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Autore: alexluna    17/04/2011    14 recensioni
Passano cinque anni dalla morte del Lord Oscuro e il Trio dei Miracoli sembra essersi sfasciato per sempre. Hanno preso strade diverse: Hermione accetta la cattedra di Difesa contro le Arti Oscure, Harry sta per diventare padre proprio quando scopre di non sentirsi felice e Ron cerca di recuperare un rapporto con la sua ex-fidanzata, ma la allontana sempre di più.
A destabilizzare una pace affrettata del dopoguerra, tra le mura di Hogwarts si aggiunge una serie di tremendi e strani "incidenti" che costringono il Ministero a spedire in tutta fretta una squadra di Auror per indagare. La Scuola di Magia e Stregoneria rischia di venire chiusa.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Harry Potter, Hermione Granger, Pansy Parkinson, Un po' tutti
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
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Sempre un grazie speciale a Ire (che ama vivisezionare tutto) e a Matt (futura sceneggiatrice miliardaria).

Lau, ho mantenuto la promessa?


 

 

 

 

 

 

 

Nuove prospettive

 

Sostenere che il successo duraturo di un uomo dipenda dalla fama che hanno avuto i suoi progenitori è errato.

Non accusiamo la purezza del sangue o il peso del cognome se non ragioniamo o agiamo come si conviene, perché la colpa non è che nostra.

La disposizione di un animo nobile non ha niente a che vedere con le origini, altrimenti da Harry Potter ci saremmo aspettati eterno e umile splendore.

Del nostro Eroe non è rimasto che lo spettro. Durante gli eventi mondani s’improvvisa poeta, declamando versi licenziosi sotto gli effetti del Whiskey Incendiario. Il teatrino non fa che ripetersi, fino al colpo di scena di ieri sera con il Molliccio. (Approfondimento pagg. 2/3/6)

I maghi e le streghe inglesi hanno bisogno di guardare avanti. Dopo cinque anni passati a ricordare, oggi è tempo di ricostruire. Per iniziare, Harry Potter dovrebbe dimettersi da Auror; i suoi disdicevoli show rovinano la credibilità del Ministero della Magia.

Ognuno di noi deve tornare a brillare di luce propria e non del riflesso offuscato di qualcun altro. Riprendiamo in mano i nostri poteri.

 

A. Greengrass – “La Gazzetta del Profeta”, 16 luglio 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MUTAFORMA ATTACCA HARRY POTTER

 

IERI, Museo Nazionale degli Auror. Durante l’esposizione delle Bacchette dei Caduti nel Secondo Ritorno, si è verificato un autentico complotto ai danni dell’immagine pubblica di Harry Potter, 23 anni.

Infatti, secondo l’esimio Magizoologo Rolf Scamandro, 29 anni:

<< Non era un Molliccio, ma un rarissimo esemplare di Mutaforma. […] Di sicuro al Mercato Nero queste creature oscure non mancano, ma secondo le mie recenti indagini, quello di ieri era spurio. >>

L. L.: << Può spiegare meglio ai nostri lettori cosa intende per “Mutaforma spurio”? >>

R. S.: << È un essere che si auto-genera vicino a un’immensa quanto agghiacciante matrice di magia nera. […] Quando si trova allo stato Zero non è che un ammasso limaccioso, poi appena si scontra con una fonte di magia oscura, ne assume la Forma. >>

Gli studi di Rolf Scamandro sui Mutaforma spuri sono ancora sperimentali. Dalle parole del Magizoologo si evince che Harry Potter possa benissimo essere la causa delle creature come non esserlo.

L’ipotesi più accredita è che sia stato un gruppo di Asticelli ribelli ad aver originato tale fonte di magia nera. Come sappiamo, per costruire le nostre bacchette abbattiamo il loro habitat naturale, […]

 

Intervista di Luna Lovegood per “Il Cavillo”, 16/07/2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Studio privato della dott.ssa Psyche W. Ephrain – Psicomaga, High Wycombe.

Il ticchettio molesto di un vecchio orologio a pendolo batteva da poco le tre del pomeriggio. La seduta era terminata, ma Harry Potter era rimasto sdraiato sul triclinio in pelle nera. Era un ottimo espediente per defluire l’ansia che lo attanagliava da quasi venti ore, durante le quali erano stati inutili i tentativi di mangiare o dormire.

La sua peggiore paura era se stesso.

Dunque era arrivato a detestarsi. Se si fosse concentrato di più, avrebbe quasi sentito quella tremenda verità con la voce di Hermione. Ma perché mai? Dopotutto era felice: stava per costruirsi una famiglia con Ginny.

Non poteva permettersi tentennamenti, anche per Teddy Lupin, il suo adorato figlioccio. E poi c’era il lavoro che tanto amava; era finito pure nella squadra del vecchio amico Kingsley Shacklebolt, più entusiasta che mai dopo aver momentaneamente rifiutato la carica di Ministro della Magia.

Per Harry non era la sua vita a essere incompleta; aveva pur sempre ventitré anni, avrebbe avuto tempo sufficiente per riempirla ancora e ancora. Ciononostante, era lui a non sentirsi in pace.

Dopo la vittoria, cene, feste ed eventi mondani erano presto diventati ottime occasioni per distrarsi in chiacchiericci. Era stato proprio frequentando quegli ambienti che aveva involontariamente incominciato ad alzare il gomito. Non era il sapore dell’alcol a soddisfarlo, quanto la leggerezza dei pensieri in grado di scacciare la sua paranoia.

Harry si sentiva in qualche modo giustificato a bere un bicchierino di troppo, e Ginny non aveva mai aperto bocca a riguardo. In realtà, nessuno aveva mai osato fargli notare che forse ci stava andando troppo pesante: non avrebbe sentito ragioni, in ogni caso.

L’unica che aveva provato, con molta delicatezza, era stata Hermione.

 

La pozione Rigenerante offertagli dalla Psicomaga incominciò finalmente a entrare in circolo. Eppure, ora che Hermione era stata rievocata alla mente, rabbia e dolore si aggrapparono al cuore di Harry. Lui l’aveva accusata di cospirargli contro, di sbarrargli la strada. Non avrebbe potuto sapere cosa lo tormentasse già da allora: quella maledetta sensazione di non essere mai sufficientemente abbastanza, neanche per fingersi spensierato.

 

 

Dopo la Battaglia Finale, Hermione era volata a Hogwarts per ultimare gli studi: quell’anno si erano visti solo per le vacanze di Natale. Non avevano mai passato tanto tempo senza vedersi da quando erano diventati amici. Poi, tra lavoro e corsi d’aggiornamento, anche in seguito le occasioni per ritrovarsi erano diventate sempre più rare.

Le loro lettere avevano cominciato a farsi strane, insofferenti. Avevano litigato spesso per incomprensioni ed erano rimasti delusi dall’errata interpretazione che avevano dato alle parole che leggevano. Avevano preteso di saziare la loro amicizia, la fiducia e la reciproca devozione in quei rotoli di pergamena; e così, di tacito accordo, la corrispondenza era diventata solo una cronaca apparentemente tranquilla della loro settimana. Agli occhi dell’altro continuavano ad apparire sereni e felici.

Per questo motivo quando erano riusciti a incontrarsi a stento si erano riconosciuti. Avevano fatto fatica ad associare il volto che si erano ritrovati davanti, segnato da una silenziosa sofferenza, a quello ideale che si erano fatti leggendo le missive. Ma avevano fatto finta di niente, seguendo la china della facilità.

Questo era stato un vero delitto commesso a discapito della loro amicizia. Si stavano perdendo a poco a poco. Solo che Harry in cuor suo l’aveva preventivato già da molto tempo, Hermione no.

Proprio lei, pungolata dalla costernazione per aver trovato l’anima di Harry contaminata da comportamenti che proprio non sopportava, gli aveva azzardato una critica.

- Harry, devi risalire in qualche modo, – lo aveva supplicato, quando erano rimasti soli dopo una cena alla Tana. Aveva appena finito di abbracciarlo con quel suo modo materno e un po’ possessivo.

A tavola, Harry non aveva che rievocato osceni aspetti della guerra, come per farsi compatire a tutti i costi. Non era mai successo prima con i Weasley, che cinque anni prima avevano perso quanto lui. Molly Weasley per poco non era scoppiata in lacrime al nome di Fred.

– Ti vedo sofferente e mi preoccupo. C’è qualcosa di cui vorresti parlarmi? Non so, magari il nuovo lavoro… oppure la tua relazione con Ginny, – aveva ripreso massaggiandogli il palmo della mano, che al suono di quelle parole si era richiusa di scatto intrappolandole le dita. L’aveva guardato un po’ confusa, ma era rimasta immobile.

Harry aveva reclinato leggermente capo, dando segno di nervosismo con la speranza che Hermione capisse che lui non aveva voglia di proseguire quella conversazione. Ma la sua migliore amica non era di certo una che lasciava un argomento così delicato a metà.

Solo quando le aveva liberato le dita, si era reso conto di avergliele strette con troppa forza: si erano arrossate. Aveva bofonchiato delle scuse e aveva fatto per andarsene, ma Hermione aveva ricominciato come un fiume in piena:

- Non è normale che te ne esca con frasi sconsiderate davanti ad Andromeda Tonks, – il tono di voce era dimesso, quasi si vergognasse a stoccargli un rimprovero del genere. – È normale che poi sia restia a lasciarti il nipote, e questo non va bene. Teddy ha bisogno di te. Ma se ti ritrovi in questo stato… –

Harry si era ritratto furente, strabuzzando gli occhi per l’incredulità. Aveva scandagliato attentamente la migliore amica da capo a piedi, come convinto che non fosse realmente lei.

- Non credi di esagerare, Hermione? Vuoi sempre vedere mille problematiche anche dove non ci sono. Io non sono in nessuno stato, – l’aveva aggredita puntandole un dito contro. L’ultima frase poi era stata scandita con maggiore enfasi, in modo che non si potesse equivocare nessuna parola. – Andromeda non ha ancora accettato la morte di Tonks, ha il terrore che pure Teddy possa svanirgli tra le mani da un momento all’altro; ma lo sta opprimendo a forza di tenerlo segregato in casa. –

- È semplicemente una nonna possessiva, Harry, – aveva ripreso Hermione. – Questo non ti dà comunque il diritto di mortificarla in casa sua. Così facendo non l’aiuti a mollare la presa su Teddy. Lo so che ti rivedi molto in lui. Ma Andromeda Tonks non è tua zia Petunia né Vernon Dursley. –

L’insofferenza aveva punto talmente tanto Harry da costringerlo a torturarsi le maniche del mantello. – Non è di me che si sta parlando! Non sono così egocentrico! – aveva esclamato in propria difesa. – Teddy non può vivere con una donna del genere: lo cresce proprio come un bambino senza genitori. Ha quasi quattro anni e non spiccica che poche parole. –

Era così sensibile sull’argomento che aveva messo in bocca a Hermione accuse mai dette. Lei gli aveva afferrato una spalla costringendolo a girarsi per guardarla in faccia, visto che aveva già fatto dietrofront per andarsene:

- Diamine, Harry! E tu pensi di sapere come si fa il padre, invece? Con te crescerebbe meglio? Ti ammazzi di lavoro e quando hai del tempo libero ami circondarti di maghi ottusi e adulatori. Credevo detestassi persone del genere! –

Per quanto addolorata e prostrata, Hermione aveva dovuto rinfacciargli quella situazione. Le guance del suo migliore amico erano diventate rosse per lo sforzo di trattenersi forse dall’insultarla. Poche volte lo aveva visto così arrabbiato.

Gli aveva lasciato subito la spalla e aveva abbandonato le proprie braccia lungo il corpo. Quando Harry aveva aperto la bocca per controbattere, era stata sicura che quelle parole l’avrebbero ferita più di un Cruciatus e allora, istintivamente, aveva trattenuto il fiato sperando che poi si sarebbe rimangiato tutto in fretta. Ma non era andata così, purtroppo.

- Sinceramente? Detesto più le persone come te che non fanno che bacchettarmi. Ti senti sempre l’unica che capisce cosa è giusto e cosa no, vero? Ma sai che c’è? Se non sono abbastanza irreprensibile per i tuoi morbosi criteri: pace. Sto bene lo stesso. Sto bene anche senza i tuoi rimproveri e i tuoi stramaledetti consigli, Hermione! – aveva terminato quella sfuriata in affanno, poi era rimasto a guardarla. Sembrava preso da una follia improvvisa.

Le membra di Hermione erano state colte da un abbattimento infinito. Il suo cuore era stato ferito, ma la mente aveva continuato a lavorare frenetica: si stava appropriando con lucidità infallibile di quell’agghiacciante conversazione. Si era ripromessa che nulla le avrebbe portato via quel ricordo negli anni a venire. Sarebbe stato un monito, le avrebbe rammentato fino a che punto Harry fosse arrivato.

Hermione aveva taciuto ancora un poco e aspettato che il rumore di una vettura si fosse sciupato in lontananza. – Sei un’enorme delusione. –

Qualche anno prima sarebbe scoppiata in lacrime, ma in quell’occasione si era dimostrata più forte di quanto Harry e lei stessa avevano pensato possibile. Gli angoli della bocca si erano stirati leggermente verso l’alto con l’intenzione di abbozzare un sorriso, poi aveva ruotato una mano nell’aria, a metà tra un saluto e un gesto di noncuranza, e si era Smaterializzata.

Sempre qualche anno prima, Harry si sarebbe morso la lingua a sangue e avrebbe guardato con dolore la schiena di Hermione che si allontanava sussultando per un pianto silenzioso. In quella circostanza era stato il proprio corpo a essere scosso da piccoli sobbalzi, eppure le lacrime non erano riuscite a scendere. Giusto una era scappata, ma gli era rimasta intrappolata tra le lunghe ciglia nere.

 

 

- Signor Potter, – la voce profonda della dottoressa Ephrain riscosse Harry dai suoi spiacevoli ricordi, – si sente meglio? Deve fare quanto accordato o dovrò congedarla per un po’. –

La Psicomaga designata dal Dipartimento Auror aveva appena finito di scartabellare un quadernino e in quel momento cercava di nascondere la propria preoccupazione guardando gli occhi umidi del paziente.

- Farò il possibile, – assicurò Harry, rimanendo sempre sdraiato e nascondendosi la faccia tra le mani per asciugare di nascosto il proprio dolore.

- No, signor Potter. Dovrà fare di più per evitare l’allontanamento dal Ministero, – lo ammonì seriamente la dottoressa Ephrain raccattando piuma e calamaio e andandosene.

 

Sentendo il vociare indistinto di due o più persone, Harry comprese con sconforto che qualcuno della squadra dovesse essere rimasto ad attendere la fine del colloquio.

- La dottoressa è stata chiara al riguardo. Meglio che gli effetti della pozione siano entrati in circolo prima che lasci lo studio. Ora, se vuole aspettare, – aveva detto la segretaria della Psicomaga.

- Dovrò disattendere gli ordini. Io e il signor Potter siamo stati convocati dal nostro superiore. Massima priorità, lei capisce. –

Harry riconobbe subito quella voce fremente: aveva imparato a detestarla ancor prima di presentarsi, gli era impossibile dimenticarla.

Qualche secondo più tardi l’uomo, che aveva liquidato l’assistente, s’intrufolò nella stanza di Harry, sigillandone la porta.

- Potter, – lo apostrofò raggiungendolo a passi veloci. Rimase in piedi e sul volto un’espressione indecifrabile. Soffiò tra i denti e aprì bocca come se stesse per dire qualcosa di davvero indecente, ma all’ultimo preferì non aggiungere altro. Eppure, qualcosa suggeriva a Harry che solo un grande autocontrollo stesse impedendo al suo collega Draco Malfoy di arpionargli il colletto della camicia e scuoterlo con ira fino a rompergli l’osso del collo.

Dopo un silenzio imbarazzante, Malfoy tirò fuori apparentemente dal nulla un brandello di pergamena e recitò con voce spazientita: – Messaggio della squadra: evita di farci vedere gli Ippogrifi blu. Romilda Vane aggiunge con affetto: sono disposta ad avvelenarti il tuo schifosissimo pudding. –

Poi Draco Malfoy restò nuovamente in attesa, avviluppato nel mantello blu pervinca da Auror. Lanciò un’occhiata svogliata all’orologio da taschino prima di cominciare a far roteare tra le dita l’antico bastone di famiglia, in cui custodiva la bacchetta. La sua consueta impazienza era palpabile, sapeva farla percepire benissimo pur senza parlare.

Con Harry in particolare sembrava avere assunto quell’atteggiamento: pochissime parole, se non monosillabi e solo se necessario. Per il resto, modi di fare ed espressioni del viso erano più che eloquenti.

A lui d’altra parte andava benissimo così. Non si era illuso che con Draco Malfoy sarebbe mai nata un’amicizia, benché fossero colleghi. Dopotutto in più di un’occasione avevano provato a uccidersi reciprocamente; anzi, il loro rapporto si sarebbe concluso in tragedia, se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Piton, al sesto anno.

In ogni caso l’intera famiglia Malfoy si era più o meno riscattata nei confronti di Harry e della comunità magica qualche ora prima che Voldemort morisse. Motivo per cui, dopo la Battaglia di Hogwarts, nessun membro dei Malfoy era stato processato: sulla carta risultava come pentito.

Harry si portò una mano alle tempie, iniziando a massaggiarle. Quasi sicuramente le parole di Draco Malfoy l’avrebbero innervosito ulteriormente, quindi gli fu grato per il silenzio.

- Metropolvere? – azzardò pulendosi gli occhiali che non ne avevano per niente bisogno. Viaggiare con la Passaporta o la Smaterializzazione gli avrebbe rimesso sottosopra lo stomaco.

Senza che ebbe il tempo di accorgersene, si trovò una bacchetta quasi infilata nella narice.

- Non so cosa mi trattenga dal fracassarti questi occhialini di merda che porti da quando eri uno spermatozoo, ma ti avviso: risolvi i tuoi problemi mentali, – Draco Malfoy gli si era avvicinato a un palmo di naso, minacciandolo tra i denti. Era maledettamente serio e la vena sulla tempia si era ingrossata. Da come impugnava la bacchetta, avrebbe volentieri venduto un parente pur di potergli sferrare un pugno.

– Abbiamo una Passaporta speciale che parte tra dodici minuti. Sbrigati, – soggiunse sprezzante come se nulla fosse stato, mentre tornava col busto eretto.

- Sapevo che non ti saresti trattenuto dal commentare, – sospirò Harry alzandosi dal divanetto e aggiustandosi la mantella. Lanciò uno sguardo attorno alla stanza per controllare che non avesse poggiato nulla da qualche parte. – Non ti nego che mi diverte terribilmente vederti così sostenuto nei miei confronti, Malfoy. Lo percepisco dai tuoi muscoli tesi che vorresti picchiarmi. Dunque, questa farsa di deferenza durerà a lungo? –

Harry andò verso il camino per prendere la scopa con cui era volato fino allo studio della dottoressa Ephrain. La coda della Firebolt Deluxe vibrò impercettibilmente, il manico era scattato tra le mani del proprietario non appena queste si stesero nella sua direzione.

- La pozione che ti ha dato la Psicomaga era evidentemente scaduta. Be’, hai letto i giornali? – tagliò corto Draco Malfoy. In quel momento sembrò improvvisamente divertito. Gli regalò pure un sorriso sardonico, mentre si spostava verso la finestra.

Fuori dallo studio, un cielo in cenere li aspettava. In alto una torma di corvi gracchiava quasi stesse piangendo.

- Ammetto che Lunatica Lovegood se ne inventa una più di Morgana per difenderti. Mutaforma spuri? Patetico, – Draco continuò, lasciandosi sprofondare nella poltrona della dottoressa Ephrain, sotto il finestrone centrale dello studio.

- Mi spaventa di più la tua amica Astoria, che a vent’anni vuole passare come una strega bigotta di cinquanta, – controbatté Harry, appoggiandosi sul bracciolo del triclinio. Si picchettò la cicatrice con le dita, come se improvvisamente si fosse ricordato una cosa molto importante. – Ah, encomiabile il pezzo sulla purezza del sangue! Un po’ incoerente per una ex Serperverde. E peccato che non c’entrasse un cazzo. Diciamo che se l’era scritto da qualche tempo e voleva usarlo a tutti i costi per un articolo importante. – Alzò torvo le sopracciglia e raccolse da terra la copia della Gazzetta del Profeta che stava leggendo poco prima di iniziare la seduta.

- Ti ascolti? Sarebbe importante perché si parla di te? – lo accusò prontamente Draco Malfoy, stupendosi di quanto fosse tronfio l’ego di Harry Potter. – Comunque chiariamo che: primo si chiama A-ste-ria e secondo non siamo amici. Ah, e terzo: è estremamente bigotta. –

Harry lo guardò con l’espressione fa’ un po’ come ti pare prima di rituffarsi nella lettura del Cavillo, questa volta.

- Che schifo di tempo, – si lagnò poco dopo Draco, buttando l’occhio alla pioggia che iniziava a scendere. Malfoy era solito aprire bocca per lamentarsi, ma stavolta Harry dovette dargli ragione.

 


 

 

 

 

 

 


 


Palazzo notarile della F. Darrig, Londra.

Pure a Brixton, nel cuore della capitale, il sole era tenuto in ostaggio da una spessa coltre di nuvoloni. Di lì a poco sarebbe scesa la pioggia, e chi era per strada affrettava il passo. Anche Pansy Parkinson si mise preventivamente il cappuccio del mantello sulla testa.

La via deserta costeggiava prefabbricati in rovina e un deposito pieno di ferrame rubato o abbandonato, in attesa che qualcuno andasse a rivendicare qualche pezzo indenne. Quel cielo plumbeo rendeva ancor più tetro il malfamato distretto londinese: Brixton era una sfasciacarrozze abusiva, che di giorno si popolava di ladri e di notte di spacciatori e vampiri.

Svoltò all’angolo e imboccò una strada costeggiata da bassi rovi. Poi passò per un capannone, tagliato in due dalle rotaie della ferrovia, senza smettere un secondo di guardarsi furtivamente alle spalle.

Non era certo un comportamento degno di una Parkinson, ma da quando suo padre era stato trovato impiccato nel loro maniero, Pansy aveva capito che i tempi patinati dell’adolescenza erano terminati. Bruscamente, ma erano terminati. Quel giorno era diretta a un appuntamento con i notai Goblin per discutere della bancarotta ormai alle porte.

La sensazione di essere seguita la stava facendo uscire di matto. Impugnò più saldamente la bacchetta nella tasca del mantello mentre s’infiltrava in un vicolo cieco. Diede due colpetti al muro di mattoni davanti a lei, e si allargò dal nulla un varco sufficientemente grande per farla passare. Non fu la caotica Diagon Alley a materializzarsi, ma una dissestata scala che s’inerpicava fino al palazzo notarile della Far Darrig.

In lontananza sopraggiungevano grida di piccoli e mostruosi Goblin, che scorrazzavano liberi nel parchetto in mezzo alle sterpaglie. Mentre li superava, le venne in mente quando dalla finestra della propria villa intravedeva i figli dei soci del padre rincorrersi per le immense distese di viole. S’indignava a vederli calpestare quei fiori da cui lei prendeva orgogliosamente il nome.

A Pansy non era mai stato permesso correre, perché non si addiceva alle bimbe Purosangue sbucciarsi le ginocchia o sporcarsi le scarpette di velluto.

 

 

Il pomeriggio moriva assai velocemente. Il parco pieno di sterpaglie era tornato deserto e dalla finestra della Darrig sembrava ancora più tetro. Ma Pansy Parkinson ormai non ci faceva più caso, impegnata com’era a urlare contro i propri notai Goblin.

- Arrogante massa d’inetti! –
Cercando qualcosa da distruggere, rovesciò il servizio di porcellana collocato sul tavolino davanti.

Il canuto Far Darring osservò con una smorfia la teiera, costata quasi un occhio di Drago, frantumarsi seccamente sulla pavimentazione.

- Signorina Parkinson, questa non è la vostra villa, – le ricordò il Goblin, notaio di famiglia da oltre quarant’anni.

- L’avevo notato, – ribatté prontamente Pansy fulminandolo con lo sguardo, prima di concentrarsi nell’inserire una sigaretta nel lungo bocchino antracite. Cominciò a fumare con ardore, dando le spalle ai presenti e fissando un punto impreciso sulla parete davanti.

Bran Vanastah, il socio di Far Darring, si passò una mano sulle guance lanuginose, calibrando mentalmente come presentarle la successiva cattiva notizia.

- La Gringott vi ha sigillato il conto. Siete in debito di oltre duemila galeoni: non so se vi rendete conto della gravità della situazione, signorina Parkinson. –

Pansy si voltò spiritata, frenandosi dal pugnalarlo con il bocchino proprio in mezzo agli occhi. Ci mancavano pure quegli altri taccagni dei Goblin a starle col fiato sul collo.

- Venderò il Blinde Cove e tutti gli appezzamenti di terra in Scozia –. Non si rese conto che la cenere della sigaretta le stesse sporcando la punta degli stivali, perché aveva in testa un solo, pregnante dilemma: chi Schiantare per primo tra quei due Goblin deficienti.

- Sono proprietà dei vostri nonni, non ne avete la potestà, – spiegò Far Darring, ipocritamente mellifluo. – In realtà non siete neanche più la locatrice. –

Quella verità fece più male di uno schiaffo. Per Pansy era l’ennesima umiliazione nell’arco di due anni.

Amava quella residenza sperduta nel verde delle colline scozzesi, sotto un cielo da maiolica persiana, e tra il selvaggio profumo dei cornioli in perenne sboccio. Bizzarro come avesse subito pensato di venderla, equiparandola a un posto come tanti altri. Ma in quel momento, sapendo del cambio d’eredità, sentì tutto il peso della perdita.

Bran Vanastah ripose sul tavolino voluminosi rotoli di pergamena con un gesto d’ineluttabile freddezza, ma lei neppure ci fece caso, intenta com’era in un rimpianto che non avrebbe mai superato. Con accanimento Pansy inspirò la coltre di fumo, ticchettando nervosamente la punta degli stivali sul pavimento.

- ‘Fanculo, – accompagnò la parolaccia con lo sventolamento della mano.

Era troppo, s’indispettì Far Darring che a petto gonfio prese la situazione in pugno. Alzandosi in piedi le arrivava quasi all’altezza della pancia, ma se voleva, sapeva incutere terrore come un Gigante.

- Vi avverto, signorina Parkinson. Non tollereremo più il vostro linguaggio capriccioso, – incominciò, additandola come si rimprovera il proprio elfo domestico. – Dalla lettera che ci ha inviato la Corte del Magico Consumatore risulta una querela nei confronti della nostra società. Voi avete accusato me e il mio socio Vanastah di sperpero del patrimonio.  

Con la diplomazia di un Troll, Pansy fece Levitare Far Darring fino a che i loro occhi non arrivarono alla stessa altezza. Il suo tono divenne lezioso.

- Voi due casualmente mi avete reso nota la situazione giusto ieri. Non ho potuto neanche chiedere dei prestiti. –

L’allusione piccata si perse nella stanza, perché entrarono i due veri Troll a capo della sicurezza d’ufficio, venuti a portarla via.

- Che trattamento, – la furia tornò a impossessarsi della giovane, che passò direttamente alle minacce. – Quanto è vero Merlino, vi farò sbattere ad Azkaban! –

Uno dei due Troll la prese di peso bloccandole la bacchetta nella tasca.
Far Darring schioccò la bocca. Detestava gli umani, soprattutto quelli poveri di animo e portafoglio.

 

 

 

 

 

   
 
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