Lo
spazio bianco
Un
altro giorno vacuo perso nell’impotenza di cambiare
ciò che per altrui volontà è
immutabile. Un’altra notte insonne a masturbarmi il cervello
in cerca di una soluzione
possibile. Ore che si aggiungono ad altre ore inutilmente spese a
cercare un
perché, un riconoscimento, una qualsiasi testimonianza di
contare qualcosa.
Un
intercalare ritorna maligno a battere alla mia porta. Ci fossi oppure
no,
cambierebbe qualcosa?
Nelle
ossa mi sento una condanna, la solitudine non mi lascerà
scampo e fino all’ultimo
respiro non troverò mai pace.
E’
l’unica certezza che mi è rimasta.
Tra
il giorno e la notte non c’è più
differenza, gl’incubi ormai popolano ogni
distrazione dalle quotidiane, generiche, incombenze e la veglia
è peggiore del
sonno tormentato. Perché mi sento come chi sia costretto a
camminare suo
malgrado in bilico, tra ciò che è stato e quel
che sarà, avanzando su di una
lunga corda tesa su di un baratro.
Ho
mai avuto paura del futuro? No, fino a poco tempo fa no. Era ancora
ieri che sfidavo
l’ignoto protendendo con arroganza il capo. Ma ora non sono
più io.
Annaspo
al buio, accendo la luce, ma c’è solo un paio di
braccia disposte a cingermi e
sono le mie.
Semmai
ce ne fossero altre sono sicura che esiterebbero, stentando a
riconoscermi. Chi
mi sta intorno non sa, non immagina e se pure gli fosse detto, non ci
crederebbe. Ché è cambiato persino il mio odore.
Non è più quello acre e
muschiato di un corpo vitale, è diventato acidulo mentre
stillo sudore gelido che
ammorba la mia stessa aria e mi fa fremere le narici.
Dondolandomi
avanti e indietro, avanti e indietro,
come se potesse essermi di consolazione, continuo a ripetermi che non
sono io. Ma
non serve a nulla, il cuore accelera, rallenta e ritorna a battere come
un tam
tam nella giungla, mandando un messaggio non si sa a chi, non si sa per
cosa,
risalendo strisciante fino ad acquattarsi nella gola. Il ventre
è contratto in
una morsa, mi sembra di soffocare, ho caldo, ho freddo e
l’angoscia si fa
spazio, dilagando dentro me. Urlo impotente, artigliando le lenzuola
strattonate. Non sono io. Non è da me.
E
allora piango e piango, come se le lacrime potessero servire a
qualcosa, come
se lo squasso dei singhiozzi troppo a lungo repressi potesse liberarmi.
Ma non
c’è scampo e tutto quello che credevo di sapere
è svanito. Vorrei solo avere
abbastanza forza da risollevarmi e smetterla. Ma non sono io.
L’oppressione
aumenta, monta, travolge ogni pensiero razionale e allora cammino
avanti e
indietro, come un animale in gabbia tra le domestiche mura, come se
poi, così
facendo, potessi sottrarmi a questo giogo. Ma non si sfugge e chiedermi
dove
sono, dove mi sono persa, non fa che aumentare lo strazio.
Credevo
che la disperazione fosse un pozzo oscuro, ma sbagliavo.
L’immaginavo come un
labirinto fitto di rovi e invece è un spazio bianco, dove la
prospettiva
illimitata e non c’è altri al di fuori di te.
Posso percorrerlo in lungo e in
largo e camminarci fino a cadere esausta, giacché non ci
sono barriere, né ostacoli.
E’ privo d’uscita e manca anche
l’entrata, ci
sei dentro e basta ed è inutile cercare un qualsiasi
appiglio o un punto d’orientamento. L’unica
presenza tangibile, al punto tale
che pare addirittura di poterlo toccare, è un gran silenzio.
Eppure non è del
tutto tale, perché di eco in eco, mi sussurra tutto quello
che a forza di
volontà sono riuscita fin qui ad ammutolire.
Spalanco
le palpebre guardando ciò che mi circonda e tastando le
superfici intorno a me,
nella speranza che il tatto mi riporti alla realtà. Sono
nella mia camera, sul
mio letto, dappresso a tutto ciò che dovrebbe essermi
familiare, mi ripeto. Ma
è inutile, non lo è più,
poiché sebbene sia qui, lo veda e mi sia chiaro, allo
stesso tempo sono nello spazio bianco che si allunga fino
a perdita d’occhio.
Un
chiarore lattiginoso mi circonda, abbonda di luce cruda qui, ma il
vuoto non produce
ombra e con sgomento mi rendo conto di aver perso la mia.
Ciò che mi dava la
prospettiva di me stessa mi ha abbandonato e sono priva di qualsiasi
difesa.
Le
lacrime evaporano senza lasciare scia, il movimento è
rallentato e afono. La
voce strozzata e le mani afferrano il nulla nell’aria
rarefatta attorno a me. Ho
smarrito il tempo e le parole, c’è solo un cupo
adesso. Non sono io. Non è da
me.
Apro
gli occhi e non cambia niente, sono ancora nello spazio bianco.