Autore: KrisCullen
Titolo: Speranza
Trama: Nella Amsterdam segnata dalle leggi razziali due
ragazzi, Isabella Swan ed Edward Cullen, cercano di vivere normalmente il loro
amore, senza pensare all’orrore che li circonda. Un giorno Isabella scopre che Edward
è stato catturato dai nazisti, e con questa notizia si prepara ad affrontare lo
stesso destino del suo fidanzato.
Isabella riuscirà a sopravvivere all’orrore dei lager,
grazie anche alla speranza mai morta di rivedere Edward vivo. E se, alla fine,
accadesse veramente?
Rating: Giallo.
Amsterdam, Novembre 1942
L’inverno era ormai alle porte. Si poteva percepire
semplicemente scendendo in strada, dove un vento freddo accompagnava il cammino
dei passanti, che per proteggersi da esso avevano indossato dei cappotti
pesanti.
In quel giorno di fine Novembre, il vento freddo e
dispettoso accompagnava il cammino di una giovane fanciulla dai capelli
castani. La giovane camminava con il viso rivolto a terra, e sembrava
particolarmente interessata al marciapiede che scorreva ad ogni suo passo.
In realtà Isabella, questo era il suo nome, era
concentrata su ben altri pensieri. Dei pensieri che la affliggevano da ormai
troppo tempo e che raramente riusciva ad esternare.
Isabella era una ragazza timida e sincera, generosa e
affidabile. Aveva il piccolo difetto di mettere i bisogni delle persone che
amava davanti ai propri. Ma questo era solo il suo di pensiero: i suoi
genitori, così come i suoi amici e parenti, consideravano quel particole non un
difetto, ma uno dei suoi tanti pregi, di cui doveva andare fiera.
Era sempre più raro trovare delle persone con lo
stesso pregio di Isabella, specialmente in quei tempi dove tutto sembrava
andare per il verso sbagliato.
Per Isabella e per altre migliaia di persone come lei,
vivere ad Amsterdam o in qualunque città d’Europa in quel periodo non era
semplice. Non poteva esserlo, se eri considerato “diverso”.
Isabella, infatti, era diversa. Quella sua diversità
però non si poteva notare nell’aspetto fisico, visto che era identica a tutti
gli altri individui che la circondavano. Isabella era diversa nell’animo, e
nella religione.
Isabella, infatti, era ebrea. E in quegli anni essere
ebrei significava solo una cosa… significava essere una minaccia, per la cosiddetta
razza “pura”, quella tedesca, e anche per tutte le altre razze che esistevano
nel mondo.
Quella parte di teoria però Isabella non riusciva a
capirla, neanche un po’. Era identica a tutte le altre persone che la
circondavano ogni giorno… se non avesse la stella gialla cucita sul cappotto, nessuno
l’avrebbe riconosciuta come ebrea. Eppure, qualcuno considerava il suo popolo
sbagliato, e che per questo doveva essere punito con delle leggi.
Isabella scosse la testa, cercando di cacciare via
dalla mente quei pensieri che, ogni volta, le facevano salire le lacrime agli
occhi. Lacrime di rabbia, le sue, ma anche di tristezza, verso coloro che, come
lei, soffrivano per quella sensazione.
Nella sua famiglia, la madre Reneè era l’unica persona
che ancora possedeva un lavoro. Reneè era un insegnante gentile e capace,
adorava stare in contatto con i suoi alunni e i suoi alunni adoravano stare in
contatto con la loro insegnante. Amava donare tutta sé stessa nel lavoro, e
gioiva ogni qualvolta un suo allievo mostrava miglioramenti nello studio.
Le scuole ebraiche non erano ancora state chiuse, ed
era grazie ad esse se Reneè poteva ancora recarsi a lavorare ogni mattina.
Per suo padre Charlie, invece, le cose non erano
andate nello stesso modo.
Charlie aveva lavorato fino al marzo del ’42,
nell’officina del suo amico e quasi fratello Billy Black. Le due famiglie, Swan
e Black, si erano sempre sostenute a vicenda, aiutandosi durante i periodi
belli e brutti.
In quel mese dell’anno, però, accadde qualcosa che
nessuno riuscì a prevedere.
Accadeva sempre più spesso che i soldati tedeschi facessero
“visita” alle famiglie ebraiche, raccogliendo quanto di più prezioso avessero e
arrestando poi quella povera gente per portarla chissà dove.
Questa “visita” la ricevettero anche i Black,
purtroppo. Billy, suo figlio Jacob e le sue figlie Rachel e Rebecca furono
portati via, e da allora non furono più visti.
Isabella ricordava ancora il terrore e il dolore che
aveva provato quando suo padre le raccontò l’accaduto. Da quel giorno, ogni
sera, pregava per loro e sperava di rivederli, magari un giorno, quando tutto
sarebbe finito.
Isabella rimase sconvolta e profondamente turbata da
quell’episodio, e da allora viveva con la paura che un giorno accadesse anche a
loro.
Spesso la notte sognava i luoghi in cui, si diceva, i
nazisti portassero gli ebrei. Le erano stati descritti come posti in cui il
lavoro regnava sovrano, e che esso rappresentava l’unico modo per guadagnarsi
la libertà.
Isabella però era diffidente. Sentiva, dentro di sé,
che quei posti nascondessero cose mai immaginate, e forse anche terribili.
Isabella alzò la testa dal cemento freddo e grigio che
aveva occupato il suo sguardo e osservò la vetrina di un negozio di
antiquariato. Peccato che lei, lì dentro, non ci sarebbe mai entrata.
Su di essa, infatti, campeggiava l’ennesimo cartello
di avvertenza.
Vietato
l’ingresso ai cani e agli ebrei.
Isabella sbuffò e proseguì il suo cammino, ignorando
l’angoscia che si era propagata nel petto vedendo quel pezzo di carta.
Cercò di non pensarci fino a quando non giunse presso
uno dei tanti parchi di Amsterdam. Quel luogo che per lei significava tanto, e
non solo perché in quel posto per un po’ poteva abbandonare i pensieri
negativi.
Lì, per la prima volta, aveva imparato a muovere i
primi passi.
Lì, aveva conosciuto la sua prima amichetta del cuore.
Lì, per la prima volta, aveva conosciuto l’amore.
E sempre lì, dopo tanti anni, ad attenderla c’era la
sua unica ragione di vita.
Edward.
Sorrise pensando al nome del suo fidanzato e sorrise
ancora di più quando lo scorse di spalle, appoggiato ad un albero, mentre
osservava alcuni bambini giocare poco lontano da lui.
Edward Cullen era un ragazzo di venticinque anni, e il
suo sogno più grande era quello di diventare medico. Lui, proprio come
Isabella, aveva dovuto abbandonare gli studi all’università ma, al contrario
della fidanzata, continuava a studiare in casa, aiutato anche dal padre
Carlisle, medico.
Era grazie a suo padre se Edward aveva voluto buttarsi
nel mondo della medicina. Aveva sempre visto negli occhi del padre tutta la
passione e la gioia che provava ogni qualvolta curava e salvava la vita di un
paziente.
La stessa cosa la provava Isabella vedendo sua madre.
Anche lei aveva un sogno nel cassetto, ed era quello di diventare insegnante.
Magari un giorno, quando quella guerra sarebbe finita, avrebbe potuto
impegnarsi per raggiungere quello scopo.
Si avvicinò velocemente al suo fidanzato e gli cinse
la vita con le braccia esili, troppo corte per poterla avvolgere tutta. O era
Edward ad essere più grosso degli altri?
Non lo sapeva, e non gli interessava saperlo.
Edward, sentendo quelle piccole braccia avvolgerlo, si
girò e si trovò di fronte gli splendidi occhi scuri e brillanti di Isabella. Le
sue labbra si aprirono in un sorriso radioso, cosa che accadeva ogni volta
vedeva il piccolo viso delicato e dolce della sua fidanzata.
“Ce l’hai fatta ad arrivare” disse felice,
abbassandosi un poco e cingendo la vita di Isabella con le sue forti braccia.
La prese in braccio e fece scontrare i loro petti, sentendo anche sotto lo
strato del cappotto il cuore della sua amata battere all’impazzata.
“Volevo farti aspettare” sussurrò Isabella strofinando
il suo nasino freddo contro quello di Edward.
“Cattiva Bella!” esclamò Edward divertito, chiamandola
con quel nomignolo che tanto adorava. Lo faceva sin dal primo giorno in cui si
erano conosciuti. Isabella gli aveva raccontato che preferiva essere chiamata
in quel modo, dato che il suo nome completo non la faceva impazzire.
Isabella rise e si strinse contro il petto di Edward.
Lui la circondò con le braccia e per qualche interminabile minuto restarono
fermi in quella posizione, estraniandosi dal mondo e dalle persone che li
circondavano.
I due ragazzi si bearono del calore che i loro corpi
stretti emanavano, e speravano di poter rimanere per sempre in quel modo,
incuranti dell’orrore e del dolore che in quegli anni imperversava senza
volersi fermare mai.
Isabella sentì le labbra di Edward posarsi dolcemente
sulla sua fronte e alzò il viso, così da poter trovare gli occhi del ragazzo,
quegli occhi così verdi e luminosi da far perdere completamente la testa.
Inspirò il profumo di uomo che emanava il suo corpo e
fissò con insistenza le sue labbra, desiderando ardentemente di poterle
toccare, anche per un solo istante.
Edward, forse percependo i pensieri che vagavano nella
testa della fidanzata, agì prima che essa potesse parlare. Avvicinò i loro visi
fino a congiungere le loro labbra in un bacio dolce e delicato.
Semplice, proprio come lo erano loro.
Quei piccoli e lenti sfioramenti di labbra
rappresentavano per Edward e Isabella la prova tangibile dell’amore che li
legava. Loro non avevano bisogno di gesti romantici o eccessivi per manifestare
l’affetto che provavano. Anche un semplice abbraccio o intreccio di dita per
loro valeva più di qualsiasi altra cosa.
Edward separò le loro labbra e guardò Isabella dritta
negli occhi. Lei vedendo lo sguardo del suo ragazzo concentrato sul suo volto
si sentì a disagio e, come accadeva sempre in quei casi, arrossì terribilmente.
Edward sorrise e abbassandosi ancora ricoprì le guance di Isabella di tanti e
dolci baci.
“Sei bellissima quando arrossisci” sussurrò lui a
pochi millimetri dalla sua pelle. Un brivido corse lungo la schiena della
ragazza e si scostò un po’ da lui, incapace di controllare quelle stupende sensazioni.
Isabella guardò Edward negli occhi e poi, sorridendo,
sgusciò via dal suo abbraccio. Cominciò a correre divertita sentendo le risate di
Edward che, alle sue spalle, la seguiva nel tentativo di riportarla tra le sue
braccia.
La afferrò dopo pochi metri, facendola cadere a terra.
I due ragazzi si fissarono intensamente negli occhi e vi lessero tutte le
emozioni che una persona innamorata poteva provare. Edward accarezzò con le
dita le gote arrossate di Isabella, prima di sfiorarle con le labbra.
“Quando tutto sarà finito, Bella, ti sposerò” sussurrò
emozionato. I suoi occhi verdi divennero ancora più brillanti del solito, a
causa delle lacrime che premevano per uscire.
Isabella gli posò una mano sul viso, incapace di dire
nulla. Con quel gesto sperava che Edward riuscisse a comprendere tutta la gioia
che le sue parole le avevano provocato.
Erano quei momenti che facevano sentire Isabella una
persona normale, e non più una minaccia. Perché in quei momenti era solo una
ragazza giovane e innamorata, che viveva e apprezzava le sensazione stupende
che solo la persona più importante della sua vita sapeva donarle.
Gennaio 1943
Isabella era appena scesa sotto casa e aveva preso la
bicicletta con cui, negli ultimi giorni, si spostava per le vie della città.
Era un modo diverso di muoversi, e in più era anche divertente. Le piaceva sentire
l’aria sferzarle il viso, e le distraeva la mente dai pensieri troppo difficili
da accettare per una ragazza di appena venti anni.
Salì sul suo mezzo e cominciò ad incamminarsi verso
casa di Edward. Era da parecchio che non ci faceva un salto, e premeva dalla
voglia di vedere tutta la sua nuova famiglia. Le mancava vedere il volto
gentile di Esme, la madre di Edward, e quello intelligente e sincero di
Carlisle.
E poi le mancavano anche Emmett ed Alice, i fratelli
del suo fidanzato.
Emmett era poco più grande di Edward, sia nell’età che
nel fisico. Rispetto al fratello minore, Emmett era più alto e robusto,
assomigliava terribilmente ad un armadio per la sua mole. Non conoscendolo
poteva sembrare un ragazzo violento, ma Isabella sapeva che aveva un cuore
buono e l’animo di un bambino.
Alice, invece, aveva la stessa età di Isabella.
Piccola di costituzione e di altezza, era terribilmente dispettosa e allegra.
Più volte i suoi fratelli la avevano paragonata ad un folletto delle favole, se
non a qualche spiritello birbante.
Alice però sapeva essere anche dolce e gentile. Era
uno spirito libero e amava aiutare gli altri in qualsiasi situazione si
trovassero. Isabella la adorava indiscutibilmente e sapeva fin dalla prima volta
che l’aveva vista che sarebbe diventata la sua migliore amica.
Isabella sorrise felice all’idea di rivedere tutti
quanti e quasi sentì il cuore scoppiare dalla gioia quando scorse in lontananza
la loro casa. Si sbrigò a percorrere gli ultimi metri che la separavano da essa
e, una volta raggiunta, smontò dalla bicicletta.
Il portone della palazzina era aperto, così non fu
nemmeno costretta a bussare per far sentire la sua presenza. Una volta entrata
si diresse verso le scale e prese a salirle a due a due, incurante del fiatone
che sentiva crescere ad ogni nuovo gradino.
Raggiunse il quarto piano e si diresse verso la porta
che recava il nome “Cullen”. Bussò senza esitazioni e attese una risposta, che
purtroppo non arrivò. Bussò ancora una volta, ma il risultato fu sempre lo
stesso. Nessuno venne ad aprirle.
Accostò l’orecchio alla pesante porta di legno e restò
in attesa di qualche rumore. Niente.
La cosa era strana. Edward le aveva detto che sarebbe
potuta passare per l’ora di pranzo, per essere sicura che tutti sarebbero stati
in casa.
Isabella cominciò a preoccuparsi, ma cercò di
ritrovare la calma. Non era ancora arrivato il momento di pensare al peggio…
“Cerchi qualcuno cara?” Isabella sentì una voce alle
sue spalle e si voltò. Riconobbe subito il volto affabile della signora Newton,
la vicina di casa dei Cullen. Edward le aveva presentate uno dei tanti giorni
in cui era venuta a far visita alla famiglia del suo fidanzato.
“Stavo cercando i Cullen” disse Isabella “ma non sono
in casa. Forse sono usciti” disse senza però riuscire a mascherare una nota di
preoccupazione nella voce.
La signora Newton si portò una mano alla bocca,
sconvolta. Isabella la guardò confusa da quel gesto.
“Isabella, cara…” sussurrò la donna avvicinandosi ad
Isabella e prendendole le mani tra le sue. La signora Newton non sapeva come
dire a quella povera ragazza che forse non avrebbe più visto quella famiglia
che le era entrata nel cuore.
“Tesoro, ascoltami. I Cullen… loro… non sono qui”
disse cercando le parole adatte.
Isabella guardò il viso sconvolto della donna e cercò
di capire cosa le stesse dicendo. “E dove sono?” domandò con la voce ridotta ad
un sussurro.
“Loro… s-sono stati presi.”
Quelle parole bastarono per mandare Isabella nello
sconforto più totale. Un dolore lancinante la colpì all’altezza del petto e
sentì le gambe cedere sotto il peso del suo corpo. La signora Newton capendo
cosa stava provando la ragazza la sorresse e, delicatamente, la fece appoggiare
alla parete con la schiena.
“No” sussurrò Isabella mentre le prime lacrime
cominciarono a scorrerle sulle guance. “N-non può essere…” balbettò.
“È accaduto stanotte” le sussurrò la donna,
accarezzandole le guance inondate di lacrime. “Nessuno ha potuto fare nulla.
Non sai quanto mi dispiace…”
“No. N-non… non Edward!” urlò Isabella buttandosi tra
le braccia della signora Newton.
Aveva sempre pregato Dio perché salvasse Edward. Non
poteva prendersela con una persona buona come lui. Aveva sempre pregato perché
prendessero lei, e non Edward. Lui non doveva subire tutto quel male.
“Sshhh… piccolina, tranquilla, ti prego” la donna
cercava di tranquillizzare Isabella, ma non ci riusciva. La ragazza era troppo
sopraffatta dal dolore per potersi controllare.
Restò parecchio tempo in quella posizione, cullata
dalle braccia amorevoli di quella donna che a malapena conosceva, ma che in
quel momento le sembrava la cosa più vicina ad una figura materna.
E lei ne aveva appena persa una, di figura materna.
Quando Isabella tornò a casa raccontò tutto quello che
era accaduto alla famiglia del suo fidanzato, o meglio quello che sapeva. Reneè
reagì nello stesso identico modo che si era immaginata Isabella nella sua
testa. Abbracciò la figlia e scoppiò in un pianto disperato.
“Adesso verranno anche da noi!” disse tra le lacrime,
mentre tentava di asciugare le lacrime dal viso della figlia, che non aveva
smesso un solo istante di versare.
Reneè aveva accettato in famiglia Edward e aveva
imparato ad amarlo come se fosse stato suo figlio, e la stessa cosa valeva per
i suoi giovani fratelli. Sapere che, forse, non avrebbe potuto più vederli le
provocò un dolore incredibile.
Anche Charlie rimase sconvolto dalla notizia.
Conosceva bene la famiglia di Edward e conosceva benissimo suo padre Carlisle.
Lo riteneva un brav’uomo e un ottimo padre di famiglia.
Isabella passò il resto della giornata e della serata
chiusa nella sua piccola camera. Non aveva voglia di parlare con nessuno e
voleva soltanto tenere a bada il dolore che, quel giorno, le stava sconvolgendo
l’anima e il corpo.
Se ne stava rannicchiata sul suo letto a piangere,
troppo sconvolta dalla realtà che stava affrontando. Pianse fino a quando non
terminò le lacrime, e nell’attesa che esse tornassero restò a fissare il
soffitto della sua camera.
Lentamente il colore del soffitto diventò sempre più
scuro, fino a diventare nero: il sole che quel giorno aveva riscaldato
Amsterdam se n’era andato, lasciando così il posto alla notte. Isabella si
accorse a malapena dell’oscurità appena arrivata e con fatica indossò la tenuta
da notte, per poi coricarsi sotto le coperte del suo letto.
Sapeva che non sarebbe riuscita a prendere sonno e
così rimase sdraiata su di un fianco, a pensare ad Edward e a dove potesse mai
trovarsi a quell’ora tarda di notte. Sperava che stesse bene e che non fosse
già… morto.
Isabella odiava quella parola, e odiava pensare al suo
amore in quello stato, ma era più forte di lei. Sapeva che Edward stava
rischiando la vita ovunque si trovasse, e che era difficile pensare in maniera
diversa. Però una parte di lei sperava già di rivederlo, magari un giorno,
quando tutta quella orribile realtà sarebbe cessata.
Isabella chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, anche
se solo per qualche minuto. Ci stava quasi riuscendo quando sentì un rumore.
Era come se qualcuno stesse bussando ad una porta.
Dato che era ancora sveglia decise di alzarsi e di uscire a controllare. Magari
era solo la signora Weber, pensò Isabella mentre avanzava nella casa buia e si
infilava la vestaglia sulla lunga camicia da notte. Quando aprì la porta, però,
non si ritrovò davanti il volto gentile della signora.
Osservò attentamente i volti degli uomini che aveva di
fronte, e si sentì stranamente bene. Non aveva paura in quel momento, non
sentiva il cuore battere feroce nel petto come se stesse per scoppiare. Nulla
di tutto questo.
Isabella si sentiva tranquilla, forse perché sapeva
che un giorno quel momento sarebbe arrivato. Era accaduto quello che aveva
sempre temuto…
Si era rassegnata. Aveva smesso di lottare.
“La famiglia Swan?” domandò uno dei soldati nazisti
fissando la ragazza, che si strinse alla porta come se quella rappresentasse
una fonte di forza per quell’istante terribile.
Annuì con la testa, fissando il volto giovane del
soldato. “Sapevo che sareste venuti.”
La sua voce era stranamente alta per i suoi canoni, e
non c’era la minima traccia di paura in essa. I suoi occhi, invece, dicevano
l’esatto contrario. Erano lucidi e rossi, a causa del pianto di pochi minuti
prima e che stava per ricominciare.
“Prendete lo stretto necessario e scendete in strada.
Avete cinque minuti.” L’uomo pronunciò quelle parole guardando Isabella prima
di andarsene insieme ai suoi compagni. Isabella richiuse lentamente la porta,
prima di buttarcisi sopra stremata. Alle sue spalle sentì un flebile singhiozzo
e si voltò verso quella direzione.
Sua madre se ne stava ferma al centro del corridoio,
circondata dalle braccia del marito che cercavano di infonderle coraggio.
Isabella si avvicinò al padre e strinse con le sue mani il suo braccio, come se
anche lei potesse ricevere la forza necessaria per affrontare tutta quella
situazione.
“Mi dispiace, bambina mia” sussurrò Charlie
appoggiando una mano sulla guancia della figlia.
Quella mano dopo qualche secondo venne bagnata da una
goccia di rugiada, l’ennesima che Isabella lasciò libera di cadere in quella
lunga giornata, che sembrava non volesse più finire.
Marzo 1946
Isabella osservava il suo corpo riflesso allo specchio
della sua nuova camera. Era una cosa che faceva quasi ogni giorno, da quando
era tornata ad Amsterdam.
Era vestita con solo la biancheria intima, e studiava
ogni piccola parte della sua esile figura. In quegli ultimi anni aveva perso
molto peso, a causa della mancanza di cibo e dello sforzo che faceva ogni
giorno per sopravvivere.
Da quando era tornata però aveva ripreso qualche
chilo, e adesso il suo aspetto si stava avvicinando di nuovo a come era stato
prima di tutto quell’orrore.
Anche il suo volto recava i segni di quel periodo
traumatico e difficile. Sul suo mento c’era una cicatrice ben visibile, frutto
di una caduta brusca sul suolo sconnesso e pieno di pietre del campo in cui si
trovava. Gli zigomi erano scavati, e il colore della pelle era pallido,
malaticcio.
Isabella si passò una mano sui suoi capelli, quei
capelli che una volta le arrivavano a metà schiena ma che adesso, invece,
raggiungevano a stento le spalle. La avevano costretta a tagliarli, una volta
arrivata al campo, e aveva potuto farli ricrescere solo una volta che ne era
uscita.
La ragazza distolse lo sguardo dal riflesso e si voltò
verso il letto, dove era poggiato il vestito che avrebbe indossato quel giorno.
Mentre lo prendeva guardò la sua camera, così diversa da quella che aveva in
precedenza, ma che aveva imparato ad accettare come sua.
Isabella non abitava più nella casa in cui era nata e
cresciuta, anche se si trovava nella stessa palazzina. La sua vecchia vicina di
casa, la signora Weber, aveva saputo del suo ritorno e le aveva proposto di
vivere insieme a lei. Temeva che Isabella si fosse sentita sola, in una casa
troppo grande per lei ora che i suoi genitori non c’erano più.
I coniugi Swan non erano riusciti a sopravvivere. Gli
stenti e le malattie che avevano provato in quel luogo li avevano strappati
alla loro figlia, che ancora soffriva per quella perdita così grande da
comprendere e da accettare.
Isabella finì di vestirsi e uscì dalla stanza,
recandosi poi nella cucina della casa. La signora Weber non c’era, era uscita
di casa presto per andare a fare la spesa al mercato poco lontano da casa. Sul
tavolo aveva lasciato un vassoio pieno di biscotti per Isabella, ma la ragazza
non aveva voglia di mangiare.
Si spostò verso la finestra e guardò fuori. Il cielo
era limpido e privo di nuvole, e il sole già alto nel cielo riscaldava quella
città così bella e provata al tempo stesso. Vedendo quella giornata così solare
Isabella non riuscì più a stare in casa e decise di uscire.
L’aria fresca di Marzo le accarezzò il viso e lei
cominciò a camminare, percorrendo quella strada che anni prima faceva quasi
tutti i giorni.
Si guardava continuamente attorno, osservando le cose
più semplici. Notò con sollievo che non vi era più traccia dei cartelli e dei
manifesti che per anni avevano invaso la sua vista e la sua mente. Era felice
di vedere che, finalmente, tutto era finito.
Con la fine della guerra, tutto era tornato alla
normalità. O meglio, quasi tutto. La città recava ancora i segni della guerra.
Isabella sapeva che ci sarebbero voluti anni prima che fosse tornata come era
prima di tutta quella distruzione.
La ragazza camminò ininterrottamente per parecchi
minuti, poi alla fine raggiunse la sua destinazione. Il posto che rappresentava
tutto per lei, e che non vedeva ormai da tempo.
Il parco dove lei aveva conosciuto per la prima volta
Edward.
Aveva pensato sempre a lui, in quei tre lunghi anni.
Aveva continuato a sperare e a pregare per lui, perché lo amava ancora e perché
voleva rivederlo sano e salvo.
Non era riuscita a scoprire nulla su di lui e sulla
sua famiglia. Ad Auschwitz nessuno li conosceva e nessuno li aveva visti.
Sembrava che non fossero mai arrivati lì. Ma Isabella sapeva che quello dove si
trovava lei non era l’unico campo per ebrei, e che ce ne erano tanti altri
sparsi per l’Europa. Il suo era stato solo un piccolo e misero tentativo di
scoprire dove fosse la sua famiglia.
Isabella si avvicinò lentamente all’albero dove di
solito si fermava Edward ad aspettarla. Toccò con dita incerte la forte
corteccia e accarezzò il muschio che ci si era formato sopra. Le sembrava quasi
di sentire l’odore di Edward, in quel punto.
Avvicinò il viso all’albero e premette la fronte
contro la corteccia, immaginando che quello fosse il corpo forte e protettivo
del suo fidanzato, e immaginando di sentire le sue braccia avvolgerle la vita.
Poco lontano da dove si trovava Isabella, un ragazzo
osservava rapito quella scena. Osservava la giovane che se ne stava aggrappata
all’albero come se esso potesse rappresentare un appiglio di speranza.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli corti e
rossicci, pensando che per quel giorno avrebbe dovuto rimandare la sua solita tappa
all’albero.
Era una cosa che faceva sempre, da quando era tornato
ad Amsterdam. Rappresentava per lui il luogo in cui sperava, un giorno, di
rivedere la sua amata. Non sapeva nulla di lei, se fosse viva, se fosse in quella
città, o se fosse andata via, lontano da lui.
Sospirò e continuò a guardare la ragazza da lontano,
che era ancora aggrappata all’albero. Non riusciva a distogliere lo sguardo da
quella esile figura, sembrava così debole e piccola… un po’ le ricordava la sua
Bella.
Sembrava alta esattamente come lei, e anche il colore
dei capelli era simile. Solo la lunghezza era diversa. La sua Bella aveva i
capelli lunghi fino alla vita, mentre quella ragazza sconosciuta aveva i
capelli che le arrivavano alle spalle.
Mentre la contemplava, sentì un forte istinto crescere
dentro di sé, nato chissà da quale parte del suo corpo. Decise, così, di
assecondare quell’istinto.
Mosse qualche passo incerto verso la ragazza, ancora
immobile vicino all’albero. Ad ogni passo che effettuava, sentiva una
sensazione di benessere crescere nel suo petto, e non si seppe spiegare per
quale motivo quella sensazione era comparsa così all’improvviso.
Ad un certo punto Edward venne colpito da una folata
di aria fresca, che portò con sé l’odore più buono del mondo. Lo aveva sentito
parecchie volte durante la sua vita, e apparteneva alla persona più importante
che potesse esistere per lui.
Edward fermò il suo cammino, colpito da quella
scoperta. Guardò di nuovo la ragazza e una gioia immensa prese vita nel suo
cuore. E se fosse proprio lei, la sua Bella? Se dopo tanto tempo, finalmente,
l’avesse ritrovata?
Si mosse velocemente fino ad arrivare a pochi metri
dalla giovane, che non si era accorta di quella presenza alle sue spalle.
Continuava a guardare di fronte a sé, persa nei suoi ricordi.
Isabella, all’improvviso, sentì qualcuno sussurrare il
suo nome.
“Bella…”
Alzò lo sguardo, con il cuore che batteva furioso nel
petto. Non era stato il suo nome a farla riscuotere dal torpore in cui era
sprofondata, ma la voce che lo aveva pronunciato. Erano anni che non ascoltava
quel suono, e mai le era sembrato così bello.
“Bella…”
Isabella sentì di nuovo la voce, stavolta però più
forte. E sembrava provenire proprio alle sue spalle, quella voce paradisiaca.
Si voltò lentamente, senza mai mollare la presa dalla
corteccia dell’albero, e fissò in volto la persona che la fissava
insistentemente. Le gambe le tremarono, quando vide di chi era quel volto.
Era Edward, il suo Edward.
Mai le era sembrato così bello come in quel momento.
Il viso era sempre lo stesso, anche se un po’ più magro e più maturo rispetto
all’ultima volta che lo aveva visto. Gli occhi, invece, erano sempre gli
stessi, brillanti a causa della gioia che era nata in lui vedendo di nuovo il
viso della sua amata.
Isabella si portò una mano sulla bocca, mentre sentiva
una lacrima scenderle lungo la guancia.
“Ti prego, dimmi che non sei un sogno” sussurrò, fissando
gli occhi verdi e profondi del ragazzo.
Edward le si avvicinò e prese la sua mano, posandola
poi sul suo petto e facendole ascoltare il battito del suo cuore. Quella era la
prova che lui esisteva davvero, e che era proprio lì di fronte a lei.
“Sono qui. E sono vero.”
Edward avvolse Isabella tra le sue braccia e la
strinse forte a sé, cullandola e cercando di calmare i singhiozzi che le
scuotevano il petto. Non poteva credere di trovarsi di nuovo lì, a stringere il
corpo di Bella e a poter respirare di nuovo il suo profumo. Non poté impedire
alle lacrime di uscire dai suoi occhi, cadendo poi sui morbidi capelli della
ragazza.
“Ho aspettato tanto questo momento” disse emozionato,
accarezzando il viso piccolo di Isabella e notando solo in quel momento quanto
fosse diverso da quello che ricordava. Era così magro adesso, e pallido. Notò
anche la cicatrice che le attraversava il mento.
“Che ti è successo Bella?” chiese preoccupato.
Isabella non rispose, si limitò ad alzare la manica
del vestito che indossava, mostrando così i piccoli numeri che, indelebili, le
deturpavano la candida pelle. Quei numeri che, per due lunghi anni, avevano
rappresentato la sua identità.
“C-ci hanno presi” bisbigliò tra le lacrime, mentre
Edward prendeva tra le sue mani tremanti il piccolo braccio di Isabella e lo
osservava. “La notte dopo di voi… è s-stato orribile, orribile… tutte quelle
persone…”
Isabella non riuscì a continuare, perché parlare
dell’accaduto voleva dire ricordare, e lei era stanca di ricordare. Voleva
dimenticare tutto quell’orrore, ma non era possibile farlo. Non si poteva
cancellare tutto quello che aveva visto e vissuto…
Edward guardò Isabella dritto negli occhi,
accarezzandole poi il viso magro e provato dalla sofferenza.
“Non ci hanno preso… non lo hanno mai fatto” le disse
svelando così il segreto che, per tre lunghi anni, aveva tenuto dentro di sé.
“Abbiamo trovato un nascondiglio in campagna, da una amica di papà. Nessuno ci
avrebbe mai trovato lì.”
Isabella lo guardò confusa. “M-ma mi avevano detto…”
“Lo so, Bella. Sono stato io a dire alla signora
Newton quelle parole che, poi, lei avrebbe riferito a te. Io volevo portarti
con me, volevo che anche tu e la tua famiglia veniste con noi… ma non potevamo.
Non ho fatto altro che pensare a te, in questi anni… sempre. Ho sempre sperato
di rivederti un giorno, e finalmente quel giorno è arrivato…”
Isabella scosse la testa, colpita da quelle parole, e
si buttò di nuovo tra le braccia di Edward. Si strinse forte contro il suo
petto e affondò le mani nel tessuto della sua camicia. Sentì le labbra del
ragazzo posarsi tra i suoi capelli e sospirò, prima di scoppiare di nuovo in
lacrime.
“Va tutto bene amore. Siamo di nuovo qui, io e te, e
giuro su Dio che non ti lascerò mai più…” sussurrò Edward accarezzando
lentamente la schiena di Isabella nel tentativo di calmare il suo pianto.
E da quel giorno, davvero, non si lasciarono più.
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Se state leggendo queste righe, vuol dire che avete
letto la storia… e per questo vi ringrazio.
È la prima volta che tratto un argomento del genere,
forse uno dei più drammatici della storia, e spero di non aver scritto cavolate…
Questa OS si è classificata terza al contest “A spasso
nel tempo” di Twilight Fanfic Contest ed è stata una sorpresa per me, anche perché
era la prima volta che partecipavo ad un contest e non mi sarei mai immaginata
di arrivare tra le vincitrici!^^
Ringrazio tutti coloro che leggeranno la OS e anche
chi lascerà una recensione… davvero, grazie!!!
KrisCullen