The delicious tickle
A NewYork era stato da poco costruito un
grattacielo made in Italy che affacciava sulla Quinta Avenue, a due
passi dall'Empire State Buliding. La Bizzi and Partners Development
aveva ultimato la costruzione del 400 Fifth Avenue, un complesso di
200 metri d'altezza e 60 piani realizzato dagli architetti Gwathmey
and Siegel. Il progetto, che aveva previsto investimenti per 670
milioni di dollari, ha ottenuto un finanziamento di 540 milioni da
una cordata di banche italiane guidata dalla Unicredit Corporate
Banking. Oggi ospita un albergo a cinque stelle, gestito da "The
Setai" e 237 appartamenti dal costo tra i 21 mila e e i 34mila
dollari al metro quadrato.
Ispirato dallo stile architettonico
utilizzato per quell'edificio, il facoltoso imprenditore Darren
Reynolds scelse di costruirne uno uguale nella Downtown di Los
Angeles e di piazzarci dentro la sua agenzia di catering, la Reynolds
Group, che oggi rientrava nella top three d'America.
L'organizzazione di eventi era l'applicazione dei criteri di
gestione di progetti finalizzata alla creazione e sviluppo di eventi
che, di solito, orbitava attorno alla promozione di un determinato
prodotto o di una persona speciale ma, da quello che Darren mi
raccontava durante i nostri incontri, il gioiello della corona della
sua agenzia era l'organizzazione dei matrimoni di personaggi famosi,
molto famosi.
Non avevo la più pallida idea di quale fosse il
fattore che spingesse le star in procinto del matrimonio a scegliere
l'azienda di Darren per l'organizzazione del loro giorno speciale.
Carisma, bellezza, eleganza, intelligenza, educazione... la
possibilità di dare il meglio del meglio del meglio?
Tutte
caratteristiche che non gli mancavano di certo. Peccato che, nella
stessa concentrazione, possedesse sfrontatezza e arroganza, ma stava
ben attento a non metterle in mostra davanti ai preziosi clienti.
Infatti, queste ultime qualità le riservava esclusivamente a me, ma
quale onore...
Parcheggiai la macchina in un garage ad ore
generalmente utilizzato dai dipendenti degli edifici circostanti,
adagiai Lidia nella sua carrozzina e mi avviai verso l'entrata del
palazzo con passo spedito nonostante l'istinto di sopravvivenza mi
urlasse di non fare cazzate e di tornarmene subito a casa.
Man mano che mi avvicinavo
all'ingresso dell'edificio mi accorsi di aver progressivamente
rallentato la velocità dei miei passi, il mio corpo cercava di
evitare quel posto come la peste bubbonica nonostante continuassi a
ripetermi del contrario. Camminavo lentamente, e all'improvviso mi
resi conto di aver rimandato questo confronto per troppo tempo,
divisa com'ero tra il timore di perdermi e di cascare nuovamente
sotto l'incantesimo del suo fascino e il ricordo di tutte le volte in
cui io e Darren avevamo fatto quel tipo di sesso bollente di cui i
bambini leggono solo nelle favole. Se Melanie mi avesse potuta vedere
probabilmente mi avrebbe tirato un paio di schiaffi, ordinandomi di
tornare in me e di non trasformarmi nello zerbino di Darren Reynolds,
ma Mel avrebbe potuto arrabbiarsi con me quanto voleva, non le avrei
comunque dato retta. Purtroppo per lei, anzi... purtroppo per me...
non c'era avvertimento che reggesse contro il sesso con un
ragazzaccio: quell'uomo insensibile e misogino mi attraeva come un
negozio di scarpe in periodo di saldi. Era troppo forte.
Quel brivido di colpevolezza che sentivo solo a stare con lui...
Quel desiderio disperato di cambiarlo...
E quel delizioso solletico che derivava dalla consapevolezza che non ci sarei mai riuscita.
Ormai non avevo più niente da
perdere, non poteva più farmi perdere niente, e poi avevo Lidia con
me, non potevo permettermi di lasciarmi distrarre da lui. Ormai
giunta davanti alla porta a vetri dell'ingresso mi fermai e chiusi
gli occhi, lasciando che l'aria mi riempisse i polmoni un paio di
volte... non pensavo che il suo solo ricordo mi potesse creare tanta
agitazione, e invece mi ritrovai già madida di sudore anche se mi
trovavo sessanta piani sotto di lui e il suo ufficio.
Quel posto
emanava lusso ovunque: dal liscio pavimento di marmo bianco, agli
intarsi di legno nelle colonne portanti, alle proiezioni giganti
sulle pareti che riproducevano ripetutamente la pubblicità
dell'azienda. Intorno a me una ventina di persone sciamavano da una
parte all'altra dell'atrio, parlando da sole e talvolta a voce
piuttosto alta; unica caratteristica che mi permise di classificare
tutte quelle persone come “dipendenti” erano i minuscoli
auricolari bluetooth che tenevano appesi alle orecchie e nascosti da
ciocche di capelli accuratamente sistemati con lacca, gel e forcine.
Parlavano...anzi, litigavano al cellulare.
Alcuni di loro si
voltarono, squadrando prima la carrozzina, poi me e di nuovo la
carrozzina, come se non ne avessero mai vista una in vita loro.
Continuai a camminare, stavolta più velocemente per sottrarmi ai
silenziosi giudizi di quelle persone, anche se avevo imparato da
tempo a non farci più caso. Svoltando nel corridoio alla mia destra
trovai una parete con tre ascensori dalle porte a specchio di cui uno
che si stava aprendo proprio in quell'istante. Mi si fermò il
respiro in mezzo alla gola, costringendomi a deglutire la saliva in
un attacco improvviso di
paura-strizza-diarrea-oddio-che-faccio-se-quello-mi-compare-davanti?.
No, non era ancora mezzogiorno e lui era solito farsi portare il
pranzo direttamente in ufficio, non avrei avuto alcuna possibilità
di ritrovarmelo davanti proprio adesso, pericolo scampato.
Anche
se, guardando questa situazione da un'altra prospettiva, un incontro
improvviso e non programmato non avrebbe nemmeno permesso di produrre
adrenalina sufficiente a farmi alzare di un poco la pressione, che in
quel momento era paragonabile a quella di un vegetale.
Mi guardai attorno in allerta, pronta
ad una qualsiasi forma di urla isteriche o di assalti da parte dei
fotografi, era tutto tranquillo. Allora mi ero sbagliata, non era
lei. Eppure... no no, era lei, ne sono sicura. Avevo guardato troppe
volte entrambe le stagioni di Dollhouse... non potevo essermi
sbagliata. Affiancata da un gorillone alto un metro e novanta e largo
due c'era proprio lei. Occhiali da sole dalle lenti completamente
schermate, sandali neri della D&G parzialmente coperti da un paio
di aderentissimi jeans bianchi e una maglietta grigia.
Eliza Dushku si accorse che la
stavo fissando (avrei dovuto farmi i complimenti da sola, ero così
brava a fare l'indifferente che la mascella mi arrivava all'altezza
delle ginocchia per lo stupore...), infatti si voltò verso di noi e
abbozzò un leggero sorriso intenerito alla vista della carrozzina in
cui Lidia stava ancora dormendo.
Accidenti, l'istinto di andare
lì a chiederle un autografo era fortissimo, esattamente quanto era
fortissima la paura che quell'armadio con doppie ante potesse
decidere di scansarmi e farmi volare a terra tre metri più lontano
con la sola forza del polso.
Ma cosa ci faceva un'attrice della
sua portata qui?
Però, in effetti, di ragioni ce ne
potevano essere: matrimonio, festa privata, pubblicità personale...
Ad un tratto non mi parve nemmeno così strano, l'azienda di
Darren era la migliore di Los Angeles nel suo campo, non mi
sorprenderebbe se lei fosse solo una delle clienti minori!
Prima
che si richiudessero le porte dell'ascensore (e prima di avere il
tempo di aggiungere un'altra figura di merda alla mia playlist
personale) mi ci catapultai dentro trascinando con me la carrozzina,
alla mia destra c'erano tutti i pulsanti dei piani etichettati coi
corrispondenti uffici. Lì si riconosceva la pignoleria di Darren:
per lui tutto doveva essere chiaro e preciso come le istruzioni sulla
scatola dell'aspirina.
Sala riunioni, Reynolds & Marelli.
Sulla targhetta dell'ultimo piano era inciso il cognome che mi
interessava e lo schiacciai senza più ombra di esitazioni e con un
po' di violenza gratuita.
Dopo qualche secondo le porte si
aprirono di nuovo e la quantità di luce che mi colpì le retine
rischiò seriamente di accecarmi: il soffitto era quasi interamente
composto da lampadine piatte al neon. Non osavo immaginare le
bollette trimestrali.
Uscii cautamente dall'ascensore e alla mia
sinistra trovai un alto bancone nero occupato da una ragazza dai
capelli neri come l'onice con un top giallo sole che parlava,
nonostante vedessi chiaramente che cercava di trattenere gli insulti
tra i denti, al telefono. La ragazza mi fece segno di aspettare,
limitandosi a sollevare la mano destra davanti a sé, dandomi la
possibilità di notare due narici che potevano essere l'orgoglio
degli spacciatori di coca.
-Sì, certo signorina Reed.
Prenoteremo il locale oggi stesso, non si preoccupi...ok, a presto!
La vedo passarsi un dito tra i liscissimi capelli e chiudere la
conversazione sbuffando ed alzando esasperata gli occhi azzurri al
cielo.
-Aspetti solo un altro minuto per favore.- mi sussurrò
sollevando un telefono dalla scrivania e portandoselo all'altro
orecchio.
-Certo, non ho fretta.- risposi, passandomi una mano
tra i capelli in un debole tentativo renderli meno orribili di quanto
fossero in realtà dopo mesi che non andavo dal parrucchiere.
-Gaby,
sono Kate. Dì a Pamela che Nikki Reed ora vuole il Lava Lounge per
la sua festa di compleanno.- ma bene, questa era una di quelle
assistenti che mi avevano attaccato il telefono in faccia.
-Lo
so, lo so che è la quinta volta che cambia. Dio, odio le attrici...
sì, sì ha detto che la sua agente sarebbe passata domani per darci
i dettagli. Ok, a dopo. Come posso aiutarla?- domandò dopo aver
appoggiato il telefono sul ripiano, senza però separarsene
completamente, era come se lo avesse fagocitato con le dita. Mi venne
istintivo sorridere e nel farlo scoprii un poco i denti col labbro
superiore, come fanno i cani quando si trovano di fronte a un rivale
o ad una minaccia.
-Senta, ehm...Kate. Mi può indicare dove si
trova l'ufficio di Darren Reynolds?
-Sempre dritto in fondo.
-Grazie.- feci per allontanarmi, ma dopo neanche mezzo metro mi
fermai e tornai indietro.
-Ehm, piccolo consiglio. Attenta al
giallo, ti dà un'aria un po' da epatite B.
Soddisfatta della mia
frecciatina, ripresi a camminare. Sul muro alla mia destra c'erano
una serie di fotografie formato poster di matrimoni ed eventi
cinematografici. Le guardai distrattamente, riconoscendo ogni tanto
una celebrità tra le decine di facce e abiti griffati in esse
rappresentati. Il matrimonio di Sarah Michelle Gellar, quello di
Beyoncè Knowels E Jay-Z, i ritagli di alcune prime della Summit
Entertainment e alcune campagne promozionali per delle altre aziende
come la Blackberry, Vogue ed eccetera. Ma una sola fotografia riuscì
a colpirmi più delle altre: quella del sublime matrimonio di Eva
Longoria e Tony Parker.
Tutte queste celebrità facevano la fila
da Darren affinché organizzasse loro eventi clamorosi e io ne avevo
davanti agli occhi solo alcuni esempi.
Rimasi incantata ad
osservare Eva Longoria nella sua foto finché una voce non mi fece
sobbalzare.
-Che bella bambina! Come si chiama?- una ragazza con
in mano una lattina di Diet Coke era china di fianco alla carrozzina
con un sorriso a trentadue denti, mi chinai a mia volta in avanti per
controllare che Lidia dormisse ancora.
-Lidia- sorrisi,
ripensando alle mille litigate che avevo avuto con Daniel quando
dovevamo sceglierle il nome, alla fine avevo vinto io, ovviamente...
quale donna sana di mente si lascerebbe piegare da una stupidissima
quanto imbarazzante regola di famiglia come chiamare la propria unica
figlia col nome della nonna paterna? Nel mio caso: Margaret Olivia
III. Mai!
La ragazza si raddrizzò sulle ginocchia,
ricomponendosi velocemente. Aveva dei lunghi capelli castani e occhi
dello stesso colore coperti da un paio di occhiali da vista Vogue.
Era alta come me, e il corpo magrissimo era avvolto in un vestito a ¾
bianco e nero, ai piedi un paio di ballerine bianche e nere in stile
snakeskin. Così elegante nella sua semplicità che io, nei miei
jeans e nel mio top a balze beige chiaro, mi sentii terribilmente
fuori posto e, se proprio volevo insultarmi da sola, una pezzente.
-Italiana?- mi chiese staccando lo sguardo da Lidia. Non era
difficile beccare le mie origini, l'accento italiano era ben presente
nella mia parlantina, ed anche in modo piuttosto pesante. Lo ammetto,
alla fine ci ero affezionata alle mie origini, ma solo se
generalizzavo a livello di città natale o regione, niente famiglia.
-Sì, sono di Modena, ma il padre è di qui.- ehh già, cognome a
parte ero molto fiera di essere nata nella patria del gnocco fritto e
della tigella... che alla fine sarebbero lo stesso impasto ma cotto
con metodi diversi, il primo fritto con l'olio e il secondo cotto al
forno. Io, per esempio, mi scaldavo le tigelle col tostapane e le
imbrattavo con la marmellata di albicocche... un orgasmo per i
sensi...
Per un attimo mi parve che la ragazza avesse gettato
un'occhiata fugace alla mia mano sinistra, ovviamente sprovvista
dell'anello che cercava, poi sollevò un poco la mano, all'altezza
della mia.
-Piacere, sono Gabrielle Halverson, assistente
personale di Pamela Marelli.- le afferrai le dita affusolate e
strinsi leggermente, sembravano così fragili... tutto di lei mi dava
un'aria di fragilità, come i bastoncini di Shangai.
-Eva Van De
Mason.
-Posso aiutarti in qualche modo?
-Certo, stavo
cercando Darren. Siamo vecchi amici e sono passata a trovarlo.- dopo
tutti quei rifiuti e quelle telefonate riappese, dire che lavoravo
per conto del 232 non mi pareva più una buona idea.
-Oh, beh sei
fortunata. È arrivato dieci minuti fa. Se vuoi, mentre ci parli ti
posso tenere la piccola nel mio ufficio, è proprio qui di fianco.-
il suo sorriso era talmente rassicurante che non potei rifiutare e
poi, da lì a tre minuti ci sarebbero state parecchie urla che
avrebbero potuto spaventarla.
-Ok, però se si sveglia vieni
subito a chiamarmi... diventa piuttosto intrattabile se non ha gente
conosciuta attorno.
-Non c'è problema.
Gabrielle prese il mio
posto dietro alla carrozzina ed entrò nella porta a vetro accanto a
quella di Darren. Perfetto, se Lidia si fosse svegliata l'avrei
sentita, a meno che la mia voce non avesse coperto la sua.
Mi
avvicinai al suo ufficio ed eccolo lì, inconfondibile, ed ero
passati solo un paio di mesi.
Chino sulla sua scrivania nel suo
completo di Ralph Lauren, davanti a uno schermo piatto iMac da 20
pollici. Spinsi la fredda maniglia verticale d'acciaio ed entrai.
-Gabrielle, ti ho detto che se hai problemi devi chiedere a
Pamela, non a me.
-Ciao Darren...
E, come se avesse appena
visto un fantasma, saltò in piedi con un sussulto. Lo vedi sgranare
gli occhi e boccheggiare come un pesce, alla ricerca di qualcosa da
dire.
-...Eva, ma cos...che ci fai qui?- domandò, cercando di
ricomporre un'espressione minimamente seria. Incrociai le braccia al
petto, avvicinandomi con passo lento alla scrivania in radica scura,
più incazzata che mai.
-Allora non sei a Londra a seguire un
evento... e non sei nemmeno a New York o a Roma...-l'elenco di scuse
che avevano usato le stagiste comprendeva anche Istanbul, Parigi,
Barcellona e Vancouver, ma non aveva importanza dal momento che lo
avevo sgamato già alla prima capitale. Darren odiava e sottolineo,
odiava viaggiare. Sono gli altri che viaggiavano per lui, non il
contrario.
-Ma di che stai parlando?
-Ci sono due cose che mi
esasperano Darren, essere ignorata e che mi si dicano le bugie...
-Signor Reynolds, sono arrivati i contratti degli sponsor per la
festa dell'anniversario di Sports Illustrated.
Senza che l'avessi
vista avvicinarsi, Kate entrò nell'ufficio ignorando completamente
la mia presenza e consegnando a Darren una pila di fogli da firmare.
Lui si sedette alla scrivania, tirò fuori dal taschino della giacca
la sua Mont Blanc e cominciò a firmare distrattamente i vari fogli
con accanto la portatrice di epatite B che gli indicava dove e se era
il caso di aggiungere anche il timbro aziendale.
-Non hai
risposto alla mia domanda...- mormorò senza staccare gli occhi dai
fogli.
-Hai smesso di mandarci le bariste al 232, mi hanno
mandata qui a chiederti quali sono le giustificazioni che hai per
ignorare il contratto che abbiamo stipulato con la tua agenzia.
-Ci
sono stati dei problemi di gestione del personale, abbiamo dovuto
mandare le ragazze in altri locali. E non è venuta di persona Nicole
a dirmi questa cosa perchè...
-Nicole non sa che sono qui, è un
favore che faccio a Melanie. Mi hanno licenziata e ho dovuto
divorziare da David.
-Sì, l'ho saputo, mi dispiace. Non hai
cercato un altro posto?- mi domandò, finalmente alzando il viso.
Aveva ignorato deliberatamente quello che avevo detto a proposito del
divorzio. Sentii la rabbia montare ulteriormente dentro di me, eppure
resistetti alla tentazione di strozzarlo davanti alla centralinista.
Ma che cazzo, ci fa o ci è? Contai mentalmente fino a dieci mentre
mi chinavo in avanti per appoggiare entrambe le mani sulla scrivania,
qui rischiavo di fare una carneficina.
-Io ho cercato, ma quando
passi gli ultimi sei anni a crescere dei figli e a lavorare al 232 è
alquanto difficile trovare un lavoro normale che ti dia uno straccio
di stipendio... stai annotando tutto tesoro o parlo troppo veloce per
te?- alzai lo sguardo e notai con un certo grado di sbigottimento che
la cocainomane era alquanto confusa, anche se era più probabile che
facesse semplicemente finta di non ricordare... imbecille...
-Va
bene, oggi pomeriggio chiamo Nicole e da domani riavrete le vostre
bariste. Grazie Kate, puoi andare.
-Molto bene.
Kate se ne
andò veloce e silenziosa come era entrata, senza salutare e
ancheggiando come una pin-up degli anni cinquanta. Nell'istante in
cui sentii la porta richiudersi alle nostre spalle, Darren si
trasformò: da grande magnate delle pubbliche relazioni freddo e
formale, all'uomo caldo e passionale che avevo sempre conosciuto.
Quello che, per la prima volta nella mia vita, mi aveva fatta sentire
desiderata per davvero... e dopo avevo conosciuto Daniel...
Allungò
lentamente una mano sulla scrivania, arrivando a sfiorarmi il braccio
con la punta delle dita, e io lo lasciai fare, come ogni volta...
quel gesto era solo il primo passo della sua personale tattica
seduttiva.
-C'è qualcos'altro che posso fare per te?- avrei
voluto chiedergli di aiutarmi a rimettere insieme i cocci della mia
vita che lui aveva contribuito a distruggere, avrei voluto chiedergli
di aiutarmi a crescere i miei figli perché da sola non avrei retto a
lungo per una seconda volta. E poi capii che non era necessario, che
avrei potuto farcela da sola anche stavolta; infatti, l'unica cosa
che mi serviva era proprio lì, davanti ai miei occhi...
-Dammi
un lavoro Darren.- domandai a mezza voce, a un soffio dal suo viso.
Lo vidi trattenere il fiato e ritirare subito la mano, come se avesse
appena ricevuto una scossa, ma non sarebbe stato in grado di
rifilarmi una scusa decente, non era mai stato capace di mentirmi né
di resistermi.
-Mi dispiace, Eva, ma al momento il mio staff è
al completo.- come volevasi dimostrare. Si alzò bruscamente dalla
sedia, voltandosi per prendere una borsa a tracolla da uomo
dall'appendiabiti vicino alla scrivania.
-Mi dispiace Eva, ma ora
devo andare.- cercò di allontanarsi verso la porta, ma con due passi
gli sbarrai la strada impedendogli di uscire e di sfuggirmi.
-Darren, ti ricordo che sei stato tu a cacciarmi in questa
situazione di merda. Tu me lo devi, porca miseria!
Rimasi immobile nella mia posizione, con
le mani ancorate sui fianchi, in attesa di una sua reazione che non
arrivò. Mi voltai a guardare attraverso il vetro della porta, sicura
di avere più di un paio di occhi puntati addosso: Gabrielle, Kate e
un altro dipendente ci stavano fissando dal corridoio.
-...non
farmi implorare, se vedi che non funziona allora mi licenzi... non
farmi implorare...
-... va bene,cominci domani alle nove. Vedi di
essere puntuale.- mi sfuggì un sorriso. Potevo, per la prima volta
da mesi, tirare un sospiro di sollievo.
-Mi conosci Darren, io
sono sempre puntuale!- e sfoderando un sorriso a seimila denti mi
avvicinai alla porta di vetro, dandogli le spalle. Era meglio
riprendere Lidia prima che cominciasse a lamentarsi.
-Hai ancora
un gran culo, lo sai?
-Sì, e tu sei ancora un pezzo di merda!-
risposi secca, lanciandogli un ultimo sguardo prima di uscire nel
corridoio. Lui soffocò una risata passandosi una mano sul viso,
sfiorandosi appena guance e labbra, poi uscì anche lui. L'osservai
percorrere tutto il corridoio a passo spedito fino all'ascensore, poi
mi girai verso l'ufficio di Gabrielle. La vidi attraverso il vetro,
impegnata a fare le moine a Lidia che giaceva ancora nella sua
carrozzina, sveglia e sorridente.
Come avrei fatto a coincidere il lavoro
coi figli?
Fino ad adesso mi ero preoccupata esclusivamente di
trovare un posto che mi potesse permettere di mantenerli e di andare
avanti, senza soffermarmi mai a come questo avrebbe potuto influire
sulle loro vite. Ma questo avrei potuto pensarci dopo, è vero che è
meglio prevenire che curare, ma se comincioavo a farmi le seghe
mentali anche su questo non ne sarei uscita viva.
Dopo aver messo a letto Lidia ed
Andrew mi concessi una mezz'oretta davanti alla tv spazzatura, in
compagnia di una bottiglia di succo di frutta alla pesca che avevo
intenzione di scolarmi nel lasso di tempo di un intervallo
pubblicitario. Distesi le gambe sul tavolino da caffè in vetro e
cominciai a fare zapping col telecomando, imbattendomi solo in
scadenti reality show e telenovele di quarta scelta. Finalmente
trovai qualcosa che mi potesse occupare il cervello per un po' e, nel
bel mezzo di un fantastico e dettagliatissimo documentario
sull'industria del porno, partì la suoneria del cellulare.
I
dug my key into the side
Of his pretty little souped-up 4 wheel
drive
Carved my name into his leather seat
I took a
Louisville slugger to both head lights
Slashed a hole in all 4
tires
And maybe next time he'll think before he cheats
Era Melanie, e prima che la suoneria svegliasse i bambini raccolsi il cellulare dal tavolino davanti a me e, ripiegando le gambe su un fianco sopra il cuscino del divano, accettai la chiamata.
-Dica...
-Eva Van De Mason, mi devi assolutamente dire chi ti sei dovuta scopare per riuscirci!- la voce di Mel era di almeno tre ottave più alta e, a giudicare dal tono, era anche incredula.
-Io non ho fatto niente Mel, ho solo chiesto perché e lui mi ha detto che hanno avuto dei problemi con l'azienda e che avrebbe chiamato Nicole entro sera...questo è quanto.
-Ma dai!- era chiaro che le risultava difficile crederci. Lei aveva conosciuto Darren molto prima di me e lo aveva etichettato subito come “stronzo opportunista”. Non aveva neanche tutti i torti, ma io avevo scoperto che quello era solo uno dei suoi lati.
-Giuro, e poi sono anche riuscita a strappargli un posto di lavoro.- aggiunsi, appoggiando un gomito sul bracciolo del divano e cercando di dedicare ancora un po' della mia scarsa attenzione al documentario. Dall'altra parte non sentii più niente.
-Mel? Ci sei ancora?- domandai, magari era caduta la linea.
-...non ci credo. Stiamo ancora parlando della stessa persona?
-A quanto pare...
-Scusa ma mi sto confondendo. Insomma, per colpa sua tu hai perso il lavoro e Dave... e adesso ti offre lui un lavoro?
-Avrà voluto farsi perdonare. Ma sai che ti dico Mel? Meglio così. Ho finito con la ricerca, niente più colloqui, niente più domande e niente più problemi col conto in banca che finisce in rosso ogni settimana!
-Brava! Verrei lì da te per festeggiare ma sono stanca morta anche io e il mio turno finirà tra tre ore...- la capivo. Lavorare alla reception del 232 poteva risultare più stancante del lavorare in altre mansioni del locale. Non potevi staccarti dal bancone, dovevi rispondere ad ogni telefonata con il tono più cordiale che possedevi, prendere gli appuntamenti, gestire le ragazze e poi batter cassa a fine serata. Non la biasimavo affatto.
-Non ti preoccupare, ci rifaremo questo fine settimana... adesso però vado a dormire che domani mi devo presentare alle nove in punto.
-Che posto ti ha dato?
-Boh, penso che lo scoprirò domani...
-Magari sarà lo stesso che avevi prima...- provò ad insinuare lei.
-Ha, ha, ha... non penso proprio!- esclamai, sforzandomi in una risata sarcastica. Ci mancava solo quello.
-Ooohh, lo sai che ti voglio bene...- mormorò poi la piccola provocatrice. Non mi venne niente con cui replicare, ero troppo stanca anche solo per ricordarmi il mio nome.
-Anch'io, buonanotte.
-Buonanotte!- e chiusi la conversazione. Dopo essermi assicurata che la porta principale e quella di servizio fossero ben chiuse a chiave, spensi le luci del soggiorno e salii le scale strascicando i piedi sul parquet. Una volta di sopra, entrai nella camera di Andrew a rimboccargli le coperte, che dormiva a pancia in giù con entrambe le mani sotto al cuscino e un piedino che sbucava fuori dal lenzuolo azzurro. La notte si rigirava talmente tanto che una volta lo trovai addormentato al contrario, coi piedi sul cuscino; come ci riesca lo sapeva solo lui. Gli sistemai il lenzuolo tra il materasso e le doghe del letto in modo che rimanesse abbastanza tirato da impedire ad Andrew di cadere, poi mi chinai su di lui e, facendo attenzione a non svegliarlo, gli sfiorai la fronte bionda con la punta delle labbra.
Uscii dalla sua cameretta lasciando la porta aperta ed entrai in quella di fronte, la mia. Lidia dormiva come un sasso nella sua culla di fianco al letto e non si sarebbe svegliata per almeno altre quattro ore. Sollevai il top a balze sfilandolo dall'alto e lo lanciai senza troppi complimenti nel cesto dei panni sporchi, poi mi levai anche i jeans, che fecero la stessa fine. Mi cambiai velocemente l'intimo e mi infilai con un certo sollievo il pigiama che tenevo sotto al cuscino, quel giorno aveva fatto troppo caldo per dei jeans aderenti e, probabilmente, non ne avrei tirato fuori un altro paio prima di settembre.
Le lenzuola erano fresche e morbide, mi aiutavano a contrastare la temperatura di Maggio che cominciava ad essere più estiva, purtroppo avevo questo difetto di fare molta fatica a sopportare il caldo.
Purtroppo, con Lidia ancora così piccola non potevo accendere il condizionatore, a meno che non fosse stato veramente necessario; quindi ero costretta a piccoli ma scomodi accorgimenti come le docce fredde e, quando proprio credevo di stare per impazzire, mettevo il pigiama o la canottiera nel frezeer per una ventina di minuti. Quando poi li reindossavo mi sembrava di aver nuotato in una piscina di ghiaccio per delle ore. Una goduria senza fine
Per fortuna non eravamo ancora a Luglio, la leggera camicia da notte e le lenzuola fresche di giornata potevano bastare per un altro pò.
E, per la prima volta da mesi, avrei dormito serenamente, senza la paura di svegliarmi il giorno dopo per affrontare tutti i problemi che mi si sarebbero posti davanti. No, non stanotte.
Le cose stavano cominciando a migliorare, eppure sentivo che stavo dimenticando qualcosa... ma cosa?