Credevate
fossi morta, eh? Beh, non sono morta u.u
Ma ho passato tre mesi alquanto…uhm…infernali xD Ho
passato tutto gennaio influenzata, a febbraio esami e…beh, problemi
sentimentali che mi hanno buttata giù. E la mia ispirazione ne ha risentito,
parecchio. E’ stato un parto questo capitolo, che non so neanche se mi piace o
no. Mi è indifferente, il che è anche peggio.
Scusatemi per questo ritardo. Non so quando arriverà il prossimo capitolo, ma
vi assicuro che arriverà prima di un mese xD Massimo
tre settimane.
Buona lettura.
elyl
Chapter XXXII:
I Hate You
“People protect what they
love”
- Jacques Cousteau -
I
sotterranei sarebbero stati il luogo più silenzioso di tutto il castello se non
fosse stato per il suono dei passi di Alistair Piton. Camminava
lentamente, trascinandosi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, gli occhi
lucidi e pieni di lacrime.
Ancora stentava a crederci. Aveva un fratello e suo fratello
non era un ragazzo qualsiasi, bensì Harry Potter, il Bambino Sopravvissuto.
Avevano la stessa madre, Lily.
Strinse i pugni e accelerò l’andatura. Sapeva che era morta ma a causa di un
tumore incurabile, non per mano dell’Oscuro Signore. Suo padre aveva parlato di
una Profezia e, anche se non capiva cosa c’entrasse, sapeva che se non l’avesse
mai riferita al suo Signore lei sarebbe stata ancora viva. Sarebbe stata al suo
fianco, gli avrebbe dato consigli e lo avrebbe consolato. Se era morta, la
colpa era esclusivamente di suo padre, il suo eroe: gli aveva mentito. E il Signore Oscuro aveva espresso il desiderio di incontrarlo.
Era una bugia. La sua vita era un’intera illusione basata su delle menzogne.
Senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò all’entrata della Sala Comune. Si strofinò gli occhi, fece un respiro profondo e pronunciò la
parola d’ordine. Si fece coraggio e varcò la soglia, ma subito si bloccò,
guardandosi attorno.
Draco era sdraiato su uno dei divani in pelle nera,
gli occhi chiusi, rilassato, la testa posata sulle ginocchia di Michelle Hanson, una ragazza al quarto anno che stava leggendo un
libro mentre gli accarezzava distrattamente i capelli. Sul divanetto accanto,
Tiger e Goyle erano schiacciati l’uno contro l’altro,
le grosse spalle che cozzavano e la loro tipica espressione da ebeti stampata
in viso. Poco distante Theodore Nott e Blaise Zabini erano impegnati in
una partita a scacchi.
Spostò lo sguardo e vide Kain chiacchierare con Daphne. Le sorrise dolcemente,
si guardarono qualche istante e si baciarono. Adrian,
invece, era seduto con Claudius. Leggeva molto attentamente il libro di Erbologia, arricciò il naso e segnò qualcosa ai margini.
Subito l’amico allungò il collo, interrompendo momentaneamente la fabbricazione
di sigarette allucinogene. Lesse ciò che era stato appuntato, sorrise e tornò
al suo impiego preferito, inspiegabilmente più felice. Dietro di loro, Eric
aveva una mano appoggiata al muro sopra la spalla di Denise Swan,
quarto anno, ennesima vittima, mentre con l’altra le accarezzava il volto,
baciandola, intrappolandola tra il proprio corpo e la parete.
Improvvisamente, gli mancò l’aria: ogni suo singolo compagno era imparentato
con Mangiamorte, aspirava a esserlo o simpatizzava per loro. Lo aveva sempre
saputo, ma la consapevolezza di essere così diverso, di essere vittima del loro
tanto adorato Signore Oscuro lo aveva colpito
all’improvviso, privandolo di ogni forza. Li odiava tutti, dal primo
all’ultimo. Si morse la lingua e attraversò di gran carriera la Sala Comune,
ignorando i suoi amici che lo chiamavano. Arrivato in camera
chiuse la porta e ci sbatté con forza i pugni serrati. Se si fosse fermato sarebbe scoppiato, li avrebbe colpiti per
vendicarsi. Non gli importava se non era da lui, ma esattamente che cosa era da
lui? Era una menzogna: avrebbe potuto rinascere ed
essere ciò che desiderava.
“Fanculo.” Sussurrò, dando un altro colpo, sentendo le
lacrime sfuggire al suo controllo. “Fanculo.” Ripeté.
Scosse il capo, poi si buttò sul letto e si raggomitolò su se stesso, piangendo
come un bambino, prendendo realmente coscienza di ciò che aveva perso a causa
del Signore Oscuro: la possibilità di conoscere sua
madre, crescere con un fratello, far parte di una famiglia. Non si era mai
sentito così solo in vita sua.
Sentì la porta aprirsi e subito gli diede le spalle, non volendo farsi vedere
da nessuno in quelle condizioni.
“Al?” Lo chiamò preoccupato Eric, accendendo la luce.
“Vattene.” Intimò. “Voglio restare da solo.”
“Che cos’è successo?” Domandò avvicinandoglisi.
“Non te lo dirò un’altra volta, vattene.” Ringhiò voltando leggermente il capo
in sua direzione, provando un’ondata d’odio nei suoi confronti.
Il biondo lo osservò, senza riuscire a capire. Si grattò la nuca, indeciso: doveva andare o restare? Era successo qualcosa, ne
era sicuro. Non voleva la sua compagnia, ma era il suo migliore amico e sarebbe
morto piuttosto che abbandonarlo.
“Che cos’è successo?” Chiese per la seconda volta,
senza ottenere risposta.
Sbuffò e si sedette accanto a lui.
“So che sono un bastardo senza cuore, ma sono pur sempre il tuo migliore
amico.” Disse corrugando la fronte, non sapendo cos’altro dire. Preferiva i
fatti alle parole, così posò una mano sulla sua spalla.
Alistair fece per parlare, aveva bisogno di farlo, ma
si bloccò appena in tempo. Non poteva e non doveva: lui era uno di loro, faceva parte dei cattivi, di coloro che
avevano portato via sua madre. Voleva diventare Mangiamorte, era il suo
più grande desiderio e con molte probabilità suo padre era uno di loro.
Scattò a sedere e sentì rabbia e odio scorrergli nelle vene.
“VATTENE!” Urlò. “VATTENE!”
Eric lo guardò preoccupato, poi si strinse nelle spalle e abbassò il viso,
ferito.
“Scusa.” Borbottò. “Volevo solo sapere se stavi bene.”
“VATTENE!” Strinse le mani a pugno, piangendo.
“Ok, ok.” Mostrò i palmi delle mani, alzandosi dal letto. “Me ne vado.”
Aggiunse arretrando fino alla porta, triste.
Si fermò sulla soglia e guardò l’amico, poi sospirò e abbandonò la stanza, le
spalle curve e le mani in tasca.
Il Caposcuola lanciò un urlo disperato, cercando di scacciare il dolore, ma la
cosa non fece che aumentarlo. Si lasciò cadere sul letto, portò le ginocchia al
petto e le abbracciò, piangendo disperato come un bambino. Si odiava per come
aveva trattato il suo migliore amico: non aveva colpe, era stato cresciuto
così. Fin da quando era piccolo, gli avevano detto che morire per il Signore Oscuro era un onore, che i Babbani erano feccia e
andavano disprezzati. Mai aveva dato tanta importanza al suo desiderio di
diventare Mangiamorte. Odiava il Signore Oscuro, più
di suo padre: era stato lui ad uccidere sua mamma ed ora desiderava averlo al
suo servizio. Tutto per il semplice fatto che suo padre faceva parte del suo
esercito, anche se fingeva soltanto.
Strinse ancor di più le ginocchia al petto. Silente. Sì, Silente era colpevole
quanto suo padre. A quanto gli era stato detto, era lui che non aveva voluto
che sapesse la verità, che rimanesse nell’oblio fino a quel momento. Era lui
che aveva ordinato a suo padre di essere la sua spia, coinvolgendo così anche
lui. Era condannato, lo sapeva benissimo, ma non si sarebbe arreso. Avrebbe
combattuto, avrebbe fatto di tutto pur di non incontrare il Signore
Oscuro. Non voleva averci niente a che fare. Li odiava,
tutti.
Alistair sentì la porta aprirsi e subito finse di dormire.
“Dici che sta dormendo?” Bisbigliò Kain.
“Ha gli occhi chiusi e respira piano quindi sì, direi che sta dormendo.” Disse
Claudius ridacchiando, sicuramente sotto l’effetto di una sigaretta
allucinogena.
“Non fare casino.” Lo riprese Adrian, dandogli uno scappellotto sul coppino.
“Ahio!” Si lamentò.
“Oh, piantatela! Tutti e tre, per Salazar.”
S’intromise infastidito Eric. “Mettetevi a letto e chiudete quelle fogne che vi
ritrovate per bocca.”
“Ma sai che ha? Prima l’ho sentito che urlava.” Kain
si sedette sul proprio letto.
“Già, era un urlo straziante.” Claudius scoppiò a ridere.
“O state zitti o giuro sulla tomba di mio zio, Evan Rosier, che vi crucio tutti
finché non perdete ogni facoltà mentale e vi ritroverete ad
essere gusci vuoti senz’anima che si pisciano e cagano addosso.” Li minacciò.
“Ok.” Dissero in coro gli altri tre dopo qualche istante.
“Perfetto.”
Nella stanza calò il silenzio, disturbato solo dai quattro che s’infilavano
sotto le coperte. Alistair rimase immobile, in ascolto, e ben presto sentì i
respiri lenti e regolari dei compagni. Com’era possibile? Com’era potuto
succedere? Dall’essere il ragazzo più felice dell’intero mondo magico era
diventato il più disperato. Dalla vetta della felicità, era stato trascinato
nell’oblio della disperazione e delle menzogne. Era così stanco che non
riusciva nemmeno a dormire. Avrebbe tanto voluto farlo, sperava di essere
rapito da Morfeo così avrebbe anche smesso di pensare, ma non riusciva. Aveva
troppi pensieri che lo assillavano. E fu così che, senza nemmeno rendersene
conto, scivolò in uno stato di semi incoscienza.
Come tutte le altre mattine, il sole sorse e il dormitorio si animò. Eric si
vestì lentamente mentre i compagni schiamazzavano prendendosi in giro,
infischiandosene del fatto che Alistair fosse ancora nel proprio letto.
“E state un po’ zitti!” Disse scattando in piedi. “Possibile che dobbiate
sempre comportarvi come un gruppo di verginelle che sentono il racconto di una
che ha scopato per la prima volta?”
Claudius fece per dire qualcosa, ma prontamente Adrian gli tappò la bocca con
la mano.
“Scusaci, Eric. E’ tutto a
posto?” Chiese.
Il biondo guardò in direzione di Alistair, imitato dai compagni.
“Ho mal di testa.” Mentì, sapendo benissimo che non
gli avrebbero creduto.
Kain e Adrian si scambiarono un’occhiata, poi annuirono. Finirono di vestirsi
silenziosamente e abbandonarono il dormitorio, trascinandosi dietro Claudius
che borbottava quanto un calderone lasciato troppo a lungo sul fuoco.
Si passò una mano tra i capelli, prese la maglietta e la indossò, poi si
sedette sul bordo del letto e lanciò occhiate preoccupate all’amico, ancora
vestito come la sera prima, nella stessa identica posizione. Fece un respiro
profondo e si avvicinò a lui. Lo guardò attentamente, indeciso, ma decise di
lasciarlo dormire. Aveva ancora un’espressione disperata sul volto e le guance
rigate dalle lacrime. Sospirò e corrugò la fronte, preoccupato.
“Che è successo, fratello?” Sussurrò.
Indossò le scarpe e si vestì molto lentamente, sperando che l’amico si
svegliasse, ma non successe così decise di lasciarlo dormire. Afferrò la
propria borsa e prima di uscire dalla stanza lanciò l’ennesima occhiata ad
Alistair.
Abbandonò la Sala Comune, percorse rapido i sotterranei e raggiunse la Sala
d’Ingresso. Dalla Sala Grande arrivava il chiacchiericcio allegro di tutti gli
studenti dell’intero castello. Storse il naso infastidito da tutta quella
felicità quando vide la Sangue Sporco dirigersi a colazione. Sorrideva radiosa,
sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
La odiava, eccome se la odiava. Quella schifosa aveva
sicuramente avvelenato il suo migliore amico, gli aveva lanciato qualche
maledizione che lo aveva reso suo schiavo. Serrò la mascella e combatté contro
l’impulso di affatturarla. Se era la causa del dolore e della disperazione di
Alistair, gliel’avrebbe fatta pagare. Sorrise: sapeva
già cosa fare.
Scosse il capo e la campana suonò. Sbuffò e, controvoglia, si diresse a Trasfigurazione.
Quando arrivò, l’aula era già mezza piena. Andò a occupare il banco che
condivideva sempre con il suo migliore amico, estrasse i libri e li aprì,
disgustato. Mancavano pochi mesi agli esami e la sua voglia di studiare era ai
minimi storici.
La porta si chiuse e la professoressa McGranitt fece il suo ingresso. Lanciò
una rapida occhiata alla classe e inarcò le sopracciglia, fin quasi a unirle.
“Signor Heartmann?” Lo chiamò austera la donna.
“Si?” Rispose svogliato, il capo chino mentre si massaggiava il collo.
“Le manca il vicino di banco?”
Sollevò lo sguardo e guardò la donna, incrociando le braccia al petto.
“Se non lo vede è perché è assente.”
La professoressa fece un profondo respiro e le sue labbra divennero quasi
invisibili.
“E per quale motivo è assente?”
“Non si è sentito bene.” Rispose semplicemente.
“Molto bene.” Disse dopo qualche istante la strega. “Gli
auguro una pronta guarigione. Bene, sulla cattedra voglio i vostri saggi
sulla scorsa lezione.” Si avvicinò alla cattedra e si
sedette.
Eric chiuse gli occhi, incaricò Kain di portare il suo compito e incrociò le
braccia al petto, per poi districarle immediatamente e iniziare a tamburellare
nervosamente contro il duro legno del banco.
“Che ti sta succedendo, amico?” Domandò in un sussurro.
“Bene, ai vostri posti.” La McGranitt batté le mani e iniziò a spiegare,
richiamando l’attenzione di tutti i presenti.
La lezione sembrò infinita e le lancette dell’orologio sembravano non volersi
muovere. Per tutto il tempo si chiese se Alistair si fosse svegliato, se stesse
ancora dormendo, se avesse mangiato qualcosa, se almeno si fosse lavato. Non
appena suonò la campana, scattò in piedi, afferrò la borsa e senza nemmeno
avvisare i compagni, corse nei sotterranei. Attraversò la Sala Comune in un
battibaleno, salì le scale e si fermò davanti alla porta della propria stanza.
Fece un profondo respiro e l’aprì.
“Al?” Sussurrò titubante.
La camera era buia e l’unica fonte d’illuminazione era la luce proveniente dal
corridoio. Sbatté le palpebre e cercò l’amico, trovandolo nella posizione in
cui l’aveva lasciato poche ore prima. Sbuffò e si passò una mano tra i capelli.
Richiuse la porta il più silenziosamente possibile, mise le mani in tasca e si
avviò verso l’uscita della Sala Comune.
La giornata passò lenta e a ogni occasione Eric andò a controllare il suo
migliore amico, sempre immobile nella stessa posizione. Pranzò rapidamente,
senza rispondere alle domande curiose dei compagni e riuscendo a evitare la
Sangue Sporco. Passò il resto della pausa seduto su una sedia davanti a lui,
guardandolo dormire. Più volte ebbe la tentazione di
svegliarlo, scuoterlo e chiedergli cosa gli fosse successo, ma resistette,
temendo che si mettesse nuovamente a urlare.
Sentì in lontananza la campana che segnava l’inizio delle lezioni pomeridiane,
così prese la borsa, lanciò un’ultima occhiata all’amico e si diresse a
Pozioni.
“Ehy Eric, come sta Al?” Domandò Kain avvicinandoglisi.
Fece per rispondere, ma Piton entrò nell’aula e subito calò il silenzio. Guardò
la classe e serrò la mascella stringendo il mantello con una mano. Incrociò le
braccia al petto e iniziò a spiegare, fulminando con lo sguardo un Tassorosso
che aveva osato sbadigliare. Diede un colpo di
bacchetta e le istruzioni apparvero sulla lavagna. Immediatamente Eric si mise
all’opera, leggendo quattro volte ogni riga prima di eseguire ogni passaggio:
era Alistair quello bravo, lui passava il suo tempo a chiacchierare con Kain o
giocare all’impiccato con quell’idiota di Claudius, vincendo sempre. Per la
prima volta in tutta la sua carriera scolastica, escludendo i G.U.F.O., aveva preparato una pozione da solo, senza
chiedere nemmeno un piccolo aiuto.
“Tempo scaduto.” Disse il professore con la sua tipica voce strascicata.
“Mettete le vostre pozioni in una boccetta e portatele qui.”
Dalle fila dei Tassorosso si sollevarono delle proteste, che subito cessarono non appena l’uomo lanciò loro un’occhiataccia più
assassina del solito.
“Pessimo lavoro, Humming. Pessimo. Una T.” Disse
rigirando una boccetta tra le dita, senza nemmeno stapparla. “L’ennesima T. Dubito persino riuscirai ad accedere agli esami. Se fosse
per me torneresti direttamente ai G.U.F.O.”
Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime mentre sul volto di Eric
comparve un ghigno. Soddisfatto e orgoglioso del proprio lavoro, riempì una
piccola ampolla e si avvicinò alla cattedra. Durante il tragitto diede una
spallata a uno dei Tassorosso, che sobbalzò e fece cadere a terra il proprio
lavoro.
“Altra T anche per te, Grosstar.” Intervenne Piton, quasi svogliato.
Il ghigno del ragazzo si allargò, posò la boccetta e andò a sistemare le sue
cose mentre l’aula si svuotava rapidamente.
“Eric, ti vuoi muovere?” Lo incitò Kain. “Ho fame.”
“Si, arrivo. Tu inizia ad andare.” Lanciò un’occhiata
di sottecchi all’uomo. “Io arrivo tra poco.”
Il capitano della squadra di Quidditch lo guardò qualche istante, poi si voltò
e lasciò soli i due.
Eric strinse la sua borsa e prese coraggio.
“Professor Piton?” Lo chiamò, titubante.
“Heartmann.” Si voltò verso di lui e lo guardò, inarcando impercettibilmente un
sopracciglio.
Il ragazzo deglutì: quell’uomo lo metteva in soggezione.
“Ecco…io…io volevo parlarle di una cosa.” Balbettò senza guardarlo.
“Parla, allora, e vedi di non farmi perdere tempo: ho delle cose importanti da
fare.”
“Si, giusto.” Annuì e fece un profondo respiro.
“Volevo parlarle di Alistair.”
Subito contrasse la mascella e s’irrigidì, senza darlo a vedere.
“Allora?” Lo incitò bruscamente.
“E’ strano. Più del solito, voglio dire. E’ tornato in
camera, si è buttato sul letto e non si è neanche cambiato. Praticamente
è rimasto lì immobile tutta notte, non so nemmeno se ha dormito. E oggi ha
saltato tutte le lezioni e non ha pranzato.” Disse
parlando rapido, mangiandosi quasi le parole.
“Non ha mangiato?”
Il ragazzo scosse il capo.
“No, non si è mosso dal suo letto.” Si passò la mano tra i capelli.
Il professore annuì e gli diede le spalle, iniziando a sistemare le pergamene
sulla cattedra.
Il ragazzo lo osservò in silenzio per qualche minuto, mordendosi il labbro,
pensieroso.
“Professor Piton?” Si decise a chiamarlo.
L’uomo chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi. Doveva
fingere che tutto andava bene, che non fosse successo nulla.
“Heartmann.” Disse voltandosi verso di lui, guardandolo negli occhi, quasi
annoiato.
“Ecco, mi chiedevo se fosse successo qualcosa.” Si mordicchiò il labbro, vervoso “Non l’ho mai visto così.”
“Non è successo niente.” Mentì: essere un abile occlumante
era utile. Mentire su una cosa del genere lo uccideva, ma non poteva farne a
meno.
Eric tirò un sospiro di sollievo.
“Meno male.” Sorrise sollevato. “Perfetto.” Annuì. “Ora vado.” Sistemò la borsa
sulla spalla. “Arrivederci, professore.”
Gli diede le spalle e abbandonò l’aula canticchiando.
Severus andò a chiudere la porta, poi tornò alla cattedra. Posò le mani sul
legno, fece cadere il capo sul petto e fece dei profondi respiri, cercando di
mantenere la calma, ma gli risultò impossibile. Scoppiò
a piangere, stupendosi del suo comportamento. Com’era possibile che stesse così
male? Aveva sempre svolto il suo lavoro in modo impeccabile e ora si ritrovava
in lacrime nella sua aula. Già, in modo perfetto, senza mai tirarsi indietro
nemmeno quando Silente gli aveva chiesto di andare dal Signore
Oscuro e trasformarsi nel suo più fedele seguace. Cosa c’era di più spaventoso
e terribile? Ora aveva la risposta.
Si passò una mano sul viso, asciugandoselo. Sistemò le ultime cose sulla
cattedra, ripose le provette nell’armadio e abbandonò l’aula, camminando veloce,
stringendo i pugni. In pochi minuti percorse tutto il castello e senza nemmeno
annunciarsi, fece irruzione nell’ufficio del preside.
“Sei un pazzo!” Urlò sputacchiando. “Mio figlio ha solo diciassette
anni, per la miseria! Non puoi davvero pretendere che lo serva su un
piatto d’argento al Signore Oscuro. No, non posso
farlo.” Scosse il capo. “Non posso permettertelo.” Lo guardò. “Tu non hai nessuno, non sai cosa significhi. Alistair è tutto
ciò che mi rimane.” Abbassò il capo “Non posso permettermi di perdere anche
lui.” Concluse sussurrando.
Silente sistemò gli occhiali sul naso adunco, prese le mani l’una con l’altra e
guardò l’uomo, con i suoi penetranti occhi azzurri.
“Devi convincerlo a collaborare, Severus.” Disse semplicemente, come se il
professore non avesse detto nulla.
Il pozionista fece una smorfia.
“Tu i meriti, io il lavoro sporco.” Serrò la mascella.
“Se potessi lo eviterei, ma non è possibile.” Riprese
a scrivere sulla sua pergamena.
Strinse i pugni e fece dei respiri profondi.
“Va’, Severus. Abbiamo bisogno di Alistair.” Lo
congedò.
“Non è tuo figlio quello che stai sacrificando, Silente.” Ringhiò guardandolo
negli occhi.
Fece un profondo respiro e gli diede le spalle, per poi abbandonare l’ufficio
senza dire una parola.
Camminò rapido per i corridoi della scuola, dispensando punizioni a studenti
innocenti che magari si stavano semplicemente soffiando il naso in modo troppo
rumoroso. Nemmeno Pix, quando lo vide, si azzardò a
parlare.
Arrivò nella Sala Comune Serpeverde e la trovò deserta, fortunatamente. Non
avrebbe sopportato dei ragazzini urlanti e felici. Salì le scale e si fermò
davanti alla porta del dormitorio dei ragazzi del
settimo anno. Fece un profondo respiro ed entrò.
La stanza era immersa nel buio, l’unica fonte di luce era la porta che aveva
appena aperto. Sdraiato sul suo letto, Alistair aveva lo sguardo perso nel
vuoto. Seduto su quello affianco, Eric si voltò e lo
vide.
“Professor Piton.” Lo salutò educatamente, per poi tornare a guardare
preoccupato l’amico, torturandosi le mani.
“Hai già mangiato, Heartmann?” Domandò fissando il figlio.
Il ragazzo scosse il capo.
“Vai a mangiare.” Ordinò.
“Ma professore…”
“Vai. A. Mangiare.” Ribadì,
riducendo gli occhi a due fessure.
Il biondo deglutì, annuì e lanciò un’ultima occhiata al suo migliore amico,
poi, con il capo chino, abbandonò la stanza, richiudendosi la porta alle spalle,
facendo sprofondare la stanza nel buio.
Il professore fece un respiro profondo e andò a inginocchiarsi accanto al
figlio.
“Alistair?” Lo chiamò posando una mano sulla sua spalla.
Il ragazzo rimase immobile, lo sguardo perso, dando come l’impressione che non
si fosse reso conto né della presenza del padre, né
del fatto che lo avesse toccato.
Fece un respiro profondo e iniziò ad accarezzare piano i suoi capelli, come
faceva quando era piccolo.
“Alistair, ti ricordi quando ti ho portato la prima volta al mare?” Sorrise. “Avevi quattro anni. Eravamo andati in treno e per tutto il
viaggio non avevi fatto altro che chiedermi quanto mancasse alla meta. Eppure
il viaggio non fu lungo, solo un’oretta e mezza. Te lo ricordi?” Fece una pausa, in attesa di una risposta che non
arrivò. “Arrivammo in stazione e tu continuavi a
correre da tutte le parti, tant’è che dovetti prenderti in braccio perché una
macchina stava per investirti. Andammo in spiaggia e passammo lì tutta
la giornata. Solo noi due. Questo te lo ricordi, vero
Alistair?” Accennò un sorriso triste. “Tornammo a casa e in
treno ti addormentasti tra le mie braccia. Ti ricordi cosa mi hai detto
prima di sprofondare nel sonno? Mi hai detto che ero il papà migliore del mondo
e che mi volevi bene.” Gli accarezzò i capelli, piano.
“I momenti più belli della mia vita sono quelli, Ali.
Quelli in cui tu mi hai detto che sono il papà
migliore.” Lo osservò qualche istante, poi fece un respiro profondo. “Mi dispiace, Alistair. Non dovevo dirti
una bugia. Volevo dirti la verità ma ero troppo
sconvolto all’epoca. Andai da Silente e chiesi a lui di prendere una decisione.
Fui costretto, figlio mio. Ho dovuto farlo, non potevo rischiare che la mia
copertura saltasse. Se ti avessi rivelato qualcosa, avresti rischiato di dirlo.
L’ho fatto per te, per Potter…”
Disse l’ultimo nome con disprezzo. “…ma
soprattutto per lei, per tua madre: per Lily Evans.”
Alistair sollevò le palpebre e guardò il padre con i suoi occhi color smeraldo,
uguali a quelli della donna che tanto amava.
“Ti odio.” Sibilò, pieno di rabbia.
L’uomo deglutì e accennò un sorriso.
“Lo so, Ali. Lo so, mi odio anch’io.” Abbassò il viso:
non poteva sopportare l’odio che leggeva nel suo sguardo. “Mi odio anche per
ciò che sto per dirti.”
“E cosa stai per dirmi, sentiamo!” Sbottò. “Cos’altro
può esserci di tanto terribile?”
“L’Ordine della Fenice ha bisogno di te. Se ti
rifiutassi di diventare Mangiamorte, il Signore Oscuro
capirebbe, verrei scoperto e non ci sarebbe più una spia. Sei forte, Ali, e sei
in gamba, molto più di me. Non puoi mollare. Devi lottare.” Gli scostò ancora una
volta i capelli dal viso.
Il ragazzo richiuse gli occhi e rimase in silenzio. L’uomo
sorrise tristemente e gli diede un bacio sulla fronte, proprio come faceva
quando era solo un bambino ed era tutto ciò che desiderava. Si alzò in piedi,
gli diede le spalle e fece per uscire.
“Ti odio.” Ringhiò tremando per la rabbia, singhiozzando quasi. “Ti odio e avresti dovuto morire tu, non lei. Tu dovresti essere quello morto.”
“Lo so.” Disse semplicemente.
Prima che potesse dire altro, uscì dalla stanza e abbandonò la Sala Comune
Serpeverde. Si avviò verso il suo ufficio sfoggiando la sua solita e glaciale
espressione. Ma quando l’ebbe quasi raggiunto, Severus
Piton si fermò. Posò una mano sulla fredda parete e si portò l’altra al petto dove si stava diffondendo un dolore che non aveva mai
provato. Fece un profondo respiro e si lasciò andare a un pianto disperato.