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Autore: 365feelings    24/04/2011    2 recensioni
Non chiedetemi cosa ci facessi in Brewer Street alle due di notte. Vi basti sapere che io ero lì. E che anche loro erano lì. E che non c’era nessuno.
Numero 38. Nere. Di vernice. Le ho prese, quelle decolletes.
[Auguri Ale - Black_Rose]
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In Her shoes
 

Quarto giorno 

Ormai aveva preso l’abitudine di indossare quelle decolletes ogni qual volta dovesse andare ad un appuntamento o ad una festa. Per questo, anche quella sera, sul marciapiede di St. James Street risuonava il rumore secco e atono, vagamente cadenzato, dei suoi tacchi.
Controllò un’ultima volta il volantino e poi lo accartocciò nella tasca del suo trench nero, stretto in vita e che le arrivava poco sopra il ginocchio, lasciando scoperte le gambe velate dal nero delle calze.
La nebbia impregnava l’aria fredda, rendendo opache e distanti le luci della città: erano solo le nove, ma sembrava già che fosse notte fonda.
Ogni tanto qualche taxi e qualche altra autovettura sibilava poco lontano da lei, centrando le pozzanghere lasciate dalla pioggia pomeridiana.
Giunta davanti al palazzo della mostra, spinse la grande porta di vetro ed entrò. Lanciò un’occhiata alla stanca receptionist seduta dietro a un bancone: non sembrava molto in salute, profonde occhiaie solcavano il volto magro e pallido.
Raggiunse l’ascensore d’acciaio in un ticchettio di tacchi: dentro il cilindro illuminato da luci al neon, uno specchio rifletteva la sua immagine mentre digitava il numero del piano.
Ci mise poco ad arrivare sulla sommità dell’edificio e le porte si riaprirono su un attico illuminato da luci soffuse.
Sulle pareti fotografie dalle più svariate dimensioni ritraevano in bianco e nero diversi paesaggi.
Alcune persone erano intente ad osservare le immagini, altre commentavano tra di loro l’operato della fotografa sorseggiando dello champagne, altre ancora si intrattenevano con la stessa, in un angolo del locale.
Un po’ spaesata avanzò, sciogliendo il nodo della cintura del trench e lasciando che la musica si insinuasse in lei, guidandola da una foto all’altra.
Agli alberi si alternavano città, c’erano anche spiagge.
Man mano che procedeva notò che il filo conduttore della mostra era la malinconia: la fugacità della vita sembrava risplendere in quelle immagini.
Alcune foto ritraevano addirittura disastri naturali: alluvioni, terremoti. L’esposizione subiva una brusca impennata, facendo trasparire il dolore dell’umanità.
Si chiese quanti anni dovesse avere la fotografa, notando una foto che immortalava il disastro di Hiroshima e Nagasaki.
Quando però individuò la donna un brivido freddo le attraversò la schiena: era la stessa europea vista a Piccadilly Circus e non dimostrava più di trent’anni, anche se non poteva esserne certa, dato che anche l’età era sfuggente: dava l’idea di essere più vecchia di quello che sembrava, restando però giovane.

Indossava un lungo e stretto vestito nero, che le sottolineava i fianchi rotondi e si apriva in una profonda scollatura che le metteva in risalto le spalle esili e il collo bianco.
Un paio di occhiali dalla montatura nera traballavano sul naso e una ciocca morbida ricadeva sul volto, sfuggendo al basso chignon che raccoglieva i capelli corvini.
Quando la donna si voltò e la vide, gli occhi scuri arsero. Harley sobbalzò e dopo un istante, in cui le era parso di pietrificarsi, retrocesse, cercando di sfuggire a quello sguardo.
Già malferma sull’alto di quelle scarpe, l’andare al contrario non si rivelò un’ottima soluzione, tanto che finì addosso a qualcuno. Due mani le sfiorarono le braccia e lei sobbalzò un’altra volta. Balbettò un “Mi scusi” mentre alzava gli occhi per vedere contro chi era andata a finire.
Incontrò un altro paio di occhi d’antracite, contornati da ribelle ciocche ramate, e si perse, per qualche istante, in essi. Poi, rendendosi conto di dove li avesse già visti, fece un passo in avanti e si voltò per guardare in faccia il ragazzo, allarmata.
Non c’erano dubbi, si trattava delle due persone viste a Piccadilly Circus, ma cosa ci facevano lì e perché i loro sguardi la mettevano così in soggezione. La facevano quasi sembrare una ladra.
«Le scarpe.», disse il giovane, con voce roca e ammaliante, guardando le decolletes.
Harley non capiva.
«Dammi le scarpe.», ripeté, questa volta un po’ brusco.
«Cosa…perché?»
«Le scarpe.», insistette un’altra voce, femminile e fredda.
Girò il capo e vide dietro di sé la donna: in quell’istante seppe di essere in trappola.
Con lo sguardo cercò di attirare l’attenzione delle altre persone, ma con sconcerto notò che nessuno dei presenti si muoveva più, cristallizzati nell’atto di muoversi o di parlare.
«Cosa sta succedendo?», chiese con voce acuta, spaventata.
«Tu hai qualcosa che mi appartiene, hai preso le mie scarpe.», rispose la donna.
«Queste? Ma le ho trovate in…»
«Brewer Street, dove le avevo lasciate.»
«Com‘è possibile?!»
La voce era spezzata dalla paura.
«Lady Thanatos tiene particolarmente a quelle scarpe, ti prego di ridargliele. Non ti succederà nulla, non vogliamo ricorrere alle maniere forti.», disse il ragazzo: se cercava di tranquillizzarla non c’era riuscito.
Thanatos, Thanatos…dove l’aveva già sentita quella parola? Doveva essere greco, doveva voler dire …
«Voi siete pazzi.»
… Morte.
Il giovane sorrise, con l’aria di chi era solito ricevere quel tipo di commento.
«Cosa volete da me?»
«Le scarpe.», ripeté la donna con voce ora un po’ seccata, «Sciocca ragazzina mortale, non ti sei resa conto che ogni qual volta hai indossato quelle scarpe è successo qualcosa, qualcuno si è fatto male, qualcuno è morto?»
Harley sgranò gli occhi.
«Erano solo delle coincidenze…», cercò di dire.
«Certo, coincidenze. Le tue coincidenze hanno causato morti fuori programma. Sono quattro giorni che mieti anime di persone che tecnicamente dovrebbero essere ancora in vita e in ottima forma. Ti rendi conto di quello che hai causato? Oltre ai morti hai ritardato il mio lavoro! Hai idea di quante persone attendono il mio arrivo? Sono lì, da quattro giorni, che attendono di spirare e invece devono restare in vita. E ti posso garantire che non è per nulla piacevole dover sopravvivere per tutto questo tempo con un tumore o una pallottola nel cuore.»
In un istante Harley si sfilò dai piedi le scarpe, lanciandole lontane, in un angolo del locale, e cogliendo il momento di distrazione dei due raggiunse l’ascensore.
Una volta dentro premette ripetutamente il pulsante che l’avrebbe portata al piano terra e respirando a fatica controllò con crescente ansia il contatore segnalare i diversi piani.
3, 2, 1.
Le porte si riaprirono e lei scattò fuori.
Si precipitò in strada e senza badare alle auto, corse con tutta la forza che aveva.
Corse, dimenticandosi dei polmoni che chiedevano ossigeno e dei muscoli che gridavano riposo.
Corse, senza badare al contatto dell’asfalto con i piedi protetti dalle sole calze.
Corse, con le lacrime agli occhi, corse.
Correre lontano le dava l’illusoria sicurezza di raggiungere la salvezza.

   
 
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