Autore: Late Night Iridescente
Storia: Running up that Hill
Capitolo dell'estratto: a different feeling
Paring: Ace/Marco, qualche accenno Ace/Rufy
Note: si tratta della traduzione del flashback presente all'interno di questa storia.
***
“Marco,”
disse Barbabianca, fissando un uomo alto e biondo con un pessimo senso dell’abbinamento
cromatico, “occupati del tuo nuovo fratello finché non si sentirà
a suo agio.”
Ace si mise sulla difensiva quando l’uomo sospirò scoccandogli
un’occhiata, soprattutto ai vestiti strappati e ai graffi che gli marchiavano
la pelle, la bocca chiusa in una smorfia rassegnata.
“Mi dai sempre i compiti peggiori, eh.”
Il vecchio pirata rise. “Perché sei il migliore. Soprattutto per
questo compito.”
***
Ace rimase immobile
sulla soglia, osservando la stanza spoglia. La cosa più strana era la
presenza una spaziosa piattaforma di legno che sporgeva dal fondo del muro laterale,
su cui erano impilate coperte e cuscini, nonostante ci fosse anche un letto.
Solo un letto.
“Ce lo divideremo, eh,” disse Marco, direttosi verso la cassettiera
per prenderne un pacco di fiammiferi per accendere una sottile candela blu.
Senza nemmeno pensarci, Ace schioccò le dita e lo stoppino prese fuoco
prima che l’altro avesse il tempo di estrarre un cerino. Marco alzò
un sopracciglio. “Utile.”
Ace avvampò, dato che non aveva intenzione di essere minimamente utile
a chiunque navigasse sotto la bandiera di Barbabianca. “Cosa diavolo intendi,
con ce lo divideremo? Spero tu non intenda che dovremo dormire assieme.”
“Se vuoi puoi stare sul pavimento, ragazzino.” Marco si voltò
per fissarlo, il viso seminascosto dalle ombre causate dalla luce della candela.
“Ma mi sembra che tu sia allo stremo delle forze perciò credo che
tu abbia bisogno di una buona dormita. Cosa che non riuscirai a fare sul pavimento,
eh.”
“E quello?” Ace indicò la piattaforma. “A cosa serve?”
“Per dormirci.”
“E allora perché non dormi lì?” Marco lo ignorò,
togliendosi la camicia e piegandola sulla sedia della scrivania. Quando iniziò
ad allentare la fascia blu attorno alla vita, Ace ne ebbe abbastanza: entrò
rumorosamente lasciando chiudere la porta di botto. “Ehi, ascoltami!”
Marco non smise di spogliarsi, ma disse, “Mi sarà più facile
tenerti d’occhio se stiamo assieme, eh. Se solo avessi un po’ di
buon senso in quella tua testaccia dura, la smetteresti di cercare di uccidere
il Babbo.”
“Non smetterò,” disse Ace, togliendosi riluttante i suoi
vestiti sporchi e sudati. Aveva urgente bisogno di un bagno, ma col cavolo che
avrebbe chiesto dove poterne fare uno. Delle due l’una, o l’avrebbe
scoperto da solo o ne avrebbe fatto a meno.
Marco lo afferrò per le spalle, con gentilezza ma anche con decisione,
conducendolo verso il letto, per poi scostare le coperte, spingendolo giù,
facendolo rimbalzare contro il materasso duro. Poi lo seguì, intrappolandolo
contro il muro senza lasciare quasi spazio fra i loro due corpi. Ace si accigliò
e cercò di spingerlo via premendo contro il suo petto, ma Marco rimase
immobile, anche quando usò tutta la sua – piuttosto debole –
forza. Non riusciva a ricordare di essere mai stato così esausto in vita
sua.
“Non sei abituato a dormire con qualcun altro, eh?” chiese Marco,
guardando Ace agitarsi con un leggero divertimento che urtava maggiormente i
nervi del giovane pirata. Bene, se le cose stavano così, non si sarebbe
tirato indietro. Non avrebbe voluto usare il suo potere, ma strinse i denti
e costrinse il suo corpo stanco ad emettere abbastanza fuoco da intimidire,
in maniera che Marco si allontanasse per lasciargli almeno un po’ di spazio
per respirare.
Ma rischiò di mordersi la lingua quando le sue fiamme rosse incontrarono
quelle blu, con Marco che gli prendeva la mano incandescente, senza soffocare
il fuoco ma lasciando agitare e mescolare assieme i due colori. Non importava
quanto calore Ace desse, non riusciva a far estinguere le fiamme azzurre.
“Cosa sei? Che Frutto del Diavolo hai?” Era impossibile che si trattasse
del Mera Mera, perciò da dove venivano le fiamme di Marco?
“Te lo dico domani mattina se la smetti di agitarti e fai la nanna come
un bravo bambino, eh,” sorrise Marco. Ace fece spegnere il fuoco, ma col
cavolo che avrebbe obbedito. Con una smorfia, riuscì a premere il gomito
contro le sue costole.
“Almeno spostati un po’! Non c’è nemmeno spazio per
respirare.” Con sua sorpresa, Marco sembrò allontanarsi un attimo,
sistemandosi più vicino all’altro bordo del letto. Quello che Ace
non si aspettava fu il braccio che gli mise attorno alla vita non appena si
fu girato con la schiena in giù.
“H-hey!” protestò Ace, ma senza la rabbia di prima. Aveva
appena realizzato quando potesse essere morbido il materasso per il suo corpo
dolorante. Il sonno lo chiamò a lui.
“Mi sto solo assicurando che tu non ti muova da lì. Il Babbo sarà
ancora al suo posto domani mattina se proprio avrai necessità di riprovarci,
eh. Una notte tranquillo non farà differenza.”
Ace si accigliò. Non voleva certo dormire con un pirata che avrebbe potuto
ucciderlo tranquillamente nel sonno se avesse voluto. Prima che potesse cercare
di protestare ancora, fu quella sua maledetta narcolessia ad avere la meglio.
Finì per addormentarsi, caldo e comodo nella stretta presa di Marco,
anche se non l’avrebbe mai ammesso, nemmeno con se stesso.
***
“Perché
non lasci perdere, eh?” chiese Marco una settimana dopo, mentre tamponava
la guancia ferita di Ace, che non ne voleva sapere di rimanere fermo o di smettere
di lamentarsi e di borbottare maledizioni a mezza bocca.
“Ho i miei motivi,” ribatté lui, agitando il viso fra la
presa stretta di Marco. “E piantala! Non lo voglio il tuo aiuto!”
“Peccato,” disse l’altro, calmo ed imperturbabile come sempre.
“Tanto ti aiuto comunque, eh.”
Ace fece un ultimo tentativo con meno forza per sfuggire a quelle attenzioni
verso le sue ferite, il risultato di un altro attentato al vecchio. I suoi vestiti
erano zuppi d’acqua a causa della caduta in mare, e l’acqua salata
gli scendeva dai capelli e gli bruciava gli occhi.
Ogni volta che veniva salvato da uno degli uomini, finiva per odiarsi un po’
di più.
“Bastardi. Perché non mi rinchiudete da qualche parte e basta?
Non sarebbe meglio per voi?”
“E privarci del nostro divertimento preferito?” sorrise Marco. “Non
penso proprio, eh.”
Ace sibilò quando Marco gli passò il cotone imbevuto di disinfettante
su un taglio più profondo. “Nessuno di voi è preoccupato
che ce la possa fare sul serio? Che prima o poi riesca ad uccidere il vecchio?”
“No,” disse Marco semplicemente. “Il Babbo è troppo
forte perché qualcuno possa ucciderlo. Specialmente uno che non ne ha
nemmeno l’intenzione, eh.”
“Di che diavolo stai parlando?” chiese Ace mentre gli incollava
un cerotto sull’ultima ferita. “Io voglio ucciderlo di sicuro.”
“Davvero?” Marco alzò le labbra in un mezzo sorrisetto che
gli stava diventando maledettamente familiare, con tutto che lo odiava, per
passargli una mano fra i capelli bagnati. “Per il Babbo, per tutti qui
sulla nave, sembra più il comportamento di un figlio affezionato che
sta attraversando la fase della ribellione, eh.”
“Io non sono suo figlio! Non sono il figlio di nessuno!”
sbottò Ace, riuscendo alla fine a liberarsi dalla stretta di Marco, il
quale continuò a guardare divertito i suoi capricci.
“Rilassati, ragazzino. Ti sto solo dicendo cosa ne pensa il Babbo di questa
storia.”
“Be’, non me ne frega un cazzo. Quel vecchio può pensare
quello che vuole, ma un giorno lo batterò. Farò quello che quel
buono a nulla di mio padre non è riuscito a fare!” Ace si bloccò,
il dito premuto sulle labbra per sigillare quel fiume di parole che stava disperatamente
cercando di liberarsi.
Quello risvegliò la curiosità di Marco, ma non aveva
intenzione di chiedere nulla. E comunque non avrebbe ottenuto risposta da quel
pirata diffidente.
Almeno, non ancora.
“No so quale sia il tuo passato, o di chi sia il sangue che ti scorre
nelle vene,” disse, scegliendo le parole con cura prudente. Il calore
che si diffuse sul viso di Ace gli disse che stava mirando nel punto giusto.
“Tutti noi ci siamo uniti alla ciurma di Barbabianca per avere un’altra
possibilità, un posto dove nessuno ci giudicasse per i peccati che avevamo
commesso… Che fossero veri o no. Siamo uomini del Babbo perché
lui ci ha dato una casa, eh.”
Ace sembrò accartocciarsi su se stesso, gli occhi chiusi con forza ed
il corpo improvvisamente docile sotto il suo tocco, tanto che quando Marco pulì
una striscia di sangue con il polpastrello del pollice, Ace non si ritrasse.
***
La fitta allo stomaco
stava diventando quasi insopportabile, ma Ace avrebbe aspettato fino a tardi
per rubare qualcosa da mangiare, quando tutti, a parte gli ubriachi, erano a
dormire o a fare dell’altro nelle loro stanza. Col cavolo che avrebbe
chiesto del cibo.
Le stelle brillavano nel cielo a più non posso. Ace cercò di distrarsi
dalla fame che gli attanagliava lo stomaco contandole o provando a collegare
i punti, cercando di costruire delle forme che gli venivano in mente: carne;
Rufy, con il suo ampio sorriso; la bellissima e brillante apertura alare di
un uccello che attraversava il cielo, padrone di tutto…
Marco gli aveva detto che il suo Frutto del Diavolo era uno Zoan, che tra le
altre cose gli permetteva di trasformarsi in una fenice. Sì,
Ace conosceva le leggende su quegli uccelli che incendiavano il mondo prima
di trasformarsi in fiamme e rinascere dalle proprie ceneri. Però non
riusciva a credere che Marco avesse un potere del genere – il pirata si
era rifiutato di mostrargli dell’altro oltre a quelle misteriose fiamme
che bruciavano senza danneggiare nulla, calde al tocco ma non bollenti, nemmeno
per un normale essere umano.
Non come il fuoco di Ace, che lasciava distruzione ovunque passava. Marco poteva
guarire. Ace poteva solo ferire
Il suo stomaco borbottò arrabbiato, diretto a pretendere del
cibo, subito. Ace si premette una mano sull’addome imprecando sottovoce
e pregando i santi e i demoni che nessuno fosse in giro a poterlo compatire.
Ma Dio lo odiava, deciso e senza rimorso – Ace sentì un leggero
spostamento d’aria, e quando si voltò vide Marco a poca distanza
da lui, con le braccia incrociate. Non aveva sentito nemmeno un passo.
Il suo stomaco, quell’inutile apparato digestivo che era, decise che quello
era il momento giusto per brontolare con la massima intensità.
Marco non disse nulla, osservò semplicemente in silenzio gli occhi lucidi
di Ace, ed il suo braccio sanguinante, e il labbro gonfio. Ace lasciò
che la supposta fenice facesse quello che gli pareva – era intrappolato
sulla Moby Dick ormai da un mese, e anche se era doloroso per il suo orgoglio,
doveva ammettere che non riusciva ad opporsi se Marco voleva qualcosa da lui.
Visto come viveva, non era mai riuscito a riprendersi del tutto dalle sue lotte
con Jinbe e il vecchio – mangiava solo quando poteva rubare qualcosa,
sprecava tutte le sue energie cercando di uccidere Barbabianca, dormiva solo
quando lo colpiva un attacco di narcolessia.
Ad eccezione di quando Marco lo spingeva a letto e gli ordinava, con voce bassa
e pericolosa, di riposarsi; in quelle occasioni, Ace dormiva per un giorno intero.
“Vieni qua, eh,” disse Marco, rompendo il silenzio. Ace non era
certo di quanto fossero rimasti a guardarsi l’uno con l’altro, mentre
di sottofondo si sentivano alzarsi ed abbassarsi delle grida, ma era abbastanza,
quindi camminò debolmente verso di lui, senza nemmeno protestare quando
gli passò un braccio attorno alle spalle per agitarlo. Se l’avesse
fatto chiunque altro, Ace l’avrebbe allontanato. Ma Marco era… Marco
era…
Ace non voleva pensare a cosa fosse Marco.
Marco lo condusse sottocoperta, dove il ruggito delle risate non era più
nascosto. Ace fece resistenza – non aveva intenzione di unirsi alla festa
– ma l'altro premette leggermente sulle costole, dirigendolo piuttosto
verso una porta. Una volta chiusa alle loro spalle, tutti i rumori si abbassarono
al punto che Ace avrebbe potuto decidere di non ascoltarli del tutto.
Erano in cucina. C’erano ancora dei cuochi, che di tanto in tanto aggiungevano
spezie o altra roba in una pentola che ribolliva, ma per la maggior parte bevevano
boccali di birra. Bastò un’occhiata di Marco a farli fuggire in
un battito di ciglia.
“Non ho fame,” mormorò Ace mentre l’altro iniziava
ad apparecchiare con una ciotola e piatti pieni di pane, burro e marmellata.
Marco assaggiò ciò che stava bollendo nella pentola e dovette
trovarlo invitante perché se ne servì una porzione abbondante.
“Io invece sì,” disse, sedendosi su uno sgabello e prendendo
un cucchiaio. “Ma non è divertente mangiare da soli, eh. Anche
se non vuoi niente, sarebbe proprio un problema tenermi compagnia?”
“…Credo di no.” Ace si sedette di fronte a lui, ignorando
l’odore invitante della zuppa e il fatto che quelle pagnotte apparissero
morbidissime. Marco ne spezzò una e la inzuppò nel burro –
burro saporito, Ace poteva dirlo maledettamente bene anche dal suo profumo –
masticando ad occhi chiusi.
La ciotola era quasi vuota quando Marco disse, “Per me è troppo,”
e spinse il piatto di pane verso Ace. “Sai che sarebbe da irresponsabili
sprecare il cibo mentre si naviga, eh. Aiutami a finirlo perché non voglio
essere rimproverato.”
Ace si limitò a guardare fisso la pila di pagnotte di fronte a sé
finché Marco non aggiunse, “Per favore?”
…Se qualcuno glielo chiedeva le cose cambiavano. Giusto?
Perciò diede un morso esitante, e poi un altro e un altro e un altro
finché il piatto rimase vuoto e Marco dovette riempire di nuovo la ciotola
e rioffrirgliela. Fu solo quando gli premette sull’occhio gonfio un tovagliolo
fresco e umido che Ace scoprì di avere le guance bagnate.
“Perché sto piangendo?” chiese, troppo sconvolto per nascondere
l’accaduto. Bloccò il cucchiaio di brodo a metà strada per
la sua bocca, sia spaventato sia speranzoso che Marco potesse rispondere.
Marco spinse il cucchiaio nella sua bocca coi polpastrelli. “Lo sai solo
tu, eh.”
***
Ace si svegliò
lentamente, con le membra sazie per la buona notte di riposo. Con le palpebre
mezze alzate e la visione sfocata, il cervello imbambolato e lento ad accendersi,
non notò inizialmente che non era da solo a letto. Marco era seduto al
limite, il fumo che risaliva ad onde dalla sigaretta fra le sue dita.
Era insolito, un cambiamento nelle loro abitudini – Marco dormiva la notte
a fianco a lui, ma se ne andava ben prima che Ace si svegliasse al mattino,
tanto da far raffreddare il cuscino – quindi rimase a fissare imbambolato
il comandante della prima flotta chiedendosi perché fosse ancora lì.
Lo sguardo di Marco si spostò dalla finestra ad Ace non appena si fu
accorto che si era svegliato.
“Che c’è?” domandò quest’ultimo debolmente,
ma con un reale interesse nella risposta. La sua mente addormentata si stava
ancora stiracchiando per mettersi in movimento; non poteva davvero tirare fuori
l’energia necessaria per arrabbiarsi e comunque, un po’ Marco gli
piaceva. Solo pochino pochino, nonostante la terribile capacità di comprensione
la pazienza infinita e quei sorrisini.
…Oh, al diavolo.
Marco era voltato verso di lui, con lo sguardo volontariamente fermo sul bicipite
scoperto di Ace. Anche lui lo fissò, la pelle marchiata e le quattro
lettere fisse lì, solo una che avesse un reale valore. “Ubriaco,
eh?”
“Completamente sfatto,” disse, e poi capì che Marco si stava
riferendo alla S barrata da una croce, che per chiunque altro appariva come
un errore causato dall’alcol, ad eccezione di lui e di un ragazzo che
stava dall’altra parte del mondo. Ace rimase sdraiato, tra il calore e
l’odore acre del tabacco e disse, “ma volontario.”
La fenice alzò un sopracciglio ma non chiese nulla, e proprio per quello
Ace aprì la bocca e lasciò che le parole uscissero come il sangue
dalla ferita. “Avevo un fratello. Per decisione nostra e non per sangue,
ma senza dubbio mio fratello, lo conoscevo da anni. Non riesco a contare le
volte in cui mi ha impedito di farmi uccidere.” Ace prese un profondo
respiro. “Sabo era… Veniva da una famiglia nobile, ma la sua vita
era piena di miseria e solitudine e alla fine non ce l’ha più fatta
– e anche se aveva solo dieci anni è partito in mare come pirata,
cercando una vita migliore.”
E ora, Ace combatteva per continuare. Marco spense la sigaretta, si sdraiò
accanto a lui, mostrandogli un aiuto silenzioso affinché trovasse la
forza. “Ed è morto provandoci.”
Marco tracciò con gentilezza la S con la croce usando un dito circondato
di fiamme blu. Il calore si irradiò dai punti toccati, un fuoco calmo
che bruciava anche se Ace sapeva che non feriva – il suo corpo pizzicava
dalla voglia di rispondere con le sue stesse fiamme, non per la paura o la rabbia
ma per qualcos’altro totalmente diverso. Ace strinse i denti e nascose
le sue guance arrossate nel cuscino.
“Qui a bordo siamo una famiglia. Io li considero tutti miei fratelli,
eh,” disse Marco. “Nessuno può sostituire quello che hai
perduto, ma quello che il Babbo ti offre è la possibilità di averne
di nuovi.”
“Avere dei fratelli mi va benissimo. Quello che non voglio è un
padre.” Ace sbuffò e si voltò faccia al muro, deciso a dormire
e a fingere che quella conversazione non fosse mai avvenuta. Non aveva niente
a che fare con la vicinanza a Marco, e quanto pericolosa ed immediata fosse
la sensazione. Proprio niente.
***
Quando si sparse la
voce della presenza di isole e si decise di ormeggiarvi, Ace non era sicuro
di cosa dovesse fare di se stesso. Era la prima volta che la nave di Barbabianca
si fermava ad un porto da quando era stato preso a bordo. Avrebbe potuto scappare.
Sarebbe dovuto scappare.
Anche se per qualche insana ragione aveva deciso di non allontanarsi troppo
(cosa che avrebbe voluto, decisamente molto lontano, lontanissimo,
anche se immaginava che nemmeno l’altra parte di quel maledettissimo mondo
fosse lontana a sufficienza) cos’era che voleva fare veramente? Restare
su quella nave come un prigioniero, nonostante Satch insistesse che non lo era?
Forse gli avrebbero fatto fare le pulizie o qualcosa di altrettanto ridicolo
solo per tenerlo impegnato. Be’, manco per l’anima. Alla prima occasione
che avesse avuto, si sarebbe confuso fra la folla, e non avrebbe messo più
piede sulla soglia di Barbabianca. Con tanti saluti.
Era seduto sul letto di Marco, ad organizzare con impegno una fuga da maestro
con più stratagemmi di quanti ne servissero, quando la fenice si affacciò
dalla porta aperta e disse, “Ehi, andiamo.”
Ace si accigliò, sospettoso. “Andiamo dove?”
“In città, eh.” Marco alzò gli occhi, afferrò
Ace per il polso e lo trascinò fuori della stanza. “C’è
un posto che voglio farti vedere.”
“Stai interrompendo il mio piano di fuga,” si lamentò ignorando
la smorfia irritante di Marco e il fatto che stava facendo una debole resistenza;
arrivarono sul ponte, che era in piena attività, con pirati che si agitavano
da tutte le parti per finire i propri doveri più in fretta possibile.
“Chi ti dice che non scapperò?”
Allora Marco si fermò, appoggiando una mano sul suo petto e abbassandosi
a sussurrargli all’orecchio, “Non puoi scappare da me, ragazzino.
Nemmeno se lo vuoi.”
Gli venne la pelle d’oca sulle braccia e sul collo, mentre le guance si
scaldarono in un secondo, tanto che Ace dovette respirare profondamente un momento
per riprendersi. Dio, Marco si era accorto di cosa aveva causato al suo povero
corpo? Per un attimo, se lo chiese; poi Marco gli passò un braccio sulle
spalle e lo spinse sul ponte, con un mezzo sorriso annoiato sul viso, e Ace
lasciò perdere. Si divertiva a prenderlo in giro, dopotutto.
“Scommetto che il tuo fuoco non può battere il mio,” disse
Ace, incrociando le dita sul fatto che l’altro non avesse notato la sua
reazione. “Non è nemmeno caldo.”
“Forse no. Ma non è che posso solo guarire, eh.”
“Giusto. La tua presunta forma di volatile, che non mi hai ancora fatto
vedere. Non ti credo.”
“Pazienza,” disse Marco, dandogli una leggera pacca sulla testa
solo per farlo incavolare. Fu ricompensato con un’occhiataccia. “Lo
vedrai presto.”
“Che vuoi dire?” chiese Ace, ma l’altro si rifiutò
di rispondere. E poi entrarono in città, cosa che catturò il suo
interesse, perciò per quella volta lo perdonò.
In realtà non era la città, ma quello che gli abitanti indossavano
che affascinava Ace. Alcuni erano vestiti normali, come da qualsiasi altra parte,
ma la maggioranza aveva dei kimono dai colori brillanti – i modelli erano
vari e graziosi; koi e draghi e fiori maturi, squali e fiori di ninfea e decorazioni
geometriche di blu, rosso, bianco – ed Ace li fissava tutti mentre Marco
continuava a guidarlo. Superarono una bancarella che emanava un odore di Takoyaki
da far venire l’acquolina in bocca, ma Marco non si fermò, nemmeno
quanto Ace impuntò sul serio i piedi ed il suo stomaco protestò
ad alta voce.
“Ho fame, maledizione,” si lamentò Ace. “Non possiamo
mangiare prima che tu mi trascini da qualunque parte tu voglia?”
“Potrai mangiare quando ci arriveremo, e non è lontano. Stai zitto
cinque minuti e basta, eh. Anche se per un ragazzino come te è impossibile,”
Marco fece un sorrisetto.
“Non sono per niente un ragazzino!” protestò Ace, e mantenne
un volontario silenzio mentre camminavano, anche quando si lasciarono il villaggio
alle spalle, solo per provare che poteva farlo.
Alla fine si ritrovarono in un sentiero circondato dagli alberi, pavimentato
in pietre ordinate si differente forma e dimensione. Ace si fidava abbastanza
di Marco tanto che il pensiero che lo stesse portando in un luogo isolato per
sbarazzarsi di lui non l’aveva nemmeno sfiorato; la sua mente desiderosa
di aiutarlo gli fornì altre immagini di quello che avrebbero potuto fare
lontano da occhi indiscreti, ed Ace si pizzicò un fianco per scacciarle.
Le possibilità di fare con Marco certe cose (nudi) erano anche minori
dell’essere strangolato nel mezzo di una foresta.
Ace poteva accettare l’idea di essere attratto dall’altro senza
preoccuparsi di sentirsi in colpa. Gli piaceva il sesso, proprio come a Rufy
– entrambi avevano sviluppato un’intimità fisica per nulla
inaspettata per una coppia di giovani pirati – ed anche se una grande
porzione del suo cuore sarebbe stata esclusivamente di Rufy, qualunque cosa
la vita gli avesse offerto, nessuno dei due si preoccupava di condividere il
proprio corpo con un altro se ne avevano il desiderio.
No, quello che preoccupava Ace non aveva niente a che fare con il suo corpo,
ma tutto con quella parte del suo cuore che non conteneva il nome di Rufy. Quella
parte che, in un’incredibile manifestazione di intelligenza subdola che
Ace non credeva avesse, si era affezionata. Sentimentalmente. A Marco, che faceva
parte di quei maledetti pirati di Barbabianca… Era la parte che lo aveva
punto quando Marco gli aveva sorriso, quando aveva saputo tutte le ragioni per
cui Barbabianca si meritava il soprannome di ‘Babbo’.
Era la parte – quella traditrice – che gli sussurrava forse
dovresti restare quando Ace era sdraiato la notte, con Marco che respirava
dolcemente al suo fianco.
Più voleva rimanere, più grande la sua determinazione di fuggire…
…era quello che avrebbe voluto dire. Ace non era in realtà uno
che negava le cose.
A parte il fatto che restare significava avere un padre.
E lui proprio… Non poteva…
No?
TBC