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Autore: Argorit    05/04/2011    6 recensioni
Meliandra, la principessa del regno di Ader, viene mandata da suo padre a compiere una missione essenziale per la sopravvivenza del popolo. Ad accompagnarla, Farin, un giovane mercenario, potente, spietato e dall'oscuro passato.
Insieme, dovranno salvare il loro mondo dalla minaccia di un essere millenario, una creatura fatta di odio e da esso alimentata.
Ma ce la faranno?
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[Cit]
-Andrà mai via?- chiese Meliandra, fissandosi le mani ancora grondanti d'acqua gelida.
Farin la guardò a lungo, con attenzione. Sapeva cosa avrebbe dovuto risponderle, ma se l'avesse fatto, di quella ragazza non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, un mero simulacro di quella che sarebbe potuta essere una magnifica regina.
Quindi, suo malgrado, si chinò su di lei, la avvolse con proprio mantello e le sussurrò -No, non lo farà. Solo gli stolti credono che il tempo lenisca ogni ferita-
-Ma allora cosa devo fare? Come posso convivere con questo? Io non sono forte come te, io non posso andare semplicemente avanti, dimenticando quello che è successo!-
Il ragazzo le rivolse il sorriso più gentile che poteva. -Allora combatti ancora, perchè il dolore che provi ora non sia vano-
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                 PUNTO DI PARTENZA
                                                                            
                                                                                                                                Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859.
 
 
Meliandra fissò il cielo color piombo e le nubi nere e minacciose che si addensavano a Oriente. Non poté fare a meno di pensare che probabilmente a Rublia stesse già piovendo, e che di lì a poco sarebbe toccata la stessa sorte anche a Zavren.
Si strinse nel pesante mantello da viaggio per ripararsi il più possibile dal vento gelido e, leggermente amareggiata, calcolò che erano ormai tre giorni che si trovava in città, ma del mercenario non c’era ancora traccia.
Quel tipo aveva saltato l’incontro che avevano stabilito per lei gli uomini di suo padre, e così la ragazza era stata costretta a cercarlo in lungo e in largo, perdendo tempo prezioso.
Sapevo che non c’era da fidarsi, ma in fondo, che mi potevo aspettare da un uomo che vive della morte di altri?   
Le sue rimuginazioni furono interrotte dal suo stomaco che, prepotente, le ricordò, con un sonoro brontolio, che era da quella mattina che non toccava cibo.
Imbarazzata, entrò nella prima taverna che le capitò a tiro. Non appena mise piede all’interno, lo stivale sprofondò nella paglia marcia che copriva il pavimento con un disgustoso risucchio, e il tanfo di sudore e sporcizia le aggredì il naso sensibile, troppo abituato ai dolci profumi della nobiltà per resistere agli odori a cui il volgo, per pura e semplice assuefazione, non faceva caso.
Quasi in apnea, si sedette all’unico tavolo libero del piccolo locale, sperando che almeno il cibo fosse decente.
La venne a servire la donna più brutta che avesse mai visto: bassa, così grassa che quasi era impossibile vederle il collo e con il viso annerito dal sudiciume e coperto di pustole infette. Meliandra sperò vivamente che non fosse lei a cucinare: il solo pensiero di mangiare qualcosa preparato da quelle mani luride le fece venire un conato di vomito.
«Che ti porto?» Chiese con sgarbo, sputacchiando dalla bocca sdentata.
Stavolta reprimere un’espressione di disgusto fu più difficile. «G-gradirei una minestra e dell’acqua.» L’espressione della donna le fece intendere che l’acqua non era contemplata nella lista delle vivande.
«Allora mi dia la cosa più leggera che ha.» Disse conun sospiro rassegnato mentre la taverniera se ne andava con un grugnito.
Mentre attendeva che le portassero ciò che aveva ordinato ne approfittò per darsi un’occhiata intorno.
La taverna non era nulla di che, un semplice edificio di legno con un tetto di paglia. Nell’ambiente erano piazzati quattro tavoli di legno, il massimo che lo spazio ristretto poteva contenere, segnati da un mosaico inestricabile di scalfitture, tagli e incisioni. In quel momento erano tutti occupati, e la curiosità costrinse la ragazza a gettare uno sguardoai suoi commensali.
Seduto al tavolo più vicino a lei c’erano un uomo e una donna. Lui era impegnato a mangiare senza ritegno, mentre la donna, seduta accanto a lui, gli si strusciava addosso in modo provocante. Non ci volle molto più di questo per far capire a Meliandra quale fosse il mestiere che esercitava. La maggior parte della gente l’avrebbe definita “puttana”, ma lei era troppo ben educata e pudica per usare un termine tanto scurrile. Infastidita dai gesti lascivi di quella, la ragazza si concentrò sul tavolo di centro, dove erano seduti due uomini nerboruti dall’aria truce, intenti a bere, tra risa sguaiate, una quantità sicuramente smodata di vino. Dal loro tono di voce e dal rossore dei loro volti Meliandra capì che erano ubriachi fradici già da un bel pezzo. Istintivamente, si coprì un po’ di più con il mantello, cercando di celarsi alla loro vista.
Quasi per caso, l’occhio le cadde sul tavolo in fondo alla taverna. L’uomo, o la donna, indossava un mantello nero così spesso da far sembrare il suo di seta trasparente. Gli strati di stoffa erano così tanti che non si scorgevano le forme del corpo, rendendo impossibile determinarne il sesso. Sedeva a gambe incrociate, sorseggiando una bevanda semitrasparente dai riflessi azzurrini. La ragazza si chiese cosa fosse.
Le sue elucubrazioni furono malamente interrotte dalla taverniera, che le posò davanti, con un’irritante malagrazia, un piatto  e un boccale di medie dimensioni, fortunatamente pulito.
«Eccoti servita.» Mugugnò.
Meliandra contemplò dubbiosa la minestra densa e verdognola, chiedendosi fino a che punto quella roba fosse commestibile, e parimenti fece con il boccale, ricolmo di un liquido rosso chiaro.
Raccogliendo tutto il suo coraggio, la ragazza sorbì una cucchiaiata di minestra, resistendo a stento all’impulso di sputarla quando il suo sapore amaro le invase la bocca. Si sforzò di mandarla giù, bevendo un sorso dal boccale e storcendo il naso per il sapore dolciastro della bevanda.
Era di sicuro il pasto peggiore della sua vita, ma aveva fame, e non poteva permettersi di sprecare il poco denaro che aveva con se, quindi mangiò tutto, seppur a fatica.
Si era appena alzata per andare a pagare, quando una mano grande e callosa le strinse violentemente il polso in una morsa. Sorpresa, la ragazza si girò, riconoscendo nel suo aggressore uno dei due ubriachi da cui prima aveva tentato di non farsi notare. L’uomo la squadrava da capo a piedi con un’espressione che non prometteva nulla di buono.
Meliandra avrebbe potuto facilmente neutralizzarlo con uno qualsiasi degli incantesimi difensivi che conosceva, ma la paura la bloccava, impedendole di formulare le giuste parole.
«Mi lasci.» Fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Sta buona sgualdrinella» Biascicò l’uomo in risposta, inondandole il viso con il suo alito saturo d’alcool.
La ragazza provò a divincolarsi, ma quello la schiacciò col suo peso, ridendo della sua ovviamente inutile resistenza. Senza indugio, quasi pensasse fosse suo diritto, fece saettare la mano sotto il mantello della giovane, tentando di palparle il seno.
Il taverniere, preoccupato più di non macchiare ulteriormente il nome della sua schifosa bettola che del benessere della ragazza, si avvicinò minaccioso. «Non tollero certi atteggiamenti nella mia taverna, andatevene.»
Senza curarsi più di tanto della minaccia del taverniere, il compare dell’ubriaco sguainò un pugnale, costringendo l’uomo a ritirarsi per scansare un eventuale pericolo.
L’uomo armato infilò la lama sotto l’orlo della tunica di Meliandra, con l’intento di denudare la giovane.
Improvvisamente un calcio di tacco colpì l’uomo armato alla mascella, catapultandolo contro una panca come se pesasse meno di un fuscello. Il legno del mobile si ruppe con un fragore assordante, spargendo schegge per tutto il pavimento del locale.
Stupefatti, la ragazza, l’ubriaco e il taverniere si voltarono all’unisono, concentrando la loro attenzione sul responsabile di quel gesto: il tipo incappucciato che prima beveva in fondo al locale.
Ingoiando lo stupore, l’ubriaco si avvento sullo sconosciuto, cercando di colpirlo con uno degli enormi pugni, ma l’altro li schivò con una facilità surreale, come se fossero fermi a mezz’aria. Lasciò che l’ultimo colpo gli scivolasse di fianco, facendo perno sul piede sinistro per compiere una veloce rotazione, dopodiché afferrò il polso dell’uomo e, sfruttando il suo stesso slancio, lo ribaltò. L’ubriaco si schiantò al suolo con violenza, e un sonoro scricchiolio accompagnò l’impatto.
L’uomo ululò, contorcendosi per il dolore.
Con un grugnito infastidito, lo sconosciuto si avviò verso l’uscita, ma venne bloccato da Meliandra.
«V-vi ringrazio dell’aiuto.» Disse la ragazza, impegnandosi in una profonda riverenza. Voleva mostrarsi cortese, in fondo l’aveva salvata senza neanche conoscerla.
«Non l’ho fatto per te.» Mugugnò quello in risposta. Il pesante strato di tessuto che aveva davanti la bocca ne distorceva troppo la voce perché fosse possibile riconoscerne il sesso. «Le tue urla mi davano fastidio. Se non sei capace di difenderti, non uscire di casa.» Detto questo, uscì dalla taverna.
La ragazza lo fissò sbigottita: come poteva trattarla così? E dire che lei, una principessa, lo aveva addirittura ringraziato. Avrebbe voluto alzarsi e sbattergli in faccia il suo titolo, ma se lo avesse fatto, l’avrebbero arrestata all’istante, e oltretutto doveva ancora trovare il mercenario. No, non era il caso di impuntarsi su una quisquilia simile, perciò ingoiò il disappunto e si rivolse al taverniere.
«Può dirmi dove posso trovare un mercenario?»
L’uomo la squadrò per un istante. Trovava strano che una donna facesse una richiesta del genere, ma in fondo non gli interessava più di tanto, e risponderle non gli costava nulla. «La città ne è piena piccola. Cerchi qualcuno in particolare, o ti va bene chiunque?»
Meliandra prese un pezzo di pergamena e lo porse all’uomo. Sopra vi era disegnata una spada circondata da sei ali che partivano dal guardamano. Quel simbolo era l’”emblema” del mercenario che stava cercando: un sistema ideato dalle gilde per permettere ai clienti di contattare con maggiore facilità i soldati di ventura, di solito difficili da rintracciare.
L’uomo sussultò non appena vide l’emblema. Gli occhi si ridussero a due fessure, cosa che fece preoccupare non poco la ragazza.
«Tu cerchi Farin.» Meliandra annuì..
«Sa dove posso trovarlo?»
Il taverniere si strinse nelle spalle. «E’ appena uscito.»
La ragazza spalancò la bocca in un moto di stupore, paralizzandosi per un attimo. Come poteva esserci arrivata così vicino ed esserselo lasciato scappare? Si diede mentalmente della stupida e si lanciò all’inseguimento, sperando vivamente che il mercenario non si fosse allontanato troppo.
Corse per le strade affollate della capitale, incurante degli sguardi infastiditi dei passanti, scrutando tra la folla alla ricerca di un mantello nero come la pece.
Uno scorcio di tessuto svolazzò ad una svolta, e la ragazza vi si precipitò, entrando nel vicolo. Si stupì di trovarlo completamente deserto, ma non si poté fare molte domande, perché inciampò in un  fosso, giusto in tempo per evitare una freccia, che passò esattamente dove un secondo prima c’era la sua testa.
Una seconda freccia si conficcò nel terreno, a meno di un centimetro di distanza dal suo naso, e la terza l’avrebbe colpita, se Meliandra non avesse avuto la prontezza di evocare in tutta fretta un sottile scudo luminescente. La punta del dardo vi impattò contro,spezzandosi per la violenza dell’urto. La ragazza tirò un sospiro di sollievo: nessuna arma da lunga distanza, per quanto potente, poteva infrangere quella barriera. Non sapeva chi l’aveva attaccata, ma per il momento era al sicuro.
La risposta al suo quesito non si fece attendere: da uno degli edifici scese un uomo. Nella mano destra impugnava una balestra, che gettò a terra con un gesto stizzito. Evidentemente si era reso conto che l’arma era ormai inutile. Tuttavia non pareva eccessivamente preoccupato, e Meliandra ne capì il motivo quando l’uomo sfoderò la spada che portava sulla schiena.
La lama era ricoperta da un’intricata serie di simboli che, dalla guardia fin quasi alla punta, ricoprivano la lama.
Un sigillo di penetrazione. Tutto il sollievo della ragazza si sbriciolò come gesso secco: contro un’arma incantata il suo scudo sarebbe servito a ben poco. La parte razionale del suo cervello, però, approfittò della situazione per trarre alcune conclusioni: primo, quell’assassino era lì proprio per lei, altrimenti non si sarebbe portato dietro un’arma del genere; due, chiunque l’avesse assoldato, o era un mago assai abile, giacché per tracciare un sigillo occorreva una grande quantità di potere, o era abbastanza ricco per pagarne uno, il che restringeva il campo ad una manciata di nobili e, forse, a qualche facoltoso mercante.
Riteneva impossibile che il neo-regnante di Ansha fosse già a conoscenza della sua presenza entro i confini del suo regno, in fondo gli unici ad essere a conoscenza della sua partenza erano i membri del consiglio reale di Ader, la cui fedeltà alla corona era assoluta.
Qualunque fosse la risposta, Meliandra non ebbe modo di pensarci oltre, perché il sicario le si scagliò contro, apparentemente deciso a porre fine allo scontro in un unico colpo, forse per evitare che lei reagisse con una formula d’attacco.
Istintivamente, la ragazza ampliò il diametro della barriera per tenere l’aggressore il più lontano possibile da lei, e nel contempo saltò all’indietro. La lama della spada squarciò il suo incantesimo protettivo come se fosse un velo di fragile seta, ma Meliandra non si lasciò cogliere impreparata e, recitando una breve formula, lanciò un incantesimo paralizzante contro il sicario, sperando di neutralizzarlo. Quello, però, scartò di lato, evitando l’incantesimo, che si abbatté innocuo contro un muro.
Approfittando della falla che si venne a creare nella difesa della principessa, l’assassino tentò un affondo, ben sapendo che la ragazza non avrebbe avuto il tempo di recitare un’altra formula.
Meliandra strinse i denti, cercando di prepararsi alla sconosciuta sensazione di essere trafitti, ma non appena la lama fu ad un soffio dal suo petto l’istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento e, d’impulso, rilasciò un’onda di energia pura che, a contatto con la spada del sicario, generò un violento contraccolpo, che la scagliò contro la parete lignea di una casa.
L’urto fu forte e dannatamente doloroso. Decine di luci colorate le danzarono davanti agli occhi, mentre il corpo le trasmetteva segnali di dolore da ogni parte.
Anche il sicario era stato spinto all’indietro ma, a differenza di Meliandra, era solo volato nel vuoto senza colpire nulla, quindi si rialzò senza troppa fatica, avvicinandosi a quella che ormai era una preda indifesa.
Sebbene semi-incosciente, Meliandra conservava ancora una discreta percezione della realtà. Non abbastanza per rialzarsi e reagire, ma sufficiente a rendersi conto di ciò che avveniva intorno a lei. Fu perciò in grado di sentire le gocce di pioggia che iniziavano a scendere dal cielo, e fu in grado di capire che l’assassino era sopra di lei, la spada levata a infliggerle il colpo fatale.
Il suo cuore fu attraversato da una miriade di sentimenti: vergogna per la sua inutilità, tristezza per il suo popolo, che riponeva in lei le proprie speranze, rabbia per non essere riuscita a sconfiggere neanche un singolo nemico, ma soprattutto provò paura; paura di morire, di lasciare quel mondo a cui tanto teneva.
In quella situazione, un unico pensiero si fece largo nella sua mente che stava scivolando nel buio:Aiuto!
Come in risposta al suo richiamo la bianca lama di una spada trapassò il petto del sicario, che barcollò leggermente prima di accasciarsi morto al suolo.
La patina opaca che le stava scendendo sempre più rapidamente sugli occhi le impedì di vedere il volto del suo salvatore, ma capì che la stava coprendo col suo mantello. Si sentì sollevare dolcemente da terra, e pensò che, chiunque fosse, aveva un tocco davvero gentile. Sentì dal profondo dell’anima di potersi fidare di quella persona e, senza riuscire a trovare l’origine di quella misteriosa sensazione, sprofondò nell’incoscienza.
 


Salve popolo di EFP, come ve la passate? Vi sono mancato? (Veramente ci eravamo scordati della tua esistenza NdVoi spietati; CATTIVIIIIII T_T. Ho solo avuto un leggero ritardo a causa della scuola; Quasi tre settimane non sono un "leggero ritardo" pezzo d'idiota!!!! NdSperbia Squalo; Squalo-sama, cosa ci fate voi qui? NdMe in stato di adorazione; Sono venuto a vedere che M***a stai scrivendo! NdSqualo-sama; E un onore per me avere qui il numero due dei Varia, prego si sieda. NdMe; Grazie, ora va avanti con le scuse! NdSqualo-sama.)
Scherzi a parte (E chi scherzava? NdSqualo-sama) sono davvero dispiaciuto per il ritardo, ma non ho avuto davvero tempo per scrivere.
Spero che il capitolo vi piaccia. Alla prossima!!!

  
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