avrebbero bruciato per sempre: non rimaneva altro che imparare dagli
errori. Improvvisamente, spostando lo sguardo verso i portici lontani
dell’edificio scolastico, qualcosa d’inaspettato s’intrufolo nel suo campo
visivo.
-
Ehi, Linda! – “No, ti prego. E’ già abbastanza
difficile così.” la ragazza si voltò con un sorriso leggero al richiamo di
Duff, invece di raggiungere l’inizio della fila ordinata di studenti che andava
formandosi. Il discorso di fine anno spettava a lei, in quanto alunna coi
risultati migliori alle graduatorie, e se prima di quel momento aveva tremato
come una foglia al pensiero di dover parlare davanti a tutti, ora smaniava di
concedersi al pubblico. Eppure, nonostante la fretta, non fu in grado
d’impedirsi di attenere che il biondino si posizionasse davanti a lei. Pian
piano, la sensazione di vuoto allo stomaco che aveva provato ogni volte che
Duff sfoderava quel sorrisetto nervoso che preludeva ad una cattiva notizia,
quella era riuscita a soffocarla; eppure, i piccoli gesti con cui il biondino
tirava fuori il lato più bello di sé stesso riuscivano ancora ad alterarle
l’umore. Lezione di Adrien Miller numero
uno: non lasciare mai e poi mai che gli altri notino che la parte più
fragile di te dipende dalle loro azioni. E’ una debolezza inutile che si
concede chi è abituato a perdere. – Sì? – domandò Linda, quando si accorse che
Duff stava avendo delle difficoltà a parlare. L’imbarazzo era visibile sul
volto del ragazzo per via delle chiazze rossastre che gli coloravano le guance.
– Mi chiedevo… ci vai con qualcuno al ballo di stasera? – domandò infine con
strafottenza. “Oh, è adorabile”.
-
Veramente, sì… - abbassando i grandi occhi marroni sull’erba secca e poco
curata del giardino della Renton, Linda confesso impedendosi di scoprire la
sorpresa fin troppo indiscreta sul volto di Duff. Non aveva voglia di sentire
ancora una volta sottolineare quanto fosse stupefacente l’idea che lei uscisse
con qualcuno. – Ci vado con Ethan… il quarterback della squadra di football,
sai. – quando per la prima Ethan Cooper le aveva rivolto la parola, non aveva
la più pallida idea di trovarsi di fronte al gentile ragazzo che l’aveva
soccorsa quando Adrien aveva dimostrato a tutto quanto folle fosse. Anche dopo,
quando aveva incominciato ad aspettarla per accompagnarla a casa dopo le
lezioni, aveva continuato a non sapersi spiegare ciò che stava accadendo. Non è Duff, aveva ripetuto per giorni la
vocina malevola nella sua testa finché non si era decisa a rivolgere un sorriso
radioso ad Ethan, accettando il suo invito al ballo di fine anno. Nessuno
sarebbe mai stato come Duff, né nella vita reale né nel cuore di Linda, ma la
ragazza non trovava neanche più lo stesso gusto della sofferenza in una
battaglia che considerava persa. – Oh. Già… anch’io ci vado, con un’amica delle
nuove ragazze di Izzy e Steve… Beh, immagino che ci vedremo là. – la prima bava
di vento della giornata scompigliò loro i capelli, rendendo invisibili le
persone che attorno a loro parlavano. Gli sguardi che si rivolsero furono pieni
di calore, mentre nei loro stomaci si diffondeva la sensazione di vuoto di una
delusione che avrebbe compreso solo dopo anni.
La
donna fu tentata di togliersi il foulard che aveva avvolto attorno al proprio
capo quella mattina, lasciando la villa per mettere per la prima volta piede
nei luoghi di sua figlia. Le dita scattarono per pochi istanti verso il nodo di
sete sotto al collo, dove un leggero strato di sudore ricordava alla sua pelle
perfetta quando il caldo potesse essere fastidioso; poi, come scottata, le
riabbassò, con un sospiro. Era meglio non farsi vedere, anche se nessuno
l’avrebbe riconosciuta per ciò che era veramente: se anche si fosse scoperta,
sarebbe rimasta agli occhi di tutti Lisette Schneider-Niven. In quel momento,
non si sentiva né l’ex modella né la moglie perfetta che rappresentava. “Una pessima madre” pensò con amarezza “Ecco cosa sei”. Tristemente, quel
pensiero non le suscitò l’immenso dispiacere che sarebbe stato normale provare.
In lontananza, oltre un cumulo disordinato di sedie di plastica, gli studenti
lanciarono in aria i propri tocchi nel classico gesto d’esultanza alla fine
della carriera scolastica. Solo uno rimase in disparte, senza muovere un dito,
ma questo Lisette non lo notò.
Camminare
per quei posti, che avevano conosciuta Adrien molto più di Lisette, era come
essere al centro di un’esperienza extracorporea, trascendentale. La donna si
guardava attorno, cercando con gli occhi gli angoli in cui quella figlia
sconosciuta aveva cercato ombra, rifugio, il conforto che lei non era stata in
grado di donarle dopo la scomparsa di Reese. Si figurava la ragazza sorridere a
qualche incauto compagno che aveva commesso l’errore di avvicinarsi troppo alla
sua rete di perfette menzogne, e la confrontava con la figurina che si era
rinchiusa in casa per un mese a quella parte; la paragonava al fantasma che
quella mattina aveva scelto di abbandonare tutti, sulle orme del fratello. “Me ne torno a New York City” aveva
semplicemente detto, stando seduta sul bordo del proprio letto e continuando a
darle le spalle, come se invece di stare parlando con sua madre stesse
semplicemente esprimendo un pensiero ad alta voce. Un nodo spesso e doloroso si
era formato nella gola di Lisette, che come sempre non aveva saputo negare, che
come sempre non aveva saputo dirle alcunché. Non l’aveva accompagnata
all’aeroporto, dopo averla osservata in silenzio preparare una valigia: la
donna nutriva la speranza che, non permettendo alla partenza di Adrien di
fossilizzarsi in un ricordo, avrebbe potuto fingere che fosse ancora con lei.
Come avevano fatto per anni. Come lei aveva fatto con Reese.
Il
momento migliore di un viaggio in aereo è il suo inizio. I secondi esatti in
cui il bestione di acciaio si stacca dal suolo, magari bruscamente per una
manovra scorretta del pilota, la visione che si ha dal minuscolo finestrino
della terra che si allontana, anche la sensazione sgradevole delle orecchie
tappate: tutte cose che Adrien Miller stava letteralmente adorando, seduta su
una comoda poltrona della prima classe, eppure così rigida e fredda. Gli occhi
erano fissi oltre il vetro del finestrino, verso l’infinito cielo che
costituiva l’unico elemento non mutevole del paesaggio urbano: in realtà,
Adrien non stava osservando niente di particolare fuori dalla bolla metallica
dell’aereo. L’unica cosa che riusciva a vedere era il suo mondo cadere a terra,
briciola dopo briciola. “Amore” la
voce di Duff, il nomignolo con cui si era rivolto a lei tante volte, non
riusciva a non suonare stucchevole e falsa fra i suoi pensieri. Pensandoci in
continuazione, la ragazza le aveva tolto la limpida sincerità che l’aveva fatta
squillare, pronunciata dalle labbra dolci del biondino.
Aveva
scelto New York, come città verso cui scappare: non Londra, dove forse una
Meredith distratta e confusa fra i ricordi l’avrebbe attesa; non Santa Monica,
dove avrebbe potuto conservare l’aria di Los Angeles lontano da ciò che l’aveva
contaminata. New York. Dove è cominciato
tutto, avrebbe definito lei la motivazione del luogo della sua fuga, se
qualcuno gliel’avesse chiesto; dove sei
esplosa, dentro e fuori, sarebbero state le parole più vere, che la ragazza
non avrebbe mai pronunciato. – Desidera qualcosa, signorina? – una hostess dal
viso gentile, rotondo e gonfio di una felicità tranquilla fra quattro mura
imbiancate di fresco e bambini piccoli che strillano, si sporse verso di lei,
servizievole. Adrien avrebbe desiderato tanto permettere a sé stessa di
risponderle sgarbatamente, magari ferendole l’anima in profondità: il controllo
sul proprio istinto che aveva perso nell’ultimo periodo era stato tanto,
davvero troppo. – No, grazie – rispose affabile, voltando la testa per
trapassarla con uno sguardo che rimase freddo nonostante l’educazione e la
classe della sua voce vellutata. La donna si allontanò, leggermente confusa, ed
Adrien si lasciò scappare un sospiro: quegli erano gli attimi in cui la storia
finiva.
E
si sentiva sospesa nell’aria, letteralmente: in un punto oscuro della sua
mente, la cintura di sicurezza e le pareti dell’aereo scomparivano ad
intervalli regolari, lasciandola precipitare in un vuoto che, lei lo sapeva,
non sarebbe mai terminato in una schianto. Duff era lontano. Robin era lontana.
I rumori delle ali d’acciaio che sferzavano le nuvole erano appena accennati,
dietro la lastra che la separava dal resto del mondo. I suoi respiri profondi
rimasero la sua unica compagnia, avendo chiuso gli occhi, finché un’insistente
prurito mentale non la costrinse a cercare la persona che in quel momento la
stava fissando. “Oh” un uomo, o poco
più. Nulla di che: completo grigio ed anonimo, capelli radi sulla nuca ed
ingrigiti sulle tempie, fronte imperlata da un sudore di vecchiaia che avanza.
E la stava fissando con lascivia. O,
meglio, se avesse saputo oltrepassare la sottile linea che determina la
consapevolezza di sé stessi, avrebbe capito che stava fissando le sue gambe
lunghe, scoperte da una minigonna. A stento trattenne un sorrisetto
compiaciuto: dentro di lei, una bimba scoppiò in lacrime. Ma poteva ignorarla
ancora un po’.
May 21st 1987
Adrien.
Ti scrivo queste poche righe,
anche se credo non le leggerai;
appena vedrai il nome del
mittente, le getterai in un cestino e prenderai in giro il mio lato
melodrammatico
come hai sempre fatto.
Ma vale la pena tentare.
Ho fatto fatica a reperire il
tuo indirizzo: tua madre non sapeva nemmeno della mia esistenza, ma
mi ha aiutato comunque. Deve
tenere a te, dopotutto.
Mi sono svegliata, una mattina,
e ho scoperto di non farcela più:
dovevo parlare con te, dirti
ciò che non ti ho detto.
E, forse, il fatto che tu non
leggerai nulla di ci che ti sto scrivendo non cambierà le cose:
non hai mai ascoltato;
forse sono solo io che ho
bisogno di parlare.
Amo un uomo: è dolce, gentile,
premuroso, divertente
come una volta credevo fossi
tu. Josh,
con lui ogni tanto mi sento.
Vive a Huston, insegna filosofia.
Ma questo di certo non
t’interessa:
aspetto una figlia, e una volta
forse le avrei dato il tuo stesso nome;
adesso, non riuscirei a
crescerla sapendo che potremmo allontanarci come è successo a noi.
A volte, sento la tua mancanza,
ma sono lampi che scompaiono
presto. Non era la fine che mi
sarei aspettata, quando ti ho conosciuta.
Forse, è davvero meglio così,
meglio che tu mi abbia ferita,
meglio che tu abbia triturato
la mia vita,
meglio che me ne sia accorta,
seppur tardi.
Vedo spesso Michael alla
televisione, cambiato, cresciuto, forse persino invecchiato,
come tutti noi. Osservare
i cambiamenti del suo viso non
mi provoca più colpi al cuore da tempo, ormai.
Ti ha amata, e l’hai fatto
anche tu. Almeno in parte;
di questo sono sicura.
Vorrei che questo angolo che mi
sono ritagliata per pensarti potesse concludersi in un modo diverso,
ma, per noi, non ci sono mai
state parole facili.
Robin
“ I'm not saying its your fault,
although you could have done more:
oh, you're so naive yet so. ”
[…]
“ You’re such an ugly thing
for someone so beautiful. ”
[…]
“ Just
don’t let me down. ”
(The
Kooks – Naïve)
NOTE DELL’AUTRICE
Anche quest’avventura è finite: mi sembra proprio strano, non è la
stessa sensazione d’esultanza che ho provato alla fine di Love will tear us
apart; ma il senso di soddisfazione, quello è anche
maggiore. Sarà perché, come dicevo anche nei precedenti capitoli, questa storia
mi ha fatta crescere.
Veniamo ai dettagli tecnici: il ricordo di Duff che c’è all’inizio
e la parte iniziale della consegna dei diplomi dovrebbero servire a
sdrammatizzare un po’, ma ormai sono abituata a scrivere di fatti tristi,
violenti e tragici, perciò la mia vena umoristica potrebbe far pena. Pazienza.
Credo che l’ultima parte dell’epilogo sia venuta bene. Negli ultimi paragrafi
su Adrien si può notare un riferimento al finale de “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. Non per quanto riguarda alla trama, quanto alla
struttura lessicale.
Stranamente,
non ci sono altre particolari citazioni in questo brano: tutto è fuoriuscito
dalla mia mente.
Il
fatto che poi Slash canti “Michelle”
non è un caso, per le signore che adorano il nostro chitarrista insieme
all’omonima cantata dai Beatles. Non si sono proprio lasciati, s’intuisce dal
finale dei paragrafi finali dell’ultimo capitolo: certo, non potrà mai esserci
qualcosa di serio. Diciamo, sono una coppia molto aperta.
Grazie
a tutte voi, che mi avete sostenuta fino alla fine: scrivere questa storia
sarebbe stato impossibile senza i vostri commenti, le vostre dritte,
l’aspettativa di leggere i vostri complimenti e le vostre critiche dopo aver
postato. Vi adoro, sul serio. Spero che ognuna di voi continuerà a seguirmi
quando, a fine aprile, comincerò la mia nuova storia. Per farmi pubblicità, vi
lascio il titolo: “SCOOP – L’errore più grande”.
E’
in arrivo anche una Missing Moments di cinque
appuntamenti su Love will tear
us apart. Di quest’ultima
però, non so dirvi la data precisa.
Grazie
ai Kooks, che con la loro canzone mi hanno ispirata e
supportata.
GRAZIE
ANCORA A TUTTE VOI!
Goodbye
Charlie