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Autore: Aurelia major    19/04/2011    0 recensioni
L’osmosi può essere fisica o psicologica. Una consiste nel passaggio e la fusione di due liquidi di diversa concentrazione, la seconda invece, avviene attraverso l’influenza tra persone, modi, stili di vita e culture. Nei brevi racconti qui presentati tento di sviscerare entrambe, poiché, incidentali oppure metafisici che siano, questi trattano di frammenti di vita diretta, ma anche ipoteticamente vissuta. Ché per osmosi chiunque potrebbe essere contemporaneamente sé stesso e mille altri.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Lo spazio bianco

 

 

 

Un altro giorno vacuo perso nell’impotenza di cambiare ciò che per altrui volontà è immutabile. Un’altra notte insonne a masturbarmi il cervello in cerca di una soluzione possibile. Ore che si aggiungono ad altre ore inutilmente spese a cercare un perché, un riconoscimento, una qualsiasi testimonianza di contare qualcosa.

Un intercalare ritorna maligno a battere alla mia porta. Ci fossi oppure no, cambierebbe qualcosa?

Nelle ossa mi sento una condanna, la solitudine non mi lascerà scampo e fino all’ultimo respiro non troverò mai pace.

E’ l’unica certezza che mi è rimasta.

Tra il giorno e la notte non c’è più differenza, gl’incubi ormai popolano ogni distrazione dalle quotidiane, generiche, incombenze e la veglia è peggiore del sonno tormentato. Perché mi sento come chi sia costretto a camminare suo malgrado in bilico, tra ciò che è stato e quel che sarà, avanzando su di una lunga corda tesa su di un baratro.

Ho mai avuto paura del futuro? No, fino a poco tempo fa no. Era ancora ieri che sfidavo l’ignoto protendendo con arroganza il capo. Ma ora non sono più io.

Annaspo al buio, accendo la luce, ma c’è solo un paio di braccia disposte a cingermi e sono le mie.

Semmai ce ne fossero altre sono sicura che esiterebbero, stentando a riconoscermi. Chi mi sta intorno non sa, non immagina e se pure gli fosse detto, non ci crederebbe. Ché è cambiato persino il mio odore. Non è più quello acre e muschiato di un corpo vitale, è diventato acidulo mentre stillo sudore gelido che ammorba la mia stessa aria e mi fa fremere le narici.

Dondolandomi avanti e indietro, avanti e  indietro, come se potesse essermi di consolazione, continuo a ripetermi che non sono io. Ma non serve a nulla, il cuore accelera, rallenta e ritorna a battere come un tam tam nella giungla, mandando un messaggio non si sa a chi, non si sa per cosa, risalendo strisciante fino ad acquattarsi nella gola. Il ventre è contratto in una morsa, mi sembra di soffocare, ho caldo, ho freddo e l’angoscia si fa spazio, dilagando dentro me. Urlo impotente, artigliando le lenzuola strattonate. Non sono io. Non è da me.

E allora piango e piango, come se le lacrime potessero servire a qualcosa, come se lo squasso dei singhiozzi troppo a lungo repressi potesse liberarmi. Ma non c’è scampo e tutto quello che credevo di sapere è svanito. Vorrei solo avere abbastanza forza da risollevarmi e smetterla. Ma non sono io.

L’oppressione aumenta, monta, travolge ogni pensiero razionale e allora cammino avanti e indietro, come un animale in gabbia tra le domestiche mura, come se poi, così facendo, potessi sottrarmi a questo giogo. Ma non si sfugge e chiedermi dove sono, dove mi sono persa, non fa che aumentare lo strazio.

Credevo che la disperazione fosse un pozzo oscuro, ma sbagliavo. L’immaginavo come un labirinto fitto di rovi e invece è un spazio bianco, dove la prospettiva illimitata e non c’è altri al di fuori di te. Posso percorrerlo in lungo e in largo e camminarci fino a cadere esausta, giacché non ci sono barriere, né ostacoli. E’ privo d’uscita e manca anche l’entrata,  ci sei dentro e basta ed è inutile cercare un qualsiasi appiglio o un punto d’orientamento. L’unica presenza tangibile, al punto tale che pare addirittura di poterlo toccare, è un gran silenzio. Eppure non è del tutto tale, perché di eco in eco, mi sussurra tutto quello che a forza di volontà sono riuscita fin qui ad ammutolire.

Spalanco le palpebre guardando ciò che mi circonda e tastando le superfici intorno a me, nella speranza che il tatto mi riporti alla realtà. Sono nella mia camera, sul mio letto, dappresso a tutto ciò che dovrebbe essermi familiare, mi ripeto. Ma è inutile, non lo è più, poiché sebbene sia qui, lo veda e mi sia chiaro, allo stesso tempo sono nello spazio bianco che si allunga  fino a perdita d’occhio.

Un chiarore lattiginoso mi circonda, abbonda di luce cruda qui, ma il vuoto non produce ombra e con sgomento mi rendo conto di aver perso la mia. Ciò che mi dava la prospettiva di me stessa mi ha abbandonato e sono priva di qualsiasi difesa.

Le lacrime evaporano senza lasciare scia, il movimento è rallentato e afono. La voce strozzata e le mani afferrano il nulla nell’aria rarefatta attorno a me. Ho smarrito il tempo e le parole, c’è solo un cupo adesso. Non sono io. Non è da me.

Apro gli occhi e non cambia niente, sono ancora nello spazio bianco. 

   

 

   
 
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