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Autore: Aching4perfection    09/04/2011    6 recensioni
L'ex marito odioso che, nonostante la nuova fiamma, non riesce a smettere di pensarti;
il nuovo capo disposto a tutto per averti nel suo letto ancora una volta;
il migliore amico che ti ha sempre offerto una spalla su cui sfogarti;
il ragazzo della porta accanto che, degli altri uomini, non sa niente.
Quali sono i segreti per gettare solide fondamenta in una relazione con un uomo?
E come fare quando, di uomini da gestire, ce ne sono ben quattro?
E se uno di loro custodisse un segreto che, se rivelato, sconvolgerebbe tutto e tutti, senza eccezioni?
Forse, le donne hanno davvero bisogno di un promemoria per ricordarsi che il romanticismo non è morto e che, a volte, si è talmente fortunate da incontrare un uomo che sappia ancora cosa sia o come lo si crei. Ma quand'è che abbiamo smesso di credere nel gesto romantico del regalare una rosa al primo appuntamento o nell'accettare un conto già pagato, quando siamo diventate così ciniche?
Io ho sempre avuto una sola convinzione sui film romantici, che non sono mai belli quanto i loro trailer.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Satisfaction'
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The delicious tickle



A NewYork era stato da poco costruito un grattacielo made in Italy che affacciava sulla Quinta Avenue, a due passi dall'Empire State Buliding. La Bizzi and Partners Development aveva ultimato la costruzione del 400 Fifth Avenue, un complesso di 200 metri d'altezza e 60 piani realizzato dagli architetti Gwathmey and Siegel. Il progetto, che aveva previsto investimenti per 670 milioni di dollari, ha ottenuto un finanziamento di 540 milioni da una cordata di banche italiane guidata dalla Unicredit Corporate Banking. Oggi ospita un albergo a cinque stelle, gestito da "The Setai" e 237 appartamenti dal costo tra i 21 mila e e i 34mila dollari al metro quadrato.
Ispirato dallo stile architettonico utilizzato per quell'edificio, il facoltoso imprenditore Darren Reynolds scelse di costruirne uno uguale nella Downtown di Los Angeles e di piazzarci dentro la sua agenzia di catering, la Reynolds Group, che oggi rientrava nella top three d'America.
L'organizzazione di eventi era l'applicazione dei criteri di gestione di progetti finalizzata alla creazione e sviluppo di eventi che, di solito, orbitava attorno alla promozione di un determinato prodotto o di una persona speciale ma, da quello che Darren mi raccontava durante i nostri incontri, il gioiello della corona della sua agenzia era l'organizzazione dei matrimoni di personaggi famosi, molto famosi.
Non avevo la più pallida idea di quale fosse il fattore che spingesse le star in procinto del matrimonio a scegliere l'azienda di Darren per l'organizzazione del loro giorno speciale. Carisma, bellezza, eleganza, intelligenza, educazione... la possibilità di dare il meglio del meglio del meglio?
Tutte caratteristiche che non gli mancavano di certo. Peccato che, nella stessa concentrazione, possedesse sfrontatezza e arroganza, ma stava ben attento a non metterle in mostra davanti ai preziosi clienti. Infatti, queste ultime qualità le riservava esclusivamente a me, ma quale onore...
Parcheggiai la macchina in un garage ad ore generalmente utilizzato dai dipendenti degli edifici circostanti, adagiai Lidia nella sua carrozzina e mi avviai verso l'entrata del palazzo con passo spedito nonostante l'istinto di sopravvivenza mi urlasse di non fare cazzate e di tornarmene subito a casa.


Man mano che mi avvicinavo all'ingresso dell'edificio mi accorsi di aver progressivamente rallentato la velocità dei miei passi, il mio corpo cercava di evitare quel posto come la peste bubbonica nonostante continuassi a ripetermi del contrario. Camminavo lentamente, e all'improvviso mi resi conto di aver rimandato questo confronto per troppo tempo, divisa com'ero tra il timore di perdermi e di cascare nuovamente sotto l'incantesimo del suo fascino e il ricordo di tutte le volte in cui io e Darren avevamo fatto quel tipo di sesso bollente di cui i bambini leggono solo nelle favole. Se Melanie mi avesse potuta vedere probabilmente mi avrebbe tirato un paio di schiaffi, ordinandomi di tornare in me e di non trasformarmi nello zerbino di Darren Reynolds, ma Mel avrebbe potuto arrabbiarsi con me quanto voleva, non le avrei comunque dato retta. Purtroppo per lei, anzi... purtroppo per me... non c'era avvertimento che reggesse contro il sesso con un ragazzaccio: quell'uomo insensibile e misogino mi attraeva come un negozio di scarpe in periodo di saldi. Era troppo forte.

Quel brivido di colpevolezza che sentivo solo a stare con lui...

Quel desiderio disperato di cambiarlo...

E quel delizioso solletico che derivava dalla consapevolezza che non ci sarei mai riuscita.


Ormai non avevo più niente da perdere, non poteva più farmi perdere niente, e poi avevo Lidia con me, non potevo permettermi di lasciarmi distrarre da lui. Ormai giunta davanti alla porta a vetri dell'ingresso mi fermai e chiusi gli occhi, lasciando che l'aria mi riempisse i polmoni un paio di volte... non pensavo che il suo solo ricordo mi potesse creare tanta agitazione, e invece mi ritrovai già madida di sudore anche se mi trovavo sessanta piani sotto di lui e il suo ufficio.
Quel posto emanava lusso ovunque: dal liscio pavimento di marmo bianco, agli intarsi di legno nelle colonne portanti, alle proiezioni giganti sulle pareti che riproducevano ripetutamente la pubblicità dell'azienda. Intorno a me una ventina di persone sciamavano da una parte all'altra dell'atrio, parlando da sole e talvolta a voce piuttosto alta; unica caratteristica che mi permise di classificare tutte quelle persone come “dipendenti” erano i minuscoli auricolari bluetooth che tenevano appesi alle orecchie e nascosti da ciocche di capelli accuratamente sistemati con lacca, gel e forcine. Parlavano...anzi, litigavano al cellulare.
Alcuni di loro si voltarono, squadrando prima la carrozzina, poi me e di nuovo la carrozzina, come se non ne avessero mai vista una in vita loro. Continuai a camminare, stavolta più velocemente per sottrarmi ai silenziosi giudizi di quelle persone, anche se avevo imparato da tempo a non farci più caso. Svoltando nel corridoio alla mia destra trovai una parete con tre ascensori dalle porte a specchio di cui uno che si stava aprendo proprio in quell'istante. Mi si fermò il respiro in mezzo alla gola, costringendomi a deglutire la saliva in un attacco improvviso di paura-strizza-diarrea-oddio-che-faccio-se-quello-mi-compare-davanti?.
No, non era ancora mezzogiorno e lui era solito farsi portare il pranzo direttamente in ufficio, non avrei avuto alcuna possibilità di ritrovarmelo davanti proprio adesso, pericolo scampato.
Anche se, guardando questa situazione da un'altra prospettiva, un incontro improvviso e non programmato non avrebbe nemmeno permesso di produrre adrenalina sufficiente a farmi alzare di un poco la pressione, che in quel momento era paragonabile a quella di un vegetale.


Mi guardai attorno in allerta, pronta ad una qualsiasi forma di urla isteriche o di assalti da parte dei fotografi, era tutto tranquillo. Allora mi ero sbagliata, non era lei. Eppure... no no, era lei, ne sono sicura. Avevo guardato troppe volte entrambe le stagioni di Dollhouse... non potevo essermi sbagliata. Affiancata da un gorillone alto un metro e novanta e largo due c'era proprio lei. Occhiali da sole dalle lenti completamente schermate, sandali neri della D&G parzialmente coperti da un paio di aderentissimi jeans bianchi e una maglietta grigia.

Eliza Dushku si accorse che la stavo fissando (avrei dovuto farmi i complimenti da sola, ero così brava a fare l'indifferente che la mascella mi arrivava all'altezza delle ginocchia per lo stupore...), infatti si voltò verso di noi e abbozzò un leggero sorriso intenerito alla vista della carrozzina in cui Lidia stava ancora dormendo.
Accidenti, l'istinto di andare lì a chiederle un autografo era fortissimo, esattamente quanto era fortissima la paura che quell'armadio con doppie ante potesse decidere di scansarmi e farmi volare a terra tre metri più lontano con la sola forza del polso.
Ma cosa ci faceva un'attrice della sua portata qui?
Però, in effetti, di ragioni ce ne potevano essere: matrimonio, festa privata, pubblicità personale...
Ad un tratto non mi parve nemmeno così strano, l'azienda di Darren era la migliore di Los Angeles nel suo campo, non mi sorprenderebbe se lei fosse solo una delle clienti minori!
Prima che si richiudessero le porte dell'ascensore (e prima di avere il tempo di aggiungere un'altra figura di merda alla mia playlist personale) mi ci catapultai dentro trascinando con me la carrozzina, alla mia destra c'erano tutti i pulsanti dei piani etichettati coi corrispondenti uffici. Lì si riconosceva la pignoleria di Darren: per lui tutto doveva essere chiaro e preciso come le istruzioni sulla scatola dell'aspirina.
Sala riunioni, Reynolds & Marelli. Sulla targhetta dell'ultimo piano era inciso il cognome che mi interessava e lo schiacciai senza più ombra di esitazioni e con un po' di violenza gratuita.
Dopo qualche secondo le porte si aprirono di nuovo e la quantità di luce che mi colpì le retine rischiò seriamente di accecarmi: il soffitto era quasi interamente composto da lampadine piatte al neon. Non osavo immaginare le bollette trimestrali.
Uscii cautamente dall'ascensore e alla mia sinistra trovai un alto bancone nero occupato da una ragazza dai capelli neri come l'onice con un top giallo sole che parlava, nonostante vedessi chiaramente che cercava di trattenere gli insulti tra i denti, al telefono. La ragazza mi fece segno di aspettare, limitandosi a sollevare la mano destra davanti a sé, dandomi la possibilità di notare due narici che potevano essere l'orgoglio degli spacciatori di coca.
-Sì, certo signorina Reed. Prenoteremo il locale oggi stesso, non si preoccupi...ok, a presto!
La vedo passarsi un dito tra i liscissimi capelli e chiudere la conversazione sbuffando ed alzando esasperata gli occhi azzurri al cielo.
-Aspetti solo un altro minuto per favore.- mi sussurrò sollevando un telefono dalla scrivania e portandoselo all'altro orecchio.
-Certo, non ho fretta.- risposi, passandomi una mano tra i capelli in un debole tentativo renderli meno orribili di quanto fossero in realtà dopo mesi che non andavo dal parrucchiere.
-Gaby, sono Kate. Dì a Pamela che Nikki Reed ora vuole il Lava Lounge per la sua festa di compleanno.- ma bene, questa era una di quelle assistenti che mi avevano attaccato il telefono in faccia.
-Lo so, lo so che è la quinta volta che cambia. Dio, odio le attrici... sì, sì ha detto che la sua agente sarebbe passata domani per darci i dettagli. Ok, a dopo. Come posso aiutarla?- domandò dopo aver appoggiato il telefono sul ripiano, senza però separarsene completamente, era come se lo avesse fagocitato con le dita. Mi venne istintivo sorridere e nel farlo scoprii un poco i denti col labbro superiore, come fanno i cani quando si trovano di fronte a un rivale o ad una minaccia.
-Senta, ehm...Kate. Mi può indicare dove si trova l'ufficio di Darren Reynolds?
-Sempre dritto in fondo.
-Grazie.- feci per allontanarmi, ma dopo neanche mezzo metro mi fermai e tornai indietro.
-Ehm, piccolo consiglio. Attenta al giallo, ti dà un'aria un po' da epatite B.
Soddisfatta della mia frecciatina, ripresi a camminare. Sul muro alla mia destra c'erano una serie di fotografie formato poster di matrimoni ed eventi cinematografici. Le guardai distrattamente, riconoscendo ogni tanto una celebrità tra le decine di facce e abiti griffati in esse rappresentati. Il matrimonio di Sarah Michelle Gellar, quello di Beyoncè Knowels E Jay-Z, i ritagli di alcune prime della Summit Entertainment e alcune campagne promozionali per delle altre aziende come la Blackberry, Vogue ed eccetera. Ma una sola fotografia riuscì a colpirmi più delle altre: quella del sublime matrimonio di Eva Longoria e Tony Parker.
Tutte queste celebrità facevano la fila da Darren affinché organizzasse loro eventi clamorosi e io ne avevo davanti agli occhi solo alcuni esempi.
Rimasi incantata ad osservare Eva Longoria nella sua foto finché una voce non mi fece sobbalzare.
-Che bella bambina! Come si chiama?- una ragazza con in mano una lattina di Diet Coke era china di fianco alla carrozzina con un sorriso a trentadue denti, mi chinai a mia volta in avanti per controllare che Lidia dormisse ancora.
-Lidia- sorrisi, ripensando alle mille litigate che avevo avuto con Daniel quando dovevamo sceglierle il nome, alla fine avevo vinto io, ovviamente... quale donna sana di mente si lascerebbe piegare da una stupidissima quanto imbarazzante regola di famiglia come chiamare la propria unica figlia col nome della nonna paterna? Nel mio caso: Margaret Olivia III. Mai!

La ragazza si raddrizzò sulle ginocchia, ricomponendosi velocemente. Aveva dei lunghi capelli castani e occhi dello stesso colore coperti da un paio di occhiali da vista Vogue. Era alta come me, e il corpo magrissimo era avvolto in un vestito a ¾ bianco e nero, ai piedi un paio di ballerine bianche e nere in stile snakeskin. Così elegante nella sua semplicità che io, nei miei jeans e nel mio top a balze beige chiaro, mi sentii terribilmente fuori posto e, se proprio volevo insultarmi da sola, una pezzente.
-Italiana?- mi chiese staccando lo sguardo da Lidia. Non era difficile beccare le mie origini, l'accento italiano era ben presente nella mia parlantina, ed anche in modo piuttosto pesante. Lo ammetto, alla fine ci ero affezionata alle mie origini, ma solo se generalizzavo a livello di città natale o regione, niente famiglia.
-Sì, sono di Modena, ma il padre è di qui.- ehh già, cognome a parte ero molto fiera di essere nata nella patria del gnocco fritto e della tigella... che alla fine sarebbero lo stesso impasto ma cotto con metodi diversi, il primo fritto con l'olio e il secondo cotto al forno. Io, per esempio, mi scaldavo le tigelle col tostapane e le imbrattavo con la marmellata di albicocche... un orgasmo per i sensi...
Per un attimo mi parve che la ragazza avesse gettato un'occhiata fugace alla mia mano sinistra, ovviamente sprovvista dell'anello che cercava, poi sollevò un poco la mano, all'altezza della mia.
-Piacere, sono Gabrielle Halverson, assistente personale di Pamela Marelli.- le afferrai le dita affusolate e strinsi leggermente, sembravano così fragili... tutto di lei mi dava un'aria di fragilità, come i bastoncini di Shangai.
-Eva Van De Mason.
-Posso aiutarti in qualche modo?
-Certo, stavo cercando Darren. Siamo vecchi amici e sono passata a trovarlo.- dopo tutti quei rifiuti e quelle telefonate riappese, dire che lavoravo per conto del 232 non mi pareva più una buona idea.
-Oh, beh sei fortunata. È arrivato dieci minuti fa. Se vuoi, mentre ci parli ti posso tenere la piccola nel mio ufficio, è proprio qui di fianco.- il suo sorriso era talmente rassicurante che non potei rifiutare e poi, da lì a tre minuti ci sarebbero state parecchie urla che avrebbero potuto spaventarla.
-Ok, però se si sveglia vieni subito a chiamarmi... diventa piuttosto intrattabile se non ha gente conosciuta attorno.
-Non c'è problema.
Gabrielle prese il mio posto dietro alla carrozzina ed entrò nella porta a vetro accanto a quella di Darren. Perfetto, se Lidia si fosse svegliata l'avrei sentita, a meno che la mia voce non avesse coperto la sua.
Mi avvicinai al suo ufficio ed eccolo lì, inconfondibile, ed ero passati solo un paio di mesi.
Chino sulla sua scrivania nel suo completo di Ralph Lauren, davanti a uno schermo piatto iMac da 20 pollici. Spinsi la fredda maniglia verticale d'acciaio ed entrai.
-Gabrielle, ti ho detto che se hai problemi devi chiedere a Pamela, non a me.
-Ciao Darren...
E, come se avesse appena visto un fantasma, saltò in piedi con un sussulto. Lo vedi sgranare gli occhi e boccheggiare come un pesce, alla ricerca di qualcosa da dire.
-...Eva, ma cos...che ci fai qui?- domandò, cercando di ricomporre un'espressione minimamente seria. Incrociai le braccia al petto, avvicinandomi con passo lento alla scrivania in radica scura, più incazzata che mai.
-Allora non sei a Londra a seguire un evento... e non sei nemmeno a New York o a Roma...-l'elenco di scuse che avevano usato le stagiste comprendeva anche Istanbul, Parigi, Barcellona e Vancouver, ma non aveva importanza dal momento che lo avevo sgamato già alla prima capitale. Darren odiava e sottolineo, odiava viaggiare. Sono gli altri che viaggiavano per lui, non il contrario.
-Ma di che stai parlando?
-Ci sono due cose che mi esasperano Darren, essere ignorata e che mi si dicano le bugie...
-Signor Reynolds, sono arrivati i contratti degli sponsor per la festa dell'anniversario di Sports Illustrated.
Senza che l'avessi vista avvicinarsi, Kate entrò nell'ufficio ignorando completamente la mia presenza e consegnando a Darren una pila di fogli da firmare. Lui si sedette alla scrivania, tirò fuori dal taschino della giacca la sua Mont Blanc e cominciò a firmare distrattamente i vari fogli con accanto la portatrice di epatite B che gli indicava dove e se era il caso di aggiungere anche il timbro aziendale.
-Non hai risposto alla mia domanda...- mormorò senza staccare gli occhi dai fogli.
-Hai smesso di mandarci le bariste al 232, mi hanno mandata qui a chiederti quali sono le giustificazioni che hai per ignorare il contratto che abbiamo stipulato con la tua agenzia.
-Ci sono stati dei problemi di gestione del personale, abbiamo dovuto mandare le ragazze in altri locali. E non è venuta di persona Nicole a dirmi questa cosa perchè...
-Nicole non sa che sono qui, è un favore che faccio a Melanie. Mi hanno licenziata e ho dovuto divorziare da David.
-Sì, l'ho saputo, mi dispiace. Non hai cercato un altro posto?- mi domandò, finalmente alzando il viso. Aveva ignorato deliberatamente quello che avevo detto a proposito del divorzio. Sentii la rabbia montare ulteriormente dentro di me, eppure resistetti alla tentazione di strozzarlo davanti alla centralinista. Ma che cazzo, ci fa o ci è? Contai mentalmente fino a dieci mentre mi chinavo in avanti per appoggiare entrambe le mani sulla scrivania, qui rischiavo di fare una carneficina.
-Io ho cercato, ma quando passi gli ultimi sei anni a crescere dei figli e a lavorare al 232 è alquanto difficile trovare un lavoro normale che ti dia uno straccio di stipendio... stai annotando tutto tesoro o parlo troppo veloce per te?- alzai lo sguardo e notai con un certo grado di sbigottimento che la cocainomane era alquanto confusa, anche se era più probabile che facesse semplicemente finta di non ricordare... imbecille...
-Va bene, oggi pomeriggio chiamo Nicole e da domani riavrete le vostre bariste. Grazie Kate, puoi andare.
-Molto bene.
Kate se ne andò veloce e silenziosa come era entrata, senza salutare e ancheggiando come una pin-up degli anni cinquanta. Nell'istante in cui sentii la porta richiudersi alle nostre spalle, Darren si trasformò: da grande magnate delle pubbliche relazioni freddo e formale, all'uomo caldo e passionale che avevo sempre conosciuto. Quello che, per la prima volta nella mia vita, mi aveva fatta sentire desiderata per davvero... e dopo avevo conosciuto Daniel...
Allungò lentamente una mano sulla scrivania, arrivando a sfiorarmi il braccio con la punta delle dita, e io lo lasciai fare, come ogni volta... quel gesto era solo il primo passo della sua personale tattica seduttiva.
-C'è qualcos'altro che posso fare per te?- avrei voluto chiedergli di aiutarmi a rimettere insieme i cocci della mia vita che lui aveva contribuito a distruggere, avrei voluto chiedergli di aiutarmi a crescere i miei figli perché da sola non avrei retto a lungo per una seconda volta. E poi capii che non era necessario, che avrei potuto farcela da sola anche stavolta; infatti, l'unica cosa che mi serviva era proprio lì, davanti ai miei occhi...
-Dammi un lavoro Darren.- domandai a mezza voce, a un soffio dal suo viso. Lo vidi trattenere il fiato e ritirare subito la mano, come se avesse appena ricevuto una scossa, ma non sarebbe stato in grado di rifilarmi una scusa decente, non era mai stato capace di mentirmi né di resistermi.
-Mi dispiace, Eva, ma al momento il mio staff è al completo.- come volevasi dimostrare. Si alzò bruscamente dalla sedia, voltandosi per prendere una borsa a tracolla da uomo dall'appendiabiti vicino alla scrivania.
-Mi dispiace Eva, ma ora devo andare.- cercò di allontanarsi verso la porta, ma con due passi gli sbarrai la strada impedendogli di uscire e di sfuggirmi.
-Darren, ti ricordo che sei stato tu a cacciarmi in questa situazione di merda. Tu me lo devi, porca miseria!

Rimasi immobile nella mia posizione, con le mani ancorate sui fianchi, in attesa di una sua reazione che non arrivò. Mi voltai a guardare attraverso il vetro della porta, sicura di avere più di un paio di occhi puntati addosso: Gabrielle, Kate e un altro dipendente ci stavano fissando dal corridoio.
-...non farmi implorare, se vedi che non funziona allora mi licenzi... non farmi implorare...
-... va bene,cominci domani alle nove. Vedi di essere puntuale.- mi sfuggì un sorriso. Potevo, per la prima volta da mesi, tirare un sospiro di sollievo.
-Mi conosci Darren, io sono sempre puntuale!- e sfoderando un sorriso a seimila denti mi avvicinai alla porta di vetro, dandogli le spalle. Era meglio riprendere Lidia prima che cominciasse a lamentarsi.
-Hai ancora un gran culo, lo sai?
-Sì, e tu sei ancora un pezzo di merda!- risposi secca, lanciandogli un ultimo sguardo prima di uscire nel corridoio. Lui soffocò una risata passandosi una mano sul viso, sfiorandosi appena guance e labbra, poi uscì anche lui. L'osservai percorrere tutto il corridoio a passo spedito fino all'ascensore, poi mi girai verso l'ufficio di Gabrielle. La vidi attraverso il vetro, impegnata a fare le moine a Lidia che giaceva ancora nella sua carrozzina, sveglia e sorridente.

Come avrei fatto a coincidere il lavoro coi figli?
Fino ad adesso mi ero preoccupata esclusivamente di trovare un posto che mi potesse permettere di mantenerli e di andare avanti, senza soffermarmi mai a come questo avrebbe potuto influire sulle loro vite. Ma questo avrei potuto pensarci dopo, è vero che è meglio prevenire che curare, ma se comincioavo a farmi le seghe mentali anche su questo non ne sarei uscita viva.


Dopo aver messo a letto Lidia ed Andrew mi concessi una mezz'oretta davanti alla tv spazzatura, in compagnia di una bottiglia di succo di frutta alla pesca che avevo intenzione di scolarmi nel lasso di tempo di un intervallo pubblicitario. Distesi le gambe sul tavolino da caffè in vetro e cominciai a fare zapping col telecomando, imbattendomi solo in scadenti reality show e telenovele di quarta scelta. Finalmente trovai qualcosa che mi potesse occupare il cervello per un po' e, nel bel mezzo di un fantastico e dettagliatissimo documentario sull'industria del porno, partì la suoneria del cellulare.
I dug my key into the side
Of his pretty little souped-up 4 wheel drive
Carved my name into his leather seat
I took a Louisville slugger to both head lights
Slashed a hole in all 4 tires
And maybe next time he'll think before he cheats


Era Melanie, e prima che la suoneria svegliasse i bambini raccolsi il cellulare dal tavolino davanti a me e, ripiegando le gambe su un fianco sopra il cuscino del divano, accettai la chiamata.
-Dica...
-Eva Van De Mason, mi devi assolutamente dire chi ti sei dovuta scopare per riuscirci!- la voce di Mel era di almeno tre ottave più alta e, a giudicare dal tono, era anche incredula.
-Io non ho fatto niente Mel, ho solo chiesto perché e lui mi ha detto che hanno avuto dei problemi con l'azienda e che avrebbe chiamato Nicole entro sera...questo è quanto.
-Ma dai!- era chiaro che le risultava difficile crederci. Lei aveva conosciuto Darren molto prima di me e lo aveva etichettato subito come “stronzo opportunista”. Non aveva neanche tutti i torti, ma io avevo scoperto che quello era solo uno dei suoi lati.
-Giuro, e poi sono anche riuscita a strappargli un posto di lavoro.- aggiunsi, appoggiando un gomito sul bracciolo del divano e cercando di dedicare ancora un po' della mia scarsa attenzione al documentario. Dall'altra parte non sentii più niente.
-Mel? Ci sei ancora?- domandai, magari era caduta la linea.
-...non ci credo. Stiamo ancora parlando della stessa persona?
-A quanto pare...
-Scusa ma mi sto confondendo. Insomma, per colpa sua tu hai perso il lavoro e Dave... e adesso ti offre lui un lavoro?
-Avrà voluto farsi perdonare. Ma sai che ti dico Mel? Meglio così. Ho finito con la ricerca, niente più colloqui, niente più domande e niente più problemi col conto in banca che finisce in rosso ogni settimana!
-Brava! Verrei lì da te per festeggiare ma sono stanca morta anche io e il mio turno finirà tra tre ore...- la capivo. Lavorare alla reception del 232 poteva risultare più stancante del lavorare in altre mansioni del locale. Non potevi staccarti dal bancone, dovevi rispondere ad ogni telefonata con il tono più cordiale che possedevi, prendere gli appuntamenti, gestire le ragazze e poi batter cassa a fine serata. Non la biasimavo affatto.
-Non ti preoccupare, ci rifaremo questo fine settimana... adesso però vado a dormire che domani mi devo presentare alle nove in punto.
-Che posto ti ha dato?
-Boh, penso che lo scoprirò domani...
-Magari sarà lo stesso che avevi prima...- provò ad insinuare lei.
-Ha, ha, ha... non penso proprio!- esclamai, sforzandomi in una risata sarcastica. Ci mancava solo quello.
-Ooohh, lo sai che ti voglio bene...- mormorò poi la piccola provocatrice. Non mi venne niente con cui replicare, ero troppo stanca anche solo per ricordarmi il mio nome.
-Anch'io, buonanotte.
-Buonanotte!- e chiusi la conversazione. Dopo essermi assicurata che la porta principale e quella di servizio fossero ben chiuse a chiave, spensi le luci del soggiorno e salii le scale strascicando i piedi sul parquet. Una volta di sopra, entrai nella camera di Andrew a rimboccargli le coperte, che dormiva a pancia in giù con entrambe le mani sotto al cuscino e un piedino che sbucava fuori dal lenzuolo azzurro. La notte si rigirava talmente tanto che una volta lo trovai addormentato al contrario, coi piedi sul cuscino; come ci riesca lo sapeva solo lui. Gli sistemai il lenzuolo tra il materasso e le doghe del letto in modo che rimanesse abbastanza tirato da impedire ad Andrew di cadere, poi mi chinai su di lui e, facendo attenzione a non svegliarlo, gli sfiorai la fronte bionda con la punta delle labbra.
Uscii dalla sua cameretta lasciando la porta aperta ed entrai in quella di fronte, la mia. Lidia dormiva come un sasso nella sua culla di fianco al letto e non si sarebbe svegliata per almeno altre quattro ore. Sollevai il top a balze sfilandolo dall'alto e lo lanciai senza troppi complimenti nel cesto dei panni sporchi, poi mi levai anche i jeans, che fecero la stessa fine. Mi cambiai velocemente l'intimo e mi infilai con un certo sollievo il pigiama che tenevo sotto al cuscino, quel giorno aveva fatto troppo caldo per dei jeans aderenti e, probabilmente, non ne avrei tirato fuori un altro paio prima di settembre.
Le lenzuola erano fresche e morbide, mi aiutavano a contrastare la temperatura di Maggio che cominciava ad essere più estiva, purtroppo avevo questo difetto di fare molta fatica a sopportare il caldo.
Purtroppo, con Lidia ancora così piccola non potevo accendere il condizionatore, a meno che non fosse stato veramente necessario; quindi ero costretta a piccoli ma scomodi accorgimenti come le docce fredde e, quando proprio credevo di stare per impazzire, mettevo il pigiama o la canottiera nel frezeer per una ventina di minuti. Quando poi li reindossavo mi sembrava di aver nuotato in una piscina di ghiaccio per delle ore. Una goduria senza fine
Per fortuna non eravamo ancora a Luglio, la leggera camicia da notte e le lenzuola fresche di giornata potevano bastare per un altro pò.
E, per la prima volta da mesi, avrei dormito serenamente, senza la paura di svegliarmi il giorno dopo per affrontare tutti i problemi che mi si sarebbero posti davanti. No, non stanotte.
Le cose stavano cominciando a migliorare, eppure sentivo che stavo dimenticando qualcosa... ma cosa?

   
 
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