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Autore: alexluna    04/04/2011    29 recensioni
Passano cinque anni dalla morte del Lord Oscuro e il Trio dei Miracoli sembra essersi sfasciato per sempre. Hanno preso strade diverse: Hermione accetta la cattedra di Difesa contro le Arti Oscure, Harry sta per diventare padre proprio quando scopre di non sentirsi felice e Ron cerca di recuperare un rapporto con la sua ex-fidanzata, ma la allontana sempre di più.
A destabilizzare una pace affrettata del dopoguerra, tra le mura di Hogwarts si aggiunge una serie di tremendi e strani "incidenti" che costringono il Ministero a spedire in tutta fretta una squadra di Auror per indagare. La Scuola di Magia e Stregoneria rischia di venire chiusa.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Harry Potter, Hermione Granger, Pansy Parkinson, Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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Non c’è due senza tre! Vorrei che fosse davvero l’ultima volta che cancello e ripubblico questa storia; anche perché me la porto dietro dall’ottobre 2007. Ringrazio le 129 persone che due anni fa mi seguirono e mi commentarono i primi cinque capitoli.

La storia è ambientata cinque anni dopo la Battaglia di Hogwarts (1998), quindi quelli della generazione di Harry Potter hanno ventitré anni. Il mio personale epilogo non coincide pienamente con quanto deciso dalla Rowling, e alcuni personaggi sono volutamente OOC – ma nei limiti del credibile, spero. La storia è momentaneamente a rating arancione - nel capitolo c'è un breve pezzo leggermente Lime.

Fine delle premesse: buona lettura.

Alexluna

 

 

A Ire, una editor eccellente nonché adorabile interlocutrice (e "graficatrice" del banner sotto)

A Matt, la mia prima fan (un tempo era così, almeno!)

A Marti/Juliet, che sa emozionarmi come pochi















 




La verità si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili!) nell’errore del mondo,

così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono
oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male.
 –Umberto Eco




Il tempo scivolava lungo i bordi di un continuo cambiamento, ma eventi sempre più inaspettati scandivano gli anni della Ripresa. E marciava in avanti, mentre alla memoria dei sopravvissuti aveva lasciato il fardello di buttare ogni tanto uno sguardo indietro.

Gli stessi ricordi in verità riaffioravano da soli, come ospiti estranei, come dormiveglia febbricitanti. Qualche resoconto frettoloso, una scrollata di spalle consolatoria e due sospiri melodrammatici erano sufficienti per scacciarli il prima possibile. Perché in verità nessuno aveva il coraggio di riprendere i propri ricordi uno per uno, rispettandone i tabù e senza ricamare troppo sui morti.

Tra i vivi, i più dovevano ancora confessare le proprie responsabilità, anziché addossarle agli altri.

Il tempo fondeva perdite e rivincite, scuotendo dal profondo chi aveva vissuto in prima persona il ritorno di Colui-che-non-doveva-essere-nominato, sia che fossero stati i carnefici, sia che fossero state le vittime. Eppure, quelli che avevano lustrato la bacchetta al Lord Oscuro appena prima che morisse avevano ora intrapreso strade massoniche.

La Leggenda del Mondo Magico, al contrario, aveva da qualche tempo perso il fulgore tipico degli eroi in battaglia. Purtroppo neanche le sedute dallo psicanalista lo aiutavano a uscire dalla condizione di paranoico.

L’immortale ricordo che Harry Potter aveva intessuto nella memoria dei maghi dalla notte del primo incontro con Voldemort, ventitré anni addietro, faceva a pugni con l’immagine dissoluta degli ultimi tempi.

Risaputo che grandi uomini – nel bene e nel male – siano rimasti sempre da soli… e talvolta non c’è stato peggior nemico del proprio ego. L'ombra gigante della sua anima stava inghiottendo tutte le qualità che l'avevano designato l'erede naturale di Godric Grifondoro. Aveva gettato al vento la propria tempra morale, il Bambino Sopravvissuto, per poter in cambio gozzovigliare nella mondanità. Blandito e lusingato, aveva finito per cedere a quelli che un tempo disprezzava come passatempi per rampolli Purosangue, mentre lentamente aveva aperto il proprio salotto alla magica Londra influente di quegli anni.

Aveva deciso di eliminare dalla sua vita qualsiasi persona o situazione che implicasse lo scontro, verbale o fisico o mentale, per non doversi più difendere.

In realtà si sentiva come un albero spiantato, con radici ormai troppo corte per poterle immergere in un altro terreno o in un'altra vita.



 


In un seminterrato a nord della capitale inglese c’era chi invece lottava tra la vita e la morte, con gli occhi ciechi e gli arti mutilati. Sapeva di aver meritato quella fine così barbara, ma negli ultimi mesi aveva davvero fatto di tutto per riscattare la propria anima. Eppure quando si contrae un debito troppo alto con la magia nera, sperare che tutto ritorni indietro solo tre volte è da idioti.

Sentì un laccio invisibile stringersi attorno alla propria gola e del sangue colare copioso dal naso. Divincolò le braccia monche nel vuoto. Non riusciva neppure a urlare. Il dolore era così forte da perdere i sensi. E poi, dopo quella che sembrò un'eternità insopportabile, il suo ultimo desiderio si esaudì.

Il corpo diventò incosciente prima che l’aguzzino decidesse di mortificarlo un'ultima volta.

E allora anche gli occhi furono cavati dalle orbite con la punta di una bacchetta. Nessuno, per molto ancora, avrebbe saputo quello che era accaduto quel pomeriggio.

Anche perché entrambi, vittima e carnefice, erano stati dimenticati sotto tre metri di terra e qualche fiore finto a mo’ di lapide.




 

Leigh Beck – Museo Nazionale degli Auror, 15 luglio.

Le note soffuse di un pianoforte erano disturbate dal chiacchiericcio seccante degli invitati all'esposizione delle Bacchette dei Caduti nel Secondo Ritorno.

Elfi con sopracciglia impomatate volteggiavano con disinvoltura tra gli ospiti, portando vassoi con coppe ricolme di mousse alla crema d’albicocca e gateaux alle meringhe di mandorla. Leccornie per palati raffinati erano innaffiate da prestigiosi vini e spumanti italiani.

Il Museo Nazionale degli Auror, quell’afosa sera di metà luglio, aveva aperto i battenti agli impiegati del Ministero della Magia londinese con le loro famiglie.

Dominic Krebs festeggiava così il secondo anniversario della nomina di Primo Ministro, esibendo una veste dalla tinta fredda e la foggia segnata. Il cappello a punta con lo stemma del Ministero pendeva un po’ troppo a sinistra, ma era tutta la sera che cercava di raddrizzarlo, invano.

Alto e ben piazzato di spalle, era considerato uno dei dieci maghi più potenti dell’intera nazione. Capelli neri e occhi di un magnetico nocciola incorniciavano un volto scarno dai lineamenti marcati. Al suo braccio nessuna moglie, fidanzata ufficiale o ufficiosa.

- Vorrei proporre un brindisi... – in quel momento, dall'altra parte della sala, Harry Potter stava sollevando in aria un flûte di cristallo, mentre discendeva il più assoluto silenzio.

L’orchestrina ne approfittò per una pausa fuori programma.

Dominic Krebs congedò con un sorriso forzato il Direttore del Dipartimento Veleni, che quella sera si portava appresso l’amante numero tre, una moretta tutta curve, fasciata in una tunica di satin blu cobalto.

Gli sguardi di tutti i presenti si posarono sul protagonista dell’evento, che per la prima volta nella serata aveva preso parola.

Il ventitreenne si sporgeva audace dal corrimano in marmo sfavillante, al centro di un grandioso scalone a forbice con tre rampe. Avvolto in un ampio mantello dai risvolti di pregiata seta, calamitava l’attenzione dei presenti con quegli occhi verde chiaro.

- ... a me, me stesso e me medesimo, – terminò poi sogghignando, prima di portare alle labbra il contenuto.

Al suo fianco, una pallidissima Ginny Weasley gli stringeva ferma l’avambraccio. Aveva l’aria spossata e i lineamenti marcati dal pesante trucco. La tonaca rosa spento le avvolgeva il corpo come una seconda pelle, i capelli ricadevano selvaggi sulla schiena e due pesanti ciondoli riverberavano tutta la luce del salone. Sembrava una fiamma guizzante che illuminava l’immensa sala.

Nessuno degli ospiti osava proferir parola, tutti incuriositi da quel bizzarro, ma non insolito, comportamento. Eppure come automi, imitarono unanimi il gesto del cincin. Avrebbero messo in mostra sorrisi molto credibili, se non fossero stati tutti così fottutamente uguali.

Delilah Krebs sbuffò senza preoccuparsi di portare un fazzoletto alle labbra; borbottò un uomini! nella direzione di Harry Potter, mentre porgeva un salatino alla donna accanto a lei. Una muta quanto indignata Hermione Granger, che osservava lo spettacolino col tipico cipiglio severo che tante volte aveva ammonito gli impudenti e gli arroganti.

Si era di nuovo ubriacato, il vecchio Harry. Ed era pure pronto per l’ennesima piazzata.

Mentre la figlia del Ministro le prendeva un altro flûte, incoraggiandola a sbronzarsi per spirito di solidarietà, Hermione non poté fare a meno di indurire i lineamenti.

Perché lui non aveva mai bevuto dacché ricordava. Il suo limite erano due Burrobirre dopo le partite di Quidditch. Se lo ricordava bene quando al matrimonio di Bill e Fleur, dopo qualche sorso di Whisky Incendiario, aveva cominciato a singhiozzare fino alle lacrime.

Con stizza prese delle tartine da un vassoio, fagocitandole in mezzo boccone. Non le importava neanche di gustarsi il sapore, perché la visione di Harry in quelle condizioni le provocava un dolore immane.

- Ti si è annodata la bacchetta? – la prese in giro Delilah.

- Non ho voglia di parlarne. Niente di personale, – la liquidò, strappandole dalle mani altri crostini appena presi. – E smettila di ingolfarti come una morta di fame. –

L’erede dei Krebs cominciava sempre più a divertirsi quando Harry Potter re-catalizzò le attenzioni. Alcuni lunghi fischi d’ammirazione percorsero la sala, mentre l’uomo baciava con passione le labbra tumide di Ginny. I ragazzi presenti lo guardavano con venerazione, mentre le donne avevano occhi trasognati. I mariti invece borbottarono qualche uccello moscio sotto i baffi.

Lui era il modello cui ispirarsi, il mago più sexy d'Europa secondo la rivista Spells.
Qualche anno addietro, pensò Hermione con sconforto, avrebbero potuto definirlo anche sano di mente, magari.
Leggermente barcollante e con il fiato corto, Harry stringeva con forza la spalla di Ginny evitando di scivolare dalle scale. La figlia del Primo Ministro finse di mettersi due dita in gola.

- Se non mi ridai le tartine, giuro che mi metto a vomitare davvero sopra il parrucchino di Lord Habigton, – indicò con un cenno del capo il povero mago in questione, che portava una veste marrone con ghirigori rosa elettrico.

- È un grande onore poter annunciare, – riprese la parola Harry, – che io e Ginny Weasley, tra sette mesi, non saremo più soli. Ah, le donne! Lo sapevo che alla fine mi avrebbero fregato. Giuro che è stata una sorpresa inaspettata quanto la vittoria della Spagna ai mondiali di Quidditch. –

E ci fu uno strappo silenzioso, che udì solo Hermione. Quello era il rumore del buon senso che si era rotto al suono di un simile annuncio. Gli occhi si dilatarono all’inverosimile. Cercò disperatamente il volto di Ginny seminascosto dalla folla.

Cos’era questa storia della maternità della sua migliore amica? Perché lei non ne era stata informata prima che Harry la sfruttasse come ennesimo evento mediatico?

Krebs junior buttò nel bicchiere l’oliva che le era andata di traverso mentre incassava la bomba.

Ed ecco che tutta la gente si riversava su di lui, il leggendario Harry Potter, nella speranza di poter abbracciare per un secondo il vecchio Prescelto, di avere l’onore di toccare il Bambino Sopravvissuto.

Le attenzioni per Ginny si circoscrissero a rapide strette di mani, il tempo necessario a farle comunque rischiare il soffocamento tra le spire di forti colonie. Ma a lei non parve dar fastidio, anzi, approfittò della confusione per allontanarsi indisturbata da Harry, come scottata.

Sperando di non rimanere travolta dalla folla impazzita, scomparve in cerca di qualcosa di assai forte da bere. E al diavolo la gravidanza.

I capelli alla Weasley si riconoscevano facilmente anche in mezzo a tutte quelle persone; non fu dunque difficile per Hermione raggiungerla. Stava pensando alle parole giuste. Quelle che avrebbero fatto più male perché, per Merlino, Ginny meritava di sentirsi in colpa. Dopotutto essere migliori amiche significava anche questo, condividere in anteprima quel certo tipo di notizie. Hermione ora si sentiva considerata alla stregua di una misera conoscente, come coloro che al momento erano lì, in quel salone.

- Mi dia del succo di zucca corretto, – supplicò Ginny al banchetto delle bevande.

- Tanti auguri, – sussurrò una voce distesa alle sue spalle.

La rossa si voltò imbarazzata. Ed eccola lì, una delusa Hermione Granger dallo sguardo stralunato, ferito.

- Ehi, – era stato tutto quello che riuscì purtroppo a dire. Ehi. Tanto valeva farle un buffetto, già che c’era.

In realtà voleva aggiungere: guardami, sono la peggiore amica del mondo. Ma se ora soffri, fidati che la mia sofferenza è dodicimila volte peggiore della tua.

Ginny alla fine portò semplicemente la testa all’indietro, affinché una gocciolina di pianto andasse a spegnersi tra le fiamme sfavillanti dei capelli.

- Se cerchi la smentita… beh, non posso dartela, – Brava Ginny. Fatti odiare anche da lei, che ti è rimasta a fianco nonostante l’apparente fine dell’amicizia con Harry. Si morse la lingua a sangue e poi cominciò a torturare l’interno delle guance. Doveva impedire che uscissero altre frasi a sproposito, perché a quello ci pensava già benissimo il proprio fidanzato.

- Perché non riesco più a stupirmi di nulla con voi due? – osservò scoraggiata Hermione. Mise definitivamente da parte i toni di accusa e desiderò tanto una risposta convincente a quella domanda retorica.
- Non odiarmi, – e lì la carreggiata delle frasi fatte era iniziata, – lo amo davvero. –

- Ti sei lasciata mettere incinta. Se non l’avessi amato sul serio, saresti stata un po’ troppo idiota, – ribatté piccata l’altra, osservando da capo a piedi Ginny come per accertarsi di qualche rigonfiamento nella zona fetale.

Ma fu un grande e mal nascosto livido all’altezza del collo a farla rabbrividire davvero.

- Ginny, che diavolo ti è successo? – esclamò con delicatezza avvicinando la mano all’ematoma. Lei si allontanò, distogliendo lo sguardo.

- Ho sbattuto contro l’anta della dispensa, – replicò troppo in fretta.

Gli occhi di Hermione sondarono con interesse il suo viso delicato. Si soffermarono sulle dita, che tamburellavano nervosamente sul bancone.

Perché le mentiva ancora? Perché non si fidava più di lei? L’avrebbe compresa e aiutata in ogni caso. Che cosa aveva fatto per essere esclusa dalla sua vita, lei che l’aveva sempre considerata una sorella mancata? La amava tantissimo. Era la persona che considerava più importante nella sua vita, subito dopo i suoi genitori. Giurare che le avrebbe sacrificato la vita era un po’ sminuire l’amore che nutriva per lei.

- Vedi di stare più attenta la prossima volta. Non scherzarci con queste cose. –

Voleva davvero mettere al mondo un figlio con Harry in quelle condizioni? Ora era arrivato anche a picchiarla? Da quanto? E perché mai? Ebbe paura a chiederle certe cose, e non tanto per le spiegazioni, ma perché temeva un non t’impicciare. Si sarebbe definitivamente sentita esclusa dalla sua vita. Si odiò un secondo dopo aver creduto a una simile ipotesi. Lui non le avrebbe mai torto anche solo un capello. Ultimamente aveva problemi con l’alcol, ma da qui ad alzare le mani sulla sua donna per di più incinta, no. Sotto quegli strati di paranoia e di ansia, il vecchio Harry non era ancora morto. Se solo si fosse lasciato aiutare da lei. Scacciò quelle riflessioni fastidiose, scuotendo la testa come se così potessero uscire meglio.

- Hai per caso visto mio fratello? – Ginny domandò, cambiando discorso e sparando la prima cosa che le fosse venuta in mente.

Un’altra e imperdonabile mossa errata, ma quando se ne accorse, Hermione le aveva già augurato ogni maledizione.
La gente continuava a chiederle dove fosse Ron, come stesse Ron, perché Ron si facesse crescere la barba, in che modo Ron avesse ottenuto un nuovo sponsor, perché Ron indossasse orrendi maglioni gialli. Lei era uscita dalla vita di Ron Weasley e tanti, tantissimi cari saluti!

Andavano con il lanternino a regalare cattiverie gratuite, e probabilmente ci provavano pure un sadico gusto nel vederla incespicare nelle spiegazioni. Non le venissero a dire che erano all’oscuro dello scandalo, perché per tre mesi non si era parlato d’altro.

- No, – rispose asciutta, – probabilmente sarà chiuso in bagno con qualche fan oppure sarà troppo occupato a specchiarsi nei ramaioli del ponce. –

Niente offese verbali in un discorso che lo riguardava direttamente, giusto? Forse tra qualche annetto avrebbe finalmente rispettato quel buon proposito.

Ginny non ebbe il coraggio di controbattere davanti alle osservazioni amare di Hermione.

Non perché fossero totalmente infondate, ma in quella voce risuonava il lamento di un cuore frantumato. E lei non si sarebbe messa più in mezzo a quella storia, l’aveva giurato a se stessa sei mesi prima. Come nei confronti di Harry, rispettava l’ostinato e il vile silenzio del fratello, così come incassava le offese e le accuse della migliore amica. Perché Ginny la considerava tale, anche se disgraziatamente dimostrava l’opposto.

Ron, il fedifrago. Ron, lo stronzo immondo.  

- Comunque l’ultima volta che l’ho sentito è stato tramite manager via gufo, per chiedermi se volevo prestare il mio volto facendo da ragazza immagine, – continuò recalcitrante Hermione, calcando le ultime parole, disgustata.

Senza avere il coraggio di incontrare quell’espressione di rimprovero di Ginny, preferì squadrare i lustrini delle sue scarpe.

- Ragazza immagine? Non capisco… – ripeté Ginny sbattendo spaesata le palpebre.

Possibile che suo fratello non avesse una coscienza in grado di farlo vergognare a vita per i propri sbagli?

Possibile che fosse diventato così disumano nei confronti di Hermione? D’accordo che voleva ritentare di aggiustare la situazione, ma così non faceva che perderla definitivamente.

- Esatto. Mi ha chiesto se volevo comparire in costume, su una scopa, nelle riviste di Quidditch, per sponsorizzare la sua misera squadra dei Bomboloni di Charlie, – precisò disgustata.

- I Cannoni di Chudley? Perché non hai accettato? – domandò con impeto Ginny, afferrandole le mani. – Non eri alla ricerca disperata di un lavoro? –

Effettivamente, a due settimane da un’imminente notifica di sfratto non era il caso di fare la preziosa. Rischiava di finire sotto un ponte e lei non solo si licenziava dall’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche (la campagna del C.R.E.P.A. non stava andando troppo bene), ma gettava anche all’aria un’ottima possibilità di guadagno.

- Ginny, ti ho spiegato più volte come la penso. –

- Sì, sì, – annuì poco convinta l’altra, – è una questione di orgoglio rifiutare un lavoro del genere. Mostrarsi bella e aumentare la propria fama nelle pubblicità in cambio di lauti compensi, – recitò a memoria. – Certo, scommetto che la penserai ancora così, quando arriverai alla fine del mese senza un galeone per comprarti una Burrobirra. –

- In realtà sarei stata vestita da enorme boccino d’oro. E poi, esatto: è una questione di dignità, – scandì Hermione punta nel vivo. – La fama è nociva, vedessi cosa accade a chi ne fa ingordigia. –

Con un cenno del capo, indicò malinconicamente Harry che provava a prendere in braccio nientemeno che Dominic Krebs, mentre Delilah se ne andava verso la terrazza fingendo di non conoscere nessuno dei due.

– Ho studiato anni, – continuò con le gote arrossate, – ho gettato sangue sui libri sperando di trovare un lavoro equamente retribuito. Basta guerra, non ho intenzione di fare l’Auror! Non ho neanche la più pallida idea di mettermi in posa per svitati… segaioli di Quidditch. Sì, sono volgare. A costo di essere sfrattata dal monolocale in cui abito e tornare a vivere con i miei, ti posso giurare sul mio orgoglio, perché sembra essermi rimasto solo questo, che non chiederò neppure un misero zellino a Ronald e combriccola. –

L’immagine da tenace testarda non ne usciva scalfita. Quell’infame di Ron aveva seriamente toccato il fondo invitandola a vendere la propria immagine.

Cosa più grave, c’era da chiedersi come una ragazza seria e concreta come lei si fosse potuta innamorare della persona più permalosa mai conosciuta. Anni di convivenza quasi forzata per le mura del castello di Hogwarts le avevano barbaramente scombussolato gli ormoni. Non c’era davvero altra spiegazione.

Malediva ogni istante della propria relazione fin dall’inizio agitata. Con Lavanda Brown che strepitava nei corridoi appellandola dentona. Quegli atteggiamenti da donna delle caverne avrebbero dovuto metterla in guardia, ma lei niente. Più cieca di uno Snaso appena nato.

- Sei troppo orgogliosa, – mormorò con rammarico Ginny.

No, era troppo ingenua su certe cose. Questa era la sua unica colpa.

Pensare che qualcuno potesse desiderarla non solo per avere i compiti perennemente serviti e riveriti in ogni momento. Ecco perché c’era rimasta veramente di sasso quel giorno di febbraio, quando Ronald le aveva confessato un imperdonabile errore.

Era come se qualcuno le avesse tirato la testa fuori da una bacinella d’acqua.

- Grifondoro è anche fede, –

Brava Hermione! Resta fedele ai tuoi ideali, e vedrai che rimarrai zitella fino alla tomba. Questo era quello che leggeva nel mezzo sorriso di Ginevra Weasley.

Sempre meglio zitella che cornuta, pensò poi, in un ultimo baluardo di fierezza.

Le spalle di Hermione si drizzarono con energia e negli occhi scintillò selvaggiamente un’ombra di vendetta.

- Un altro brindisi, per favore! – la voce di Harry vacillava vergognosamente.

Qualcuno doveva portarlo via, per il bene della comunità.

 

 



La porta del bagno di servizio sbatté con violenza. Gli sguardi maligni erano stati tagliati fuori. Una luce automatica illuminò gradualmente l’ambiente un po’ angusto. L’intenso odore di disinfettante impregnava l’aria e dava un leggero stordimento. Due amanti si sorrisero complici; subito dopo ripresero a baciarsi con foga crescente. Uno stesso pensiero si era fatto strada: era come se stessero compiendo qualcosa d’illegale. E terribilmente eccitante.

Le loro mani scorrevano frenetiche lungo la schiena dell’altro, si spingevano ardite sulle natiche e poi risalivano alla nuca. Le dita ogni tanto si sfioravano quando carezzavano le guance. I loro tocchi divenivano sempre più audaci e quelle lunghe vesti da cerimonia terribilmente ingombranti.

- Ehi, Ron, – gli ansimò la ragazza all’orecchio, – il colletto della tua tunica sta per fare una brutta fine. –

In un impeto di passionalità lo fece sbattere di schiena al muro. Ron, più basso di lei di un paio centimetri, si lasciò comandare con gli occhi chiusi e le labbra gonfie. Eppure se continuava così, sarebbe venuto di lì a poco. Cercando di rallentare il ritmo del piacere, le bloccò rapidamente le braccia. Dopo una piccola incertezza prese a confezionarle morsi sul lobo sinistro. Non tutte le donne gradiscono essere morse, e con lei aveva proprio azzardato. Il gemito che seguì gli confermò che non rientrava nella categoria.

- Fa’ piano, – lo redarguì poi. – Mi stacchi la pelle tra un po’. –

Conosceva Cameron quel tanto che bastava per saperne il nome, appunto, la professione e lo stato civile: single ovviamente. Ecco, la professione non la ricordava poi così bene, perché si era tenuta sul vago. Di sicuro lavorava al San Mungo e la mattina seguente avrebbe attaccato molto presto. Ah, e come ultima informazione: era sua fan sfegatata. Magari su un seno le avrebbe trovato il suo nome inscritto in un cuore.

Cameron diede cenno di essersi stufata di quei morsi, e si stava già tirando su la tunica quando Ron fu più solerte.

Sopra l’abito fece scivolare la bocca socchiusa, indugiando tra i seni e sull’ombelico. Quando percepì l’inizio delle gambe, titillò con la lingua la parte finale del ventre. Cameron serrò le labbra e lasciò la testa all’indietro. Ridacchiarono entrambi quando nel farlo, il cranio andò a sbatterle contro uno scaffale ricolmo di detersivi. Si portò una mano sul capo dolorante mentre la risata diveniva più forte.

Ron riprese a scendere, stavolta senza smettere di guardarla negli occhi. Cameron si rifece improvvisamente seria quando i bordi della propria tunica si sollevarono fino a lasciarle completamente nude le gambe. Due mani forti e ruvide le cinsero il bacino e scostarono l’orlo della biancheria. Labbra umide cominciarono a saggiarle l’interno coscia.

O voleva torturarla o aveva bisogno di un incentivo, pensò Cameron dopo alcuni minuti, visto che la lingua continuava il saliscendi sulla gamba. Impaziente, acciuffò i capelli di Ron e lo accompagnò delicatamente verso il proprio sesso. Non ebbe il tempo sufficiente per beneficiare di quel gesto, che lui si era già scansato. Una volta per tutte, riuscì sfilarle la veste e spartanamente gettò via anche la propria.

Cameron gli circondò il collo e prese a baciarlo con rinnovato ardore. Eppure quando provava a solleticargli il collo, Ron non dava segni di cedimento. Le aveva messo con fermezza le mani attorno alla vita continuando imperturbabile ad approfondire baci famelici. Cameron tentò allora di appoggiare suadente i suoi seni morbidi al petto del ragazzo, ma lui rimaneva rigido, contratto. Sembrava interessato solo ad amoreggiare. Approfittando del recupero fiato, cominciò a lambirgli l’orecchio con la lingua. Ben presto le ultime difese di Ron caddero: infatti sciolse la presa dai suoi fianchi e con le mani corse a carezzarle la schiena.

Senza indugiare oltre, Cameron scese sull’erezione di Ron, ma lui fece un salto indietro. Farfugliò qualcosa di poco chiaro e raccattò immediatamente la tunica ai suoi piedi per coprirsi la zona pubica.

- Che diamine ti succ- – non riuscì a domandargli che fu interrotta.

- Si è spento, miseriaccia! – la interruppe con fare agitato. Le guance erano paonazze e gli occhi si spostavano a intermittenza dal pene coperto al volto sconvolto di Cameron.

Lo specchio davanti a lei non le restituiva proprio un’immagine splendida. Piangeva mascara e il rossetto era stato trascinato dai baci fino alle guance. Dulcis in fundo, i capelli più corti erano scappati dalle forcine e si erano come elettrizzati a raggiera dalla testa.

Davvero, ma davvero imbarazzante. Ron Weasley aveva fatto cilecca! Lei dal canto suo sapeva di non aver sbagliato niente, quindi l’unica motivazione valida era che…

- Sei gay? –

Ora lui la guardava tra il risentito e l’impacciato. Come glielo spiegava che non gli era mai capitato prima? Forse era stato il troppo alcol oppure la troppa fretta che Cameron aveva addosso. O forse ancora, l’intera circostanza. Lui aveva i suoi tempi, le sue abitudini. I suoi preliminari.

- Certo che no! – rispose immediatamente, infilandosi alla bell’e meglio la veste. – Devo essere semplicemente stanco. Sono dispiaciuto. Sono veramente dispiaciuto. –

Cameron continuava a guardarlo come se improvvisamente avesse davanti un’altra persona. Una di quelle che si preferirebbe non incontrare mai quando si è quasi nudi. Senza aspettare oltre, imitò i movimenti di Ron e si rivestì in fretta.

E in realtà, vedendolo così rosso e goffo, quel misto micidiale di risentimento e imbarazzo era scemato, lasciando il posto a una grande compassione. Si trattenne dal ridere sguaiatamente, perché altrimenti gli avrebbe ucciso l’orgoglio maschile definitivamente.

- Offrimi qualcosa da bere, va’, – disse Cameron infine, con tono fintamente sostenuto.

Ron stava per defilarsi con qualche scusa, ma lei assottigliò pericolosamente lo sguardo. Dopotutto non poteva negarsi dopo la pessima performance. E cosa ancora più importante, lui doveva assicurarsi che quanto accaduto poco prima restasse un segreto tra loro due e basta.

Quando uscirono dal bagno in visibile impaccio, furono soprattutto attenti a non sfiorarsi neanche per sbaglio.

 

 

 

 

Sentirsi sempre indorare la pillola era una mitragliata di rabbia in pieno petto.

Se Hermione avesse potuto, avrebbe tagliato volentieri i ponti con quel passato che tornava bastardamente a bussare a una porta che non riusciva a chiudere.

Senza neanche accorgersene si diresse verso la tribuna, dove poco prima si era tenuta un’asta.

Curioso come una giovane bruna saltellasse in punta dei piedi. Voleva riuscire a vedere una teca in particolare. Sul pannello informativo lampeggiava, in varie lingue, la frase: qui è esposta la bacchetta che uccise Voldemort.

- Secondo me è un falso, – affermò angelicamente, riconoscendo l’intenso profumo di mughetto della donna alle sue spalle.

- Dov’eri finita, Delilah? – domandò Hermione dandole un buffetto sulla testa.

Le arrivava a malapena alla spalla, ma aveva la grinta necessaria a far gonfiare di boria un Grifondoro.

Strano che fosse finita a Corvonero; se lo chiedevano i suoi stessi compagni di Casa.

- Un po’ qui, un po’ lì. Da nessuna parte, ovunque, – le sorrise specchiando i propri occhi in quelli grandi e marrone dell’amica. 

Un’ouverture di musiche celtiche apriva ufficialmente le danze. Quella era anche la notte di una ricorrenza speciale, che affondava le radici in un passato antichissimo. La notte più calda di luglio era illuminata dalle scie di fate che volavano nelle radure sperdute, sotto la luna rossa.

Hermione sorrise ripensando a quando Harry e Ron l’avevano portata a vedere quello spettacolo di luci ovattate e canti carezzevoli, sdraiati sulle radici di alberi silenti. Era stata la loro ultima vacanza insieme, dopo la battaglia di Hogwarts.

- Che ne dici di assistere alla pignatta? Lo so che detesti queste usanze straniere, ma ti giuro che quando è il turno di mio padre, c’è da farsela addosso. L’anno scorso ha lanciato stelle filanti sulla testa di Winfred Elder, facendogli spuntare una cascata di capelli da far invidia al vecchio Slash. –

- Non pensavo ti piacesse il rock Babbano. –

Hermione scansò via quei ricordi stupendi, e soprattutto cancellò dalla mente il sapore delle labbra di Ron dopo che gli aveva sussurrato di amarlo per sempre e un secondo.

- Oh no, infatti, – stava rispondendo Delilah, – ma ogni tanto per curiosità faccio le mie ricerche. –

Hermione comprese un terzo di ciò che diceva, ma una cosa era certa: la pignatta era una ricorrenza davvero troppo villica per un ambiente del genere. Anche per lei che era di larghissime vedute.

- Credo che mi ritirerò, invece. –

La delusione oscurò il viso ovale di Delilah, che mandò giù un po’ di pistacchi zuccherati.

Forse era stato meglio che si fosse allontanata, così non avrebbe assistito, una mezz’ora più tardi, all’empio spettacolo di Ron che usciva con i bottoni sulla schiena fuori dalle asole, in compagnia di una strega più alta di lui con due gote imporporate e i capelli spettinati.

Hermione le carezzò i capelli e poi si allontanò a passi lenti congedandosi educatamente agli ospiti che cercavano la sua compagnia.

- Vi prego… un altro brindisi in onore delle fate di Leigh Beck. –

Senza accorgersene Harry Potter stava urlando, tenendo in mano l’intera bottiglia di Whisky Incendiario, per la solita e raccapricciante scenata di fine serata. Prima di svoltare nel corridoio che portava all’uscita, Hermione si nascose dietro a una colonna. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Il brusio della sala scomparve dopo un po’ e nella mente si fece forte e nitida quella voce tanto cara. Il contenuto del discorso stava degenerando, ma a lei interessava solo il suono. Sorrise sentendogli sbagliare l’accento di alcuni cognomi. Continuava ad avere sempre lo stesso problema. Pensò che alla prima occasione gliel’avrebbe rinfacciato, ma appena un attimo dopo si ricordò che era quasi un anno che non si parlavano più.

Fece capolino nell’attimo esatto in cui Harry guardò nella direzione dove era nascosta. Ma fu appunto solo un attimo, perché poi le diede le spalle per salutare qualcuno. Sudò freddo e si chiese se per caso l’avesse vista. La sala era gremita e lui era troppo lontano, costatò in fretta.

Aveva già afferrato la Passaporta quando il sottosegretario del Ministro della Magia ruppe la pignatta in un coro di urla.

Una lava perlacea ricadde sul pavimento, e un istante dopo ecco che una quantità inverosimile di Mollicci si buttava a capofitto tra gli eleganti invitati, generando un caos indescrivibile.

Tavolate di cibo volarono con violenza contro le pareti e le teche delle bacchette custodite si frantumarono in un’esplosione di vetro. Molti invitati ruzzolarono per terra per evitare incantesimi o perché spinti, nella confusione.

Come se si fosse trovato davanti allo specchio, Harry Potter poté quasi percepire il sangue galoppargli pazzamente nelle vene e gli occhi sgranarsi.

Conobbe per l’ennesima volta la paura, ma stavolta non erano né Lord Voldemort né un Dissennatore.

Il Molliccio che l’aveva puntato si era trasformato nel suo più grande terrore: se stesso.





I fear who I am becoming,
I feel that I am losing the struggle within.
–Whithin Temptation

 

 

   
 
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