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Autore: Miss Demy    22/04/2011    29 recensioni
C'è una melodia che suona scandendo i battiti del cuore. E' una melodia fatta di dolci ricordi, di tristi realtà, di amare accettazioni.
E' una melodia che suona quando si prova amore puro e incondizionato.
Che sia per la persona amata o per il frutto dell'amore per quella persona.
Usagi la sente suonare ogni giorno dentro di sè. Da ormai cinque anni.
Dal cap. 3:
- "Il tuo cuore batte forte, Usako."
"Sembra una melodia, Mamo-chan. Ascoltala insieme a me, stanotte."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chibiusa, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Cap. 6: Setsuna


Erano le 12.45 e Rei e Ami lasciarono il Crown; Ami aveva ancora parecchio da studiare per il prossimo esame, per lei studiare non era mai abbastanza, era sempre possibile fare di più e fare di meglio. Lei teneva molto a diventare una brava psichiatra e dopo un intero anno passato in una delle Università più prestigiose della Germania, grazie ad una borsa di studio, era tornata a casa per continuare lì il suo percorso universitario. Il mese successivo avrebbe dovuto sostenere l’esame di anatomia e, sebbene avesse già terminato di studiare l’intero volume, per lei non era ancora sufficiente.
Rei, invece, da quando il nonno era diventato sempre più debole a causa della vecchiaia, si era dovuta occupare da sola del Tempio; aveva dunque deciso di assumere un aiutante e, verso le 13.00, avrebbe iniziato gli incontri con i candidati.
 
Una volta andate via le sue amiche, Usagi tenendo per mano Chibiusa si avvicinò ai due ragazzi. Mamoru si chinò e prese in braccio la piccola e, rivolgendosi a Motoki con un sorriso disse:
“Sarà meglio che andiamo anche noi, si è fatto tardi.” Guardò la bambina e con dolcezza riprese: “La mia Chibi-chan avrà fame.”
In quel momento, mentre Mamoru e Chibiusa si guardavano con un’espressione piena di amore e affetto come solo quella che lega un padre alla sua adorata bambina può essere; Motoki posò il suo sguardo non sull’amico né su quell’adorabile birbante contenta di avere le attenzioni del papà bensì su Usagi e un senso di tenerezza lo assalì. Vide la ragazza perdersi nell’immagine delle due persone più importanti della sua vita con gli occhi luminosi quasi lucidi che esprimevano vita, e con le labbra che accennavano un sorriso malinconico, dispiaciuto ma allo stesso tempo un po’ commosso.
Avrebbe voluto fare di più, avrebbe potuto essere d’aiuto affinché i suoi più cari amici avessero avuto la felicità che meritavano.
“Usagi, ascolta” iniziò attirando l’attenzione non solo della ragazza, che si voltò curiosa, ma anche di Mamoru.
“Come vedi oramai qui non c’è molta gente; le persone con questo tempo preferiscono andare al mare.” Usagi lo guardava aggrottando la fronte e lui riprese: “Credo che me la caverò da solo questa settimana, ti do la settimana di ferie che mi avevi chiesto qualche tempo fa ma che non potevo concederti dato che c’era sempre confusione qui” facendole l’occhiolino in segno di complicità che ormai li legava da cinque anni.
Usagi rimase per un attimo in silenzio, stupita per quel gesto; lei sapeva che non c’era mai stata nessuna sua richiesta di ferie, capiva che Motoki cercava di farle passare più tempo possibile con il suo Mamo-chan.
Gli donò un sorriso pieno di stima e di riconoscenza. “Grazie” si limitò a dire come un sussurro, guardandolo con occhi che esprimevano tante parole piene d’affetto che probabilmente a voce non avrebbero sortito lo stesso effetto.
 
Lasciarono il Crown dirigendosi verso casa e, mentre Chibiusa teneva per mano i suoi genitori, contenta per quella sensazione di completezza che le procurava un forte calore al cuore, Usagi osservava Mamoru con la coda dell’occhio, notandolo serio, assorto nei suoi pensieri: pensieri che lei non conosceva ma che evidentemente dovevano essere molto importanti dato che continuava a guardare davanti a sé senza dire neppure una parola.
 
Una volta rientrati a casa, Mamoru si diresse nella sua camera tirando fuori dalla valigia ancora da disfare una busta bianca di plastica.
“Guardate cosa ho portato!” disse una volta raggiunte in cucina Usagi e Chibiusa; esse si avvicinarono, aspettando che il ragazzo estrasse il contenuto, sempre più curiose.
Aggrottarono la fronte fin quando lui, sorridendo divertito per quelle espressioni impazienti, spiegò:
“Sono le posate occidentali! Questa si chiama forchetta, questo cucchiaio e questo coltello”, prendendo dallo scatolo rettangolare tre oggetti di ferro.
“Come si usano, papà?” domandò Chibiusa incantata da quegli oggetti che aveva spesso visto nei film americani.
Mamoru allontanò il coltello dalla bambina che cercava di prenderlo per guardarlo meglio.
“Le usiamo a pranzo, così ti spiego, vedrai, è divertente” rispose riposandole nella confezione.
 
Il pranzo fu per Chibiusa un vero e proprio divertimento; sia lei che la madre non riuscivano a tenere gli spaghetti tra i denti della forchetta, facendoli scivolare di nuovo sui loro piatti se non addirittura sulla tovaglia.
Mamoru ogni tanto  lasciava uscire una fragorosa risata, soprattutto quando entrambe stropicciavano le labbra in smorfie di pura irritazione per non essere brave a usare correttamente quegli aggeggi e di conseguenza per non poter mangiare.
All’ennesimo tentativo, Chibiusa esclamò: “Urrà, ce l’ho fatta!” soddisfatta di sé prima di portare gli spaghetti ben attorcigliati alla bocca.
Usagi invece continuava a non esserne in grado.
“Basta ci rinuncio, prendo le bacchette” disse alzandosi per andare verso il bancone della cucina; Mamoru allungò un braccio fermandola dolcemente per un polso.
“Aspetta, vieni, proviamo insieme” suggerì con tono paziente in cui Usagi scorse tutta la tenerezza che da sempre riservava a lei e alla loro bambina; la stessa tenerezza che ogni volta le incendiava il cuore complicando tutto, la stessa tenerezza a cui - ciò nonostante - non avrebbe mai voluto rinunciare.
Disarmata da quegli occhi luminosi e profondi, ritornò a sedere; lui avvicinò la sua sedia a quella di lei e, quando Usagi impugnò la forchetta, poggiò con delicatezza la sua mano sulla sua aiutandola ad avvolgere la pasta.
Quel contatto così ingenuo e innocente le procurò un brivido alla schiena; non era la prima volta che le loro mani si sfioravano, si prendevano; tra loro due c’erano già stati tanti momenti con contatti fisici più intensi, maliziosi, pieni di desiderio, eppure per lei ciascuno di essi era unico, speciale; lo viveva, lo assaporava in tutte le sue forme come se ogni volta fosse stato l’ultimo.
Si lasciò aiutare, seguendo quel movimento rotatorio cercando di non distrarsi troppo a causa del profumo così intenso e irresistibile di Mamoru troppo vicino a lei.
Un sorriso le uscì dalle labbra quando vide che finalmente anche lei era riuscita a mangiare all’occidentale; guardò Mamoru e, ancora una volta, per quello sguardo magnetico e naturale, il suo cuore mancò un battito. 
 
Mamoru osservava tutto come uno spettatore esterno e invisibile; tutti i più piccoli movimenti, le più piccole espressioni di Usagi e Chibiusa; voleva fotografare tutte le immagini possibili nella sua testa, memorizzare tutti i momenti passati con la sua famiglia.
L’allegria e i sorrisi di Chibi-chan che rivolgeva alla mamma, felice per quel pasto sempre più simile a un gioco nuovo; le smorfie di Usako che, nonostante l’impegno, ogni tanto ritrovava qualche spaghetto sulla tovaglia, a cui seguivano ulteriori risate della bambina.
Per lui l’unione dei suoni provocati dalle voci, dalle risa delle sue ragazze, erano una melodia; una melodia che avrebbe sempre scaldato il suo cuore. Si commosse per la scena disarmante davanti ai suoi occhi: Chibiusa aveva ancora tra le labbra degli spaghetti e aspirandoli cercò di metterli tutti in bocca; parte del sugo però finì sulla sua maglietta bianca oltre che sulle sue guance e Usagi, prendendo con una mano il viso della bambina: “Guarda come ti sei sporcata” disse sorridendo e passandole un tovagliolo pulendola prima di schioccarle un bacio sulla guancia affondando così in quel visino paffuto.
 
Mamoru cercò di trattenere le lacrime; le sue Usagi erano bellissime assieme, ispiravano tenerezza da ogni loro singolo gesto e lui avrebbe tanto voluto essere lì con loro tutti i giorni della sua vita per assistere a quei momenti unici che scaldavano il cuore; sarebbe voluto essere lì sempre, per partecipare a quella loro complicità e per proteggerle da tutto e da tutti.
Si sentì un idiota per aver preferito rimanere a New York dopo aver saputo della gravidanza; quello era stato l’errore più grave di tutta la sua vita che lui aveva capito solo quando la realtà gli aveva messo di fronte determinate situazioni imprevedibili e inimmaginabili ma che gli avevano cambiato la vita facendolo riflettere sulle scelte sbagliate. Solo che ormai era troppo tardi per rimediare; per lui non c’era più nulla da fare, non poteva recuperare tutti i momenti fatti di piccole cose che mettono in moto il cuore facendogli suonare la melodia più dolce che potesse esistere; non poteva più tornare per sempre dopo aver parlato con Setsuna.
Le aveva perse per sempre; non poteva continuare ad essere egoista, loro meritavano la felicità e una protezione che lui non poteva assicurare loro.
 
Finirono di pranzare e Chibiusa iniziò ad attorcigliare una ciocca dei suoi rosei capelli tra le dita, ogni tanto abbassava lentamente le palpebre, fin quando Usagi, prendendola in braccio disse:
“Andiamo Chibi-chan, facciamo il riposino”; si avvicinò a Mamoru e riprese: “Dai un bacio a papà”. Chibiusa, continuando a giocare coi suoi capelli, premette le labbra sulla guancia del padre, poi si appoggiò alla spalla della ragazza che si avviò verso la cameretta.
Si sdraiò come sempre nel letto della piccola tenendola tra le sue braccia e accarezzandole i capelli; sapeva che quel gesto la rilassava e conciliava il suo sonno. Chiuse gli occhi anche lei mentre percepiva dai movimenti sempre più lenti di Chibiusa che la bimba si stava abbandonando al mondo dei sogni.
Avvolta dal silenzio, ancora una volta ripensò alla notte precedente; ricordò le mani di Mamo-chan accarezzare le sue gambe con avidità e desiderio, esplorare ogni centimetro della sua pelle, riuscì a sentire ancora quelle labbra umide - che tanto amava - scivolare sul suo corpo e il respiro dell’uomo che adorava diventare sempre più affannato sul suo collo e sul suo viso mentre si dondolava su di lei facendole perdere i sensi; facendole sperare che ciò avesse portato a una svolta; la svolta che sognava e pregava da quasi sei anni. Ripensò pure al bacio innocente di quella mattina dopo colazione; le sue mani sul suo viso e le labbra carnose che avevano il gusto dolce di marmellata sulle sue ma che le lasciavano un sapore amaro dopo, quando capiva e realizzava che quella era l’unica svolta che avrebbe avuto. E poi c’erano i pensieri di lui; pensieri che da quando aveva parlato con Motoki erano diventati sempre più insistenti facendolo apparire sempre più taciturno e serio. Scosse la testa per mandar via tutte quelle considerazioni che avevano reso già tutto più difficile e che in alcuni momenti le avevano dato l’impressione di trovarsi in una camera a gas, una camera in cui però era entrata di sua spontanea volontà. Sollevò la testa, quel poco per accorgersi che la bambina si era addormentata con la guancia a contatto col suo petto. Lentamente si scostò da lei sistemandola con il capo sul cuscino e facendole aderire la schiena al materasso; le rimboccò il lenzuolo e uscì della stanza dopo aver lasciato un ultimo sguardo pieno di amore verso quella piccola creatura che in ogni momento le ricordava quale fosse la sua ragione di vita.
 
Di fronte alla stanza di Chibiusa era situata quella di Mamoru; la porta era aperta e Usagi non poté non rimanere ipnotizzata da quell’immagine davanti a sé: Mamoru si era addormentato; nonostante i lineamenti marcati di uomo e la barba appena accentuata, il suo viso era simile a quello di un bambino sereno; sembrava stesse sorridendo al custode del regno dei sogni. Quell’aria così ingenua e indifesa non l’aveva mai vista prima in lui o forse quella sua nuova visione del suo Mamo-chan era dovuta al fatto che lei era una donna innamorata di lui, ogni volta di più, arrendevole ormai persino ad un suo respiro. Mamoru aveva tolto i jeans e indossato i pantaloni di cotone che utilizzava per stare in casa; la canottiera verde aderente metteva in risalto il suo corpo tonico e ben definito. Usagi lo guardò per qualche secondo poggiata allo stipite della porta prima di avvicinarsi istintivamente senza far rumore. Una volta accanto al letto, si abbassò pian piano prendendo il lembo del lenzuolo fresco e profumato di lavanda e coprendo cautamente il ragazzo in modo che il contatto della pelle scoperta col cotone leggero non lo destasse da quel beato riposo. Rimase qualche istante lì, immobile, ad ammirare il suo viso sempre più rilassato e il suo corpo muoversi seguendo il suo respiro regolare e costante. Anche se di solito non era lei la prima a trovare il coraggio, anche se di solito aspettava e sperava che fosse lui a baciare le sue labbra, in quel preciso istante sentì il bisogno estremo di sentirlo vivo, di sentire il suo caldo respiro sul suo viso  e così, lentamente, avvicinò le sue labbra a quelle di Mamoru premendole con la delicatezza e dolcezza che da sempre riservava solo a lui e assaporando quel contatto col quale capiva che lui era lì, lì con lei.
Pian piano lui alzò le palpebre donandole un sorriso; Usagi allontanò subito le labbra da quelle di lui, senza vergogna però per essere stata colta in flagrante, sorrise di rimando con occhi luminosi e pieni d’amore aumentando la distanza dei loro visi e scostandogli alcune ciocche corvine dalla fronte.
“Torna a riposare, Mamo-chan, vado a stendermi anche io” sussurrò perdendosi nelle profondità delle sue iridi blu come l’oceano di notte.
 
Chiedimi di restare, ti prego chiedimi di restare qui con te…” continuava però a ripetere dentro la sua testa, come se, guardandolo, potesse suggerirgli ciò che avrebbe voluto sentirsi domandare.
 
Lui annuì mantenendo un sorriso sul viso e richiudendo gli occhi. Quel gesto fu per Usagi peggio di una pugnalata al cuore; sentì un vuoto dentro e avvertì gli occhi pizzicare; non poteva più rimanere lì con lui e rischiare che notasse i suoi occhi lucidi che – come un fiume in piena – non riuscivano più a trattenere le lacrime e, anche se avesse potuto, lui non la voleva lì con lui; non c’era nessun motivo per rimanere in quella camera. Si voltò chiudendo la porta e dirigendosi nella sua stanza che considerava troppo grande senza il suo Mamo-chan accanto lasciandosi cadere sul letto; affondò la testa sotto al cuscino e iniziò a piangere sfogandosi e continuando a ripetersi “Stupida Usagi, Stupida – illusa  Usagi!” fin quando le lacrime e i singhiozzi pieni di amarezza e continue illusioni la lasciarono stremata; chiuse gli occhi e, per qualche ora, trovò pace nei sogni.
 
 
Passarono un paio di giorni; Usagi diventava sempre più irrequieta; più osservava Mamoru assorto nei suoi pensieri sempre più frequenti, più lo notava serio ed estraniato dalla realtà e più la sua perplessità cresceva.
Sotto un cielo fatto di stelle in una serata di metà Giugno, con la leggera brezza che accarezzava le sue braccia e le sue gambe lasciate scoperte da un vestito di leggero cotone rosa, seduta sul dondolo, Usagi guardando Mamoru spingere Chibiusa sull’altalena in giardino rifletté.
Lui era sempre affettuoso con la loro Chibiusa, non le faceva mancare le coccole, le attenzioni, le lunghe passeggiate seguite da un gelato al cioccolato con tanta panna sopra; era sempre protettivo e attento con la piccola però quando si trattava di lei Mamo-chan era assente e ciò diventava insostenibile da sopportare. Non era mai stato così, anzi, le volte precedenti era sempre stato molto affettuoso, donandole dolci sorrisi, tenere carezze e unici baci a fior di labbra che le avevano sempre dato la voglia di continuare a sperare, di credere in un futuro assieme. Avevano instaurato un rapporto pieno di complicità, unico nel suo genere; a loro bastava guardarsi negli occhi per capirsi, bastava una sola parola per capire l’intero senso del discorso; ma in quei giorni Usagi si domandò cosa fosse successo per cancellare tutto ciò che aveva costruito con l’anima, con le lacrime e con la rinuncia al suo Mamo-chan.
Si destò da quei pensieri che ormai la stavano logorando quando vide il ragazzo prendere in braccio la bambina e avvicinarsi a lei.
“Se non ti spiace la porto io a letto stasera” disse con occhi desiderosi di recuperare tutto ciò che aveva perduto tante, troppe volte.
“Certo” rispose lei sorridendo piena di comprensione. Si alzò e riprese: “Sogni d’oro, amore mio” con il visino della bambina tra le mani prima di schioccarle un bacio sulla fronte.
 
Quando lui entrò in casa, si risedette sul dondolo con la testa sulla morbida spalliera facendosi cullare da quel movimento rilassante; nel silenzio del quartiere, chiuse gli occhi  inspirando profondamente e inebriandosi del fresco profumo di prato e di rose del suo giardino. Era una bella sensazione di pace e tranquillità quella che provò. Dopo qualche minuto però quella sensazione di serenità finì; sentì il cellulare di Mamoru squillare e, vedendo lampeggiare il display  sul tavolino di plastica accanto all’altalena, si alzò per prenderlo e portarlo al ragazzo. Il suo cuore mancò un battito, le gambe divennero troppo deboli per sorreggere il suo peso quando lesse il nome Setsuna.
Chi era Setsuna? Cosa voleva da Mamo-chan?
Ad un tratto, ancora immobile e persa in molteplici ipotesi con lo sguardo fisso sul display che continuava ad illuminarsi, si ritrovò il ragazzo davanti che prese il telefono in mano; solo dopo aver letto il nome lui guardò per un istante Usagi, notando i suoi occhi lucidi e il suo sguardo pieno di sconforto, prima di allontanarsi per rispondere.
Usagi aveva bisogno di sedersi, le avevano fatto troppo male quegli occhi blu in cui aveva letto sensi di colpa; in cui aveva scorto agitazione per essere stato scoperto. Quello sguardo le aveva dato la conferma a tutti i suoi dubbi; una conferma che non avrebbe mai voluto avere; per una volta nella sua vita di ragazzina stupida e illusa avrebbe tanto voluto continuare a sbagliarsi.
Tornò a sedere poggiando un gomito sulla spalliera e tenendo ferma la  fronte con la mano; oramai anche il dondolio – da sempre rilassante – non era in grado di calmarla.
Alle spalle della vetrata, all’interno del salone, Mamoru parlò per qualche minuto; Usagi maledisse ancora una volta il suo essere stata svogliata a scuola e non aver imparato l’inglese; se lo avesse capito, in quel momento avrebbe potuto comprendere ciò che il ragazzo diceva. E invece no, non le era chiara neppure una sola parola, l’unica cosa certa era che il tono di Mamoru era molto serio.
Non sapeva cosa pensare, cosa credere; se solo Minako fosse stata lì…
Lei era un’attrice di Hollywood ormai e conosceva l’inglese benissimo nonostante a scuola erano state compagne di banco e di insufficienze; le avrebbe tradotto tutto alla perfezione senza farla sprofondare nell’incertezza e nella curiosità che le divoravano l’anima.
Quando scorse un’ombra per terra, accanto a lei, alzò lo sguardo accorgendosi di Mamoru che la fissava con aria dispiaciuta.
“Prendo una birra, ne bevi una con me?” le chiese forzando un sorriso dopo aver notato i suoi occhi lucidi.
Lei scosse la testa ricacciando indietro le lacrime che la voce piena di dolcezza di lui inevitabilmente le procuravano.
Si rannicchiò su se stessa, con le gambe al petto, come a volersi confortare da sola. Lui tornò poco dopo e si sedette accanto a lei; bevve un sorso della sua bevanda preferita e portò indietro la testa, poggiandola sull’imbottitura della spalliera.
“Si sta bene qui” disse osservando le stelle e distendendo un braccio sullo schienale, dietro la testa di Usagi.
Lei annuì, constatando quanto fosse bello il cielo blu, quella sera, impreziosito da un’infinità di puntini luminosi che sembravano brillare solo per loro due.
 “Mamo-chan, scusami, non volevo essere impicciona; volevo solo portartelo prima che smettesse di squillare” confessò.
Lui bevve altri due sorsi prima di rispondere: “Non hai nulla di cui scusarti Usako” come un sussurro in cui lei avvertì dispiacere.
Rimanendo stretta a se stessa, poggiò dolcemente la testa sulla spalla del ragazzo. Lei aveva bisogno di quel contatto perché se era vero che era stato lui a farle provare una stretta al cuore con quello sguardo rammaricato, era sempre lui che tramite un solo abbraccio era in grado di farla ritornare serena alleviando tutti i suoi dolori e i suoi sconforti.
Lui rimase immobile per qualche istante e, finendo di bere quella bevanda amara e ghiacciata, iniziò ad accarezzare i lunghi capelli della ragazza, soffici e lisci sotto le sue dita.
Usagi sorrise, in quel momento sì che si stava bene.
“Va tutto bene, Mamo-chan? Cos’è che ti preoccupa? Confidati con me” osò domandare.
Lui abbassò lo sguardo per incontrare i suoi occhi.
“Cosa?” chiese stupito da quella domanda.
Usagi portò una mano all’altezza del suo cuore: “Ormai è da qualche giorno che sei sempre pensieroso, confidati con me” spiegò distendendo le labbra in un sorriso rassicurante.
Lui prese la mano che era ancora lì, sul suo petto, e premette le labbra sul dorso tenendo gli occhi chiusi.
Si sentì accarezzare il viso e, sollevando le palpebre, vide Usagi con gli occhi lucidi fissarlo con un’espressione piena di fedeltà.
“Lo sai che di me puoi fidarti, Mamo-chan. Dimmi cosa ti turba” insisteva con voce simile a un soffio d’amore.
“Usako…” riuscì solo a dire con voce spezzata mentre le sue labbra sfioravano quelle della ragazza.
Si guardarono per un istante; i loro occhi erano attratti sempre di più, i loro cuori battevano forte, bisognosi di un contatto più intenso, pieno di conforto e di rassicurazione reciproca.
Poi lui chiuse gli occhi ritraendosi: “Devi farmi una promessa.”
Lei annuì, piena di speranza: “Tutto quello che vuoi, Mamo-chan.”
E per lui quella voce angelica rese tutto più complicato; abbassò lo sguardo verso l’ombra del dondolo che si rifletteva sul pavimento e, deglutendo a fatica, disse:
“Promettimi che sarai felice.”
Lei rimase in silenzio, non capendo – per la prima volta – cosa significassero quelle parole.
“Promettimi che troverai un uomo che ti renda felice e che sia un buon padre per Chibiusa” riprese con voce tremante mentre i battiti del suo cuore iniziavano ad essere sempre più accelerati.
 
Per quanto Usagi avesse potuto provare ad evitarlo, un sorriso amaro seguito da un sospiro pieno di amarezza uscì istintivo dalla sua bocca; i suoi occhi non riuscirono più a trattenere le lacrime che aveva sempre cercato di non mostrare a lui.
“Chibiusa ha già un padre” rispose con voce delusa alzandosi di scatto e guardandolo piena di rabbia coi pugni all’altezza dei fianchi.
“E tu, Usagi, hai un uomo che ti ama, che ti protegge, che si prende cura di te?”
Quanto male gli facevano quelle parole; non avrebbe mai voluto pronunciarle, soprattutto notando le rosee guance della sua Usako rigate da lacrime amare.
 
Usagi scosse la testa lentamente, stropicciando le labbra in una smorfia di dolore.
“Non sono affari tuoi! Anzi, se proprio vuoi saperlo, no! Non ho nessuno che mi ama e non lo avrò mai perché sono solo una stupida, sciocca, ragazzina illusa.” Lo confessò tutto d’un fiato prima di potersene pentire mentre il suo respiro diventava sempre più affannato.
Perché doveva trattarla così? Perché doveva farla soffrire sempre di più? Lei non avrebbe mai neppure lontanamente immaginato di fargli del male, perché lui invece sembrava godesse facendola dispiacere?
Corse via, non curante se dal suo atteggiamento troppo impulsivo e sincero lui avesse capito i suoi sentimenti. Non le importava più, anzi, era sempre più convinta che dal suo modo di fare, Mamoru era troppo preso da sé e dalla sua vita a NYC per accorgersi di lei e dei suoi sentimenti visibili anche a un cieco.
Si buttò sul letto, tremando come una foglia, con i muscoli del viso che ormai facevano male per tutti i  pianti che lui le aveva procurato.
Ormai era evidente: i pensieri di Mamoru, i suoi comportamenti scostanti e freddi, le sue parole piene di cattiveria con cui non si accorgeva del suo amore avevano un nome: Setsuna.
Guardò la cassettiera di fronte a sé; la foto che la ritraeva felice e sorridente assieme alle sue quattro amiche attirò la sua attenzione.
“Hai ragione Rei, e anche tu Ami-chan; da domani Mamo-r-u farà parte del passato” disse tra un singhiozzo e l’altro come se stesse davvero parlando con le sue amiche più care. Dal giorno dopo avrebbe iniziato un nuovo modo di affrontare la vita, si sarebbe rassegnata dopo sei anni ad un futuro senza Mamoru; il primo passo da fare era chiudere gli occhi e immergersi nei sogni. Con le palpebre abbassate e il respiro che iniziava a regolarizzarsi, l'incubo reale stava già iniziando a diventare sempre più lontano.
 
Il punto dell’autrice
 

Sono tornata! Dopo quasi un mese eccomi di nuovo!
Scusate il ritardo ma in questo periodo come molti di voi sapranno, ho avuto un contratto da far firmare nelle città che non dorme mai ;)
Inoltre in questo periodo ho avuto un po’ di problemi che non hanno conciliato la mia ispirazione.
Spero d’ora in poi di aggiornare più frequentemente e di non deludere le vostre aspettative.
Questo capitolo, di transito, non mi convinceva molto ecco perché non l’ho pubblicato prima, dato che continua a non convincermi, ho deciso di pubblicarlo lo stesso anche se possibilmente lo sistemerò in futuro.
Dal prossimo capitolo ci saranno nuovi arrivi e nuove sorprese per Usagi, spero continuerete a seguirmi :D
Nel frattempo spero di ricevere un vostro commento per sapere cosa ne pensate di questo capitolo; anche se negativa, una vostra recensione fa sempre molto piacere!  
Vi auguro una
Buona Pasqua, ringraziandovi come sempre del vostro affetto e sostegno!
Bacioni e a presto!

Demy

   
 
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