Erano
le cinque del pomeriggio. Sulla staccionata che delimitava il campo
stavano
appollaiati due ragazzi, unici temerari capaci di sfidare il caldo sole
di
maggio che, ancora alto nel cielo, batteva sulle loro nuche. Erano
già sudati.
Uno di loro, il più alto, fumava in silenzio una sigaretta
arrangiata,
partorita poche ore prima mettendo insieme il tabacco e il filtro, poi
cucendoli insieme con la saliva. Il Fumatore teneva le gambe lunghe
penzoloni e
molleggiava il peso del suo corpo ora da una parte o da
un’altra. Aspettava già
da dieci minuti, insieme al suo amico.
Lui
invece non fumava, ma gli si era seduto accanto, sulla staccionata;
alzava lo
sguardo verso il sole e di tanto in tanto scollava il tessuto della
maglietta
dal ventre, per permettere all’aria di infiltrarsi al suo
interno. Era biondo,
con occhi chiari e dalla corporatura massiccia: per questo gli avevano
dato il
soprannome di Vichingo. Stavano in silenzio, consci che gli altri non
avrebbero
tardato ad arrivare.
Così
fu: gradualmente si radunarono tutti attorno alla staccionata,
terminando di
fumare insieme un’ultima sigaretta.
-Chi
manca?-.
Arrivarono
tutti, chi in coppia con qualcun altro, chi con la moto, chi da solo.
Il
Vichingo e il Fumatore scesero dalla staccionata, andando loro
incontro; il
Vichingo sorrise e cominciò a salutare uno ad uno gli amici,
mentre il Fumatore
li contava mentalmente, verificando che non mancasse nessuno.
Peppe
si preoccupò che la sua moto riposasse all’ombra
del palazzo disabitato e che
le gomme non incorressero in alcun ago o vetro. Si presentava al campo
sempre
con un certo ritardo e indossava sempre un paio di scarpe blu scuro,
con la
suola rialzata. Portava obbligatoriamente i jeans a vita bassa e
vestiva
magliette dai colori sgargianti: fra i ragazzi, era quello che forse
teneva di più
alla propria immagine.
Flavio
arrivò insieme a Stefano, il Comunista,
sull’automobile di quest’ultimo. Si
preoccupavano solitamente di fornire il tè e
l’acqua per ristorarsi dopo la
partita; Flavio era l’unico di loro a portare gli occhiali e
la prima cosa che
fece, una volta avvicinatosi al gruppo, fu fissare lo zaino che aveva
con sé ad
una delle assi della staccionata. Non si arrischiò a parlare
perché temeva che
lo prendessero in giro per via della sua erre moscia.
Il
Comunista batté una mano sulle spalle del Fumatore,
nonostante le raggiungesse
a malapena, e domandò:
-Dov’è
la palla?-.
-Qua-.
Gianluca
era il più basso di tutti quanti, provvisto di una chioma
adeguatamente
acconciata a mo’ di cresta. Era sempre lui a portare con
sé il pallone, in modo
che potessero giocare la tradizionale partitella del pomeriggio. La
sfera di
cuoio passò dalle sue mani ai piedi del Fumatore, che la
stoppò con la suola e
terminò con calma la sua sigaretta.
Il
pallone che utilizzavano aveva sopportato intemperie di ogni genere,
urti e
sbalzi di ogni tipo, ma non aveva ancora ceduto. Certo non era
più gonfio e
pulito come una volta, ma i ragazzi non volevano separarsene:
quell’oggetto li
univa e li legava più di quanto potessero immaginare,
riusciva a tenere insieme
tutti loro, ognuno con le proprie diversità. Rotondo, sporco
di terra,
graffiato dalle ortiche e dai rovi che circondavano il campetto,
sgonfio per
via dei numerosi calci ricevuti, dalle piastre scorticate che rendevano
quasi
visibile la gomma nera all’interno, tuttavia ancora presente
e pronto ad essere
maltrattato.
-Andiamo?-
il Comunista si rimboccò gli orli dei pantaloni alzandoli
fino al ginocchio,
poi indossò un paio di scarpe da calcio bianche.
-Sì,
andiamo- appurato che erano in numero pari, il Fumatore prese in mano
la palla
e si diresse verso il centrocampo.
Non
aveva fatto che due passi verso il bordo campo, che udì il
rombo di un motore e
per questo si fermò. Tutti si voltarono a guardare il
ragazzo che, visibilmente
più grande di loro, poggiava a terra la moto e si affrettava
a raggiungerli.
-Carlos!-
gli gridò Gianluca –E datti una mossa!-.
Carlos
si avvicinò a loro con un ghigno sul viso, come suo solito:
quel sorriso largo
che mostrava i denti gialli era divenuto il suo marchio di fabbrica. Si
liberò
rapidamente della maglia che aveva sopra per restare in canottiera.
Carlos
aveva vent’anni e nonostante non fosse più alto
del Fumatore o più massiccio
del Vichingo, dimostrava la sua età attraverso i lineamenti
del volto. Lasciava
sempre crescere le basette, i baffi e il pizzetto, portava un anello di
ferro
all’angolo destro del labbro e due similari su entrambi i
lobi delle orecchie.
-Andiamo,
va’- superò Gianluca e il resto della compagnia,
prendendo possesso del pallone
e rivolgendo loro il solito ghigno.
Una
volta scoperto quel posto, non l’avevano più
abbandonato.
Il
campetto aveva le dimensioni del terreno di gioco da calcetto e
originariamente
doveva esser stato un luogo di ritrovo per ragazzini. La staccionata di
legno
era l’ultimo residuo della recinzione che doveva averlo
circondato, con le
panchine, le tribune e le porte in metallo. Il suolo era in cemento e
il
fondocampo era delimitato da un’ormai sbiadita linea rossa;
le porte erano
state rivestite di bianco, tempo addietro, ma ora quel che ne restava
era una
consistente quantità di ruggine; le reti erano durate troppo
poco, squassate
dalla violenza dei tiri e dal vandalismo d’ignoti ragazzi,
che ne avevano
lasciato soltanto brandelli.
Anche
il paesaggio che circondava il campetto non era invitante: la zona era
deserta,
il palazzo che vi si affacciava era stato dichiarato inagibile e
pericolante;
mucchi di spazzatura erano accatastati attorno a due cassettoni, causa
della
costante presenza di gatti; non vi era vegetazione, ma soltanto rovi,
sterpi
essiccate e strade sterrate che riconducevano in città. In
quel caldo
pomeriggio di Maggio, le uniche ombre che si stagliavano sul campetto
erano
quelle dei ragazzi.
Il
Comunista, indossati i guanti da portiere, fece notare:
-Manca
Cesare-.
Poi
guardò Peppe, sperando di ottenerne notizie.
-Non
so, non l’ho visto-.
-Io
nemmeno- .
-Va
be’, giochiamo senza, che problema c’è?-
propose Carlos, che non pareva
cogliere il motivo del loro smarrimento.
-Non
possiamo giocare senza Cesare- gli fece notare Gianluca.
-Già-
lo appoggiarono gli altri, tutti in attesa di una soluzione.
-E
chi cazzo lo dice?- Carlos prese a spostare il pallone da un piede
all’altro
–Minchia, siete proprio dei leccaculi. Cazzo significa che se
non c’è lui non
possiamo giocare?-.
-Siamo
dispari, questo è il problema, capisci?- replicò
il Comunista, guardandolo
male.
Erano
stati compagni alle superiori, prima di essere entrambi bocciati e
decidere di
intraprendere strade diverse. In ogni caso al Comunista non stava per
nulla
simpatico Carlos, il suo ghigno e le sue maniere arroganti e infantili.
Cesare
non lo entusiasmava, ma perlomeno gli riconosceva il possesso di un
certo
quoziente d’intelligenza, dote che mancava del tutto a Carlos.
Il
Fumatore si mise una mano davanti agli occhi per ripararsi dal sole e
guardò in
lontananza, oltre lo sterrato, sperando di distinguere la sagoma del
giocatore
mancante.
-Non
so, raga’... iniziamo, poi si vede- disse.
Composero
le squadre, con una certa difficoltà: solitamente era Cesare
a disporre chi
dovesse giocare contro chi. Peppe si posizionò
immediatamente fra i pali della
porta, quella più vicina alla sua moto; non amava sudare e
sporcarsi i vestiti
come facevano i suoi compagni, quindi preferiva stare a difendere la
porta.
Allo stesso modo anche il Comunista si poggiò al palo della
porta opposta,
infilando con cura i guanti e afferrando l’asta trasversale
per verificare la
presa.
Flavio
gli si avvicinò, tirando su le maniche della maglia che
indossava, e disse:
-Ho
sentito di un incidente... -.
-Che
incidente?-.
-Sulla
statale... un ragazzo che Cesare conosceva... -.
Il
Comunista prendeva sempre in giro Flavio alla pari degli altri ragazzi,
che gli
rimproveravano la scarsa virilità e lo scarso carisma; era
considerato lo
sfigato del gruppo e a nessuno di loro veniva in mente di aiutarlo o
difenderlo
quando era preda delle angherie degli altri. Per questo motivo Flavio
parlava
poco, limitandosi a correre, sudare e sopportare tutto quel che gli
urlavano
senza battere ciglio, domandandosi comunque perché non lo
escludessero dalla
compagnia. Certo lo mortificavano, ma gli permettevano di giocare a
pallone
assieme a loro.
Il
Comunista non ebbe tempo di formulare alcun commento, perché
Gianluca indicò
una sagoma che lentamente si avvicinava al campo e gridò:
-Eccolo,
è arrivato!-.
Un
ragazzo avanzava fra le sterpi, indossando dei pantaloni di tuta ormai
consunti
e un paio di occhiali neri, da sole. Se era il ghigno a
contraddistinguere
Carlos, quegli occhiali neri erano diventati il simbolo di Cesare,
tanto che
non se ne separava mai se non in rare occasioni. Non si curava di parer
maleducato evitando di guardare il suo interlocutore negli occhi,
persistendo
nel tenere quell’accessorio sul naso, perché
contribuisse a dargli un tono.
-Dici
che è per questo che ha fatto tardi?- chiese il Comunista a
Flavio, mentre si
avvicinavano al centro del campo.
-Forse,
non so... probabilmente sarà andato ad informarsi, mi
sembrava che fossero
amici...-
-Cazzo,
non puoi fare nulla per questa erre?- sbottò il Comunista,
chiaramente
infastidito da quella pronuncia così particolare.
Tutti
si radunarono al centro del campo per chiedere spiegazioni sul ritardo,
tranne
Carlos che restò in disparte, comunque interessato.
-Dove
cazzo eri?- fu la domanda del Fumatore, che sorrise all’amico
andandogli
incontro.
-Era
sicuramente a scoparsi qualche amica- sogghignò il Vichingo.
Cesare
scrollò le spalle e si rivolse a Carlos.
-Dammi
la palla-.
Il
tono lapidario con cui pronunciò quelle parole fece
intendere a tutti che era
accaduto qualcosa d’importante e che, soprattutto, era
tassativamente vietato
fare domande. Perfino Carlos, che manifestava chiari segnali
d’insofferenza,
acconsentì a far rotolare la sfera di cuoio fino ai suoi
piedi.
Cesare
si tolse gli occhiali da sole e scrutò attraverso gli occhi
scuri ciascuno dei
suoi compagni.
-Allora
siamo io, Peppe, Flaviuccio e Gianluca contro voi quattro-
stabilì.
I
ragazzi non opposero resistenza e, rinvigoriti dalla presenza del
leader,
presero posizione cercando di caricarsi a vicenda.
Cesare
poggiò gli occhiali da sole proprio accanto alla staccionata
e prese posto al
centro del campo, accanto a Gianluca. Era sempre così:
Cesare sceglieva gli
elementi più deboli per dimostrare come la sua
superiorità, in campo e fuori,
fosse indiscutibile. Specialmente gli premeva vincere in maniera
schiacciante
contro Carlos, l’unico dei ragazzi che non fosse assoggettato
ai suoi ordini.
Sapeva che avrebbe potuto ordinare a Flavio di calarsi i pantaloni
davanti a
tutti e che lui, subordinato totalmente al suo volere, lo avrebbe
fatto; ma si
divertiva anche a prenderlo in squadra con sé, per mostrare
agli altri come
potesse rendere vincitore un perdente cronico quale era Flavio. Si
grattò la
barba con una mano e diede uno sguardo alla porta difesa dal Comunista.
Nemmeno
con lui aveva buoni rapporti: le loro ideologie politiche non avrebbero
potuto
essere più distanti. Lo rispettava per la sua intelligenza,
ma in cuor suo lo
riteneva un essere insignificante, che sospettava tendesse
all’omosessualità.
Il
Vichingo scambiò uno sguardo col Fumatore e questo
bastò loro per intendersi:
credevano di aver già capito a cosa fosse dovuto il malumore
di Cesare.
Formavano una coppia ben assortita, loro due: l’uno alto,
magro e agilissimo,
l’altro forte e robusto; si capivano al volo senza bisogno di
parole e questo
era uno dei motivi per cui la loro collaborazione risultava efficace
anche in
campo, oltre che nella vita.
Sapevano
già che quella partita sarebbe stata più intensa
e significativa del previsto.
Finalmente
cominciarono a giocare, dapprima buttando palloni alla rinfusa verso
l’area di
rigore, ancora troppo statici e pesanti per costruire il gioco, poi
facendo
circolare il pallone con abili tocchi.
Carlos
fu il primo di loro a manifestare, oltre alla voglia di giocare, una
certa
cattiveria agonistica. Cominciò subito a spintonare e farsi
largo fra gli
avversari, puntando soprattutto verso Flavio. Il ragazzo vi era
abituato, così
non si spaventò troppo. Credeva di aver capito quale fosse
il modo di giocare
di Carlos: portava palla sull’esterno e lo costringeva ad
allargarsi, quindi l’indietreggiare
fino al limite dell’area di rigore e il non sfidarlo mai in
velocità potevano
essere le possibili contromosse.
Cesare
si mantenne apatico ed indolente per i primi minuti, privo
dell’agonismo e
dell’egoismo che lo caratterizzavano, si limitò a
ciondolare nella trequarti
avversaria in attesa che qualche suo compagno gli passasse il pallone.
-Cazzo
hai?- gli gridò il Vichingo mentre lo teneva sotto
controllo, sperando così di
scuoterlo.
-Nulla-.
Gianluca
riconquistò palla e dopo aver oltrepassato la linea di
centrocampo la passò a
Cesare. Solitamente il ragazzo, una volta in possesso della sfera,
avanzava
nell’area avversaria facendo sfoggio di abilità
funamboliche non comuni,
consapevole che qualora avesse sbagliato nessuno gli avrebbe
rimproverato il
mancato passaggio o la caparbietà del voler fare tutto da
solo. Semplicemente,
Cesare comandava e gli altri non potevano fare a meno di obbedirgli.
Fossero
stati un branco di lupi, avrebbe potuto prendere la denominazione di
“maschio
alfa”.
Stavolta invece, non appena
ebbe il pallone
fra i piedi, lo passò con un tocco di prima a Gianluca, che
nel frattempo si
era portato in avanti. Il ragazzo fu stupito: non era così
che andavano le
cose, solitamente. Cesare passava il pallone agli altri solo nel caso
in cui
fosse realmente impossibilitato a proseguire con le sue forze. Quella
volta
invece l’aveva fatto di proposito, come se non gli importasse.
Il
Fumatore fu lesto a riconquistarla, approfittando del malinteso fra i
due e la
passò al Vichingo alzando contemporaneamente un braccio.
Stando
alla loro personale simbologia, quel gesto significava: lancio lungo
sulla
trequarti. Il Fumatore era altissimo e i due ragazzi combinavano la
precisione
di uno con la potenza di elevazione dell’altro, in modo che
una volta trovato
il tempo giusto per lo stacco, nessuno avrebbe potuto ostacolarlo e il
colpo di
testa sarebbe andato dritto in porta.
Il
Vichingo colse il segnale e lanciò il pallone in avanti,
imprimendogli un
movimento parabolico perfettamente calcolato. Il Fumatore,
approfittando
dell’assenza di Cesare, spintonò di lato Flavio e
assicuratosi lo spazio
necessario spiccò un salto.
Non
aveva fumato soltanto semplici sigarette, prima; quella che lui
chiamava “erba”
e che prima aveva raccolto in una cartina per poi fumarla, pur essendo
un
surrogato di bassa qualità che prevedeva una composizione di
piante eterogenee,
era sufficiente ad iniettargli in corpo una smania e
un’eccitazione senza pari.
Era sempre stato un ragazzo iperattivo. Aveva convogliato questa sua
caratteristica nello sport, ottenendo sempre ottimi risultati per via
del suo
fisico, ma ciò non aveva contribuito a fargli passare quella
smania di agire,
di fare, di colpire e di correre che lo agitavano. Quando
s’impegnava nello
sport, non dovendo imporsi limitazioni, poteva esprimere tutta
quell’adrenalina
mista a rabbia. Quella sostanza lo inebriava molto più
dell’alcool, pur
arrossandogli gli occhi gli permetteva di raggiungere livelli di
prestazione
non comuni anche per lui. Per questo lo definivano
“rabbioso” nel suo modo di
giocare: aveva in corpo tanta di quella energia da scaricare che
nessuno, se
non Cesare, era in grado di contenerlo.
Colpì
il pallone con la fronte, torcendo il collo verso destra per
imprimergli
velocità e direzione, e quello docilmente deviò
la propria traiettoria verso la
porta. Il Fumatore stette a guardare l’esito
dell’azione, deluso nel vedere
Peppe che allungava le braccia e vi imprigionava il pallone.
Imprecò
istintivamente, poi trotterellò indietro per riprendere
posizione.
Peppe
lanciò il pallone in direzione di Cesare, che era rimasto in
area avversaria
come un centravanti, tallonato dal Vichingo.
-Tua!-.
Ma
anche stavolta Cesare si limitò a stopparla elegantemente
con il petto,
metterla giù e passarla lateralmente a Gianluca. Lui, avendo
capito che per
qualche motivo il loro leader era giù di corda e non era
intenzionato a giocare
seriamente, pensò di approfittarne: ricevuto il pallone, lo
ripassò a Cesare e
contemporaneamente fece un gesto sbrigativo con la mano. Nel loro
universale
linguaggio, questo significava: passami rapidamente il pallone.
Cesare
si adeguò alla strategia dell’amico, lanciando la
sfera di cuoio sulla sua
corsia, in modo che caricato dallo slancio della corsa Gianluca
acquistasse
ancora più velocità. Era quello che in gergo
veniva denominato “uno-due” o
“triangolo”.
Poiché
il Vichingo era impegnato a tenere d’occhio
l’abbacchiato Cesare, Carlos era
stanziato perennemente in attacco e il Fumatore rientrava
dall’azione
precedente, Gianluca aveva campo libero davanti a sé e non
esitò a sfruttarlo.
-Attenti!-
urlò il Comunista ai suoi compagni, irritato dal fatto che
avessero lasciato
quella zona del campo del tutto scoperta.
Gianluca
correva veloce e in brava tempo si liberò
dell’ostacolo del Vichingo, che aveva
provato a disturbarlo, con un dribbling secco. Pur essendo di bassa
statura e
non avendo un complesso muscolare imponente, combinava la
velocità con una
buona tecnica. Sapeva gestire il pallone al meglio, districarsi negli
spazi
stretti e calciava abbastanza forte.
A
scuola se la cavava, non rischiava mai la bocciatura e se doveva
mettersi
d’impegno a studiare per ottenere il sei, lo faceva senza
rimandare. Non era
alto come il Fumatore, non forte come il Vichingo, non intelligente
come il Comunista,
non carismatico come Cesare, ma sapeva ritagliarsi il suo spazio. Il
suo
cruccio era di non avere un bell’aspetto. Gli pareva che
tutti i suoi compagni
fossero più belli, più affascinanti,
più virili di lui; effettivamente questo
non era altro che un suo complesso d’inferiorità,
poiché non era
particolarmente brutto. Si sentiva piccolo e perciò
inadeguato per stare al
fianco di alcuna ragazza. Quale di queste avrebbe voluto un cavaliere
più basso
di lei?
Ma
il tormento di Gianluca era causato da un’unica ragazza, una
e solo una, che aveva
il potere di farlo soffrire. Si era scelto forse la peggiore, fra
tutte, perché
essendo talmente bella Gianluca non nutriva la minima speranza che un
giorno
avrebbe potuto accorgersi di lui. Era sempre stato il suo migliore
amico, si
era sempre tenuto nell’ombra nel timore di essere rifiutato,
aveva sofferto in
silenzio vedendola passare fra le braccia di molti ragazzi. Tante notti
aveva
sognato che lo splendore di quegli occhi azzurri fosse destinato a lui,
che i
baci fossero riservati a lui, a lui soltanto, e similmente aveva
immaginato di
essere lui ad affondare ripetutamente fra le sue gambe, perdendovisi e
ritrovandosi poi ansante sul suo corpo nudo, certo di averla appagata.
Teneva
nascosto questo suo tormento, temendo di esser preso in giro dagli
amici, ma
gli procurava molta sofferenza. Credeva che la natura fosse stata
ingiusta con
lui, non dotandolo di prestanza fisica, proprio quella che tanto
apprezzava la
sua amata. Non era giusto che gli fosse preclusa la felicità
a causa di difetti
fisici che, con tutta la buona volontà e la determinazione,
non poteva
cancellare.
Quando
giunse alla linea che delimitava l’area di rigore
alzò la testa. Il Comunista
presidiava il palo a sinistra, mentre vi era un pertugio libero in
basso a
destra, che avrebbe potuto raggiungere solo con un tiro preciso e
angolato. Di
nuovo il Vichingo provò a fermarlo, ma lui scartò
verso destra e controllata
nuovamente la posizione del portiere, fece partire il tiro.
Colpì la palla con
l’interno destro e il pallone rotolò rapidamente
in direzione del palo destro.
Il
Comunista non riuscì, allungando il braccio, ad intercettare
il rasoterra e il
pallone oltrepassò la linea di porta. I suoi compagni
esultarono e anche Cesare
lo applaudì. Questo dimostrava che l’esercizio, la
caparbietà e un pizzico di
intelligenza potevano equiparare le scarse doti fisiche. Come avrebbe
voluto
che la sua migliore amica lo capisse.
Il
gioco riprese regolarmente e la sfera passò fra i piedi del
Vichingo. Poté
avanzare indisturbato fino alla metà campo perché
Cesare lo ostacolò con una
marcatura molto blanda. Sentiva che era troppo facile, senza di lui;
gli
sembrava quasi di imbrogliare, di star giocando una partita venduta. Il
Vichingo, a dispetto del suo aspetto che poteva incutere timore, era
molto
partecipe delle sofferenze dei suoi amici e sotto la scorza da burbero
nascondeva un animo buono. Non poche erano state le volte in cui aveva
dovuto
trarre fuori dai guai ora questo ora quell’amico. Appariva
superficiale ad un
primo esame, ma una volta instaurata una maggiore confidenza veniva
fuori la
sua indole altruista. Sul campo preferiva mettere gli altri in
condizione di
segnare, piuttosto che fare gol, e per questo era stato definito
“assist-man”.
Dribblò
Flavio con facilità, poi notò Carlos che
s’era smarcato al centro dell’area di
rigore. Gli passò la palla e il ragazzo la colpì
“di prima”, senza voltarsi o
prendere la mira. Quel tiro improvviso, che pareva dovesse sorprendere
il
portiere, non oltrepassò i pali.
Peppe
faceva buona guardia e fu rapido a deviare il tiro di Carlos verso
destra,
lasciando che terminasse fuori. Peppe era rinomato per i suoi buoni
riflessi.
Era
alto più o meno quanto Gianluca, anche se aveva
più muscoli e più forza; data
la sua taglia, non sembrava proprio il più adatto a
ricoprire il ruolo da
portiere, poiché non era alto e nemmeno troppo agile, ma
disponeva di riflessi
pronti ed era questo il suo punto di forza. Era un tipo allegro, di
rado
ombroso e taciturno, sempre pronto a far festa con gli amici in
compagnia di
una cassa di birre; lavorava come deejay e gli piaceva imboscarsi nei
vari
locali per poi trascorrere la serata far alcool, ragazze e, se
capitava, droga.
Pareva
uno di quei ragazzi senza arte né parte, prendeva la scuola
con leggerezza, marinava
quando gli andava e si assentava spesso: tutti i suoi sforzi erano tesi
ad
ottenere quel sei politico che gli avrebbe garantito la
tranquillità. Ad un
primo esame avrebbe potuto dare l’impressione del solito
coglione senza veri
interessi, circondato da amiche pronte a soddisfare i suoi bisogni
fisici,
interessato solo alla sua immagine e a tener saldo il posto che
occupava
all’interno del gruppo. Non era tutto qui, sotto la
superficie ilare e l’aria
da spaccone Peppe celava avvenimenti di cui non amava parlare e che non
voleva
ricordare.
Saltava
da un palo all’altro per impedire che il pallone violasse la
sua porta, si
impegnava con tutte le sue forze per mantenerla illibata, rischiando
anche di
venir travolto dall’impeto degli attaccanti in qualche uscita
un po’ troppo
azzardata ed era per questo considerato uno degli elementi
più validi,
superiore al Comunista nel ruolo di portiere.
Il
calcio d’angolo battuto dal Fumatore andò a buon
fine: il pallone compì una
traiettoria calcolata nella direzione di Carlos. Lui, accertatosi che
Flavio
fosse troppo occupato a contenere assieme a Gianluca il Vichingo,
considerato
l’avversario più pericoloso per via della sua
stazza, fu libero di spingere il
pallone verso la rete, certo di essere andato a segno.
Ma
Peppe gli impedì di fare goal, allungandosi verso sinistra e
sdrucciolando sul
terreno per deviare il tiro. L’azione fu così
rapida che l’intervento del
portiere risultò ancora più decisivo,
perché Carlos era già pronto ad esultare.
Peppe raccolse la sfera fra le mani, proteggendola dagli avversari,
mentre
l’altro ragazzo si disperava.
-Bravo
Peppino!- si congratulò Cesare, che aveva molta stima di lui.
Peppe
sapeva cos’era a rendere Cesare così svogliato e
pensieroso, ma non aveva
intenzione di dire nulla agli altri: il loro leader avrebbe deciso se
fosse
opportuno o meno rendere tutti quanti partecipi del suo dolore.
Rilanciò la
palla in avanti, controllando i graffi sull’avambraccio da
cui stillava sangue,
a causa del contatto con il terreno. Si strofinò la
maglietta per togliersi di
dosso la polvere e si posizionò al centro della porta;
così assumeva un’aria
fiera e importante, nonostante la sua bassa statura.
Non
aveva paura degli altri, per quanto lo superassero in altezza: il suo
compito
era proteggere la porta ed era pronto a farlo a qualsiasi costo. Allo
stesso
modo avrebbe voluto proteggere sua sorella dal mostro che le aveva
strappato la
verginità. Chi avrebbe potuto sospettare che
l’amico di famiglia, da sempre
compagno del fratello, insidiasse a quel modo la sorellina e avesse
tali mire
su di lei? La scoperta di quel traditore intestino lo aveva devastato e
riempito di una rabbia indicibile: avrebbe voluto immediatamente
correre da lui
per ferirlo, per ucciderlo, per cancellare con le sue stesse mani
quell’efferatezza.
Al
solo pensiero sentiva l’adrenalina scorrere nelle proprie
vene e il suo corpo
acquistare una forza rabbiosa, violenta, i suoi occhi incupirsi e il
suo
sorriso allegro scemare, per lasciare il posto alla smorfia di dolore
di chi
non chiede altro che vendetta.
Il
gioco proseguì tranquillamente per una mezz’ora,
con un altro paio di gol per
parte. Ora la sfera di cuoio era in possesso di Flavio, che avanzava
timidamente sulla fascia destra.
Subito
Carlos gli andò incontro per contrastarlo, armato del suo
perenne ghigno
strafottente. Flavio osservò il suo avversario avvicinarsi
in fretta e con
impeto, certo di riuscire a strappargli il pallone.
Fra
i due non correva buon sangue: Flavio era la vittima preferita di
Carlos, che
non perdeva occasione per denigrarlo, e naturalmente per contro il
ragazzo
covava un rancore speciale nei suoi confronti. Carlos lo attaccava su
più
fronti, ma ultimamente aveva preso a fare apprezzamenti pesanti sulla
madre di
Flavio. Tutti i ragazzi riconoscevano come la donna fosse bellissima e
attraente, doti che non aveva purtroppo trasmesso al figlio, ma
trattandosi
appunto della madre di Flavio non osavano andare oltre un certo limite.
Carlos
invece, che non conosceva mezze misure e doveva sempre cogliere
l’occasione di
infastidire il ragazzo, vagheggiava di sogni erotici e masturbazioni
che
avevano avuto la donna come protagonista; gli altri a quel punto
ridacchiavano,
ma era evidente che Carlos stava esagerando, nella sua spavalderia.
Flavio
non sognava minimamente di ribellarsi: come avrebbe potuto uno sfigato
magrolino e occhialuto come lui competere con un ragazzone
più alto, più forte
e più popolare come Carlos?
Ma
si prendeva le sue piccole rivincite, ogni tanto. Sfruttò la
sicurezza
dell’avversario e il suo trattarlo con
superficialità per sorprenderlo.
-E
dammi ‘sta palla!-.
Carlos
sopraggiunse a chiudergli ogni spazio per avanzare, tentando soffiargli
la sfera,
ma Flavio non indietreggiò né chiese
l’aiuto di qualche compagno.
Attese
che l’altro si trovasse a pochi centimetri, poi con un tocco
fece passare il
pallone sotto le sue gambe, compiendo un “tunnel”;
subito lo aggirò e recuperò
la palla, dirigendosi verso l’area avversaria. Carlos fu
così stupito di essere
stato gabbato che per qualche secondo non reagì, limitandosi
a guardare; poi si
ricordò di aver fatto una pessima figura e rincorse Flavio
per rinnovare il
duello. Nel punto in cui il suo intelletto era limitato, interveniva la
forza
bruta.
Mentre
tutti si affannavano intorno a quel pallone, si scontravano,
sgomitavano,
sudavano e bestemmiavano, Cesare non aveva mosso un passo, non aveva
compiuto
un solo scatto, non aveva mai tirato verso la porta.
Le
spalle cascanti e lo sguardo basso, stava al centro dell’area
di rigore del Comunista
e calciava di tanto in tanto qualche sassolino. Non sembrava
interessarsi di
quanto accadeva intorno a lui, delle urla dei compagni, della direzione
che
assumeva il pallone, del risultato. Teneva le mani in tasca e osservava
la
linea rossa che delimitava l’area di rigore. Il Comunista,
approfittando
dell’azione che si stava svolgendo al centrocampo, lo
guardò a lungo
domandandosi cos’avesse. Flavio, prima della partita, gli
aveva accennato
qualcosa riguardo ad un incidente che vedeva coinvolto un amico di
Cesare. Il Comunista
pensò fosse una motivazione plausibile da indurlo a
comportarsi così, ad essere
così abbattuto; era sensibile al tema della morte e si
dispiacque di vederlo in
quello stato.
-Cos’hai?-
chiese – Ti vedo proprio abbattuto-.
Quelle
erano circostanze che inducevano ad avvicinarsi agli altri e
condividere il
loro dolore, mettendo da parte qualsiasi differenza di ideologia,
religione,
lingua, classe. Cesare non stava simpatico al Comunista e viceversa
questo non
lo reputava altro che uno pseudo-dittatore, ma in quel frangente
dominato dal
lutto egli era disposto a mettere da parte il suo disprezzo. Nessuno
meritava
la morte, nemmeno il proprio peggior nemico.
Cesare,
che riconosceva al Comunista un’intelligenza superiore, si
degnò di rispondere:
-Nulla,
è che un amico m’ha fatto un brutto scherzo-.
Il
sorriso amaro con cui pronunciò queste parole non lasciava
spazio
all’immaginazione e il Comunista, sinceramente dispiaciuto,
non aggiunse altro.
Nel
frattempo Flavio era riuscito ad introdursi nella metà campo
avversaria, con
Carlos che lo spintonava nel tentativo di recuperare il pallone. Il
ragazzo
mingherlino resisteva bene ai suoi colpi, ma necessitava di aiuto
poiché anche
il Vichingo era corso in aiuto di Carlos. I due, che erano i
più possenti dal
punto di vista fisico, ebbero la meglio su Flavio arpionando la palla e
spingendolo a terra.
-Oh!
Fallo!- lui allargò le braccia e da terra invocò
l’approvazione dei suoi
compagni.
Carlos,
che era già pronto a ripartire, si fermò e
levò un braccio: universalmente
significava “va’ a quel paese”.
-Ma
che cazzo dici?- protestò il Vichingo.
-Oh,
mi avete spinto così!- Flavio mimò il gesto
strattonandosi la casacca.
-Fallo,
è fallo!- Gianluca intervenne a supportare il compagno,
andando verso Carlos e facendosi
restituire il pallone.
-Minchia,
sei un fottuto cacasotto!- esclamò questo, irritato per il
precedente dribbling
subito e per non essere riuscito a fermarlo.
-Cos’è,
allora?- domandò il Fumatore, rientrato dall’area
di rigore.
-Punizione
per loro- spiegò il Vichingo.
Lui,
preposto a far da barriera, si posizionò a pochi metri da
Flavio che nel
frattempo aveva ripreso il pallone e se l’era sistemato per
bene.
Gianluca
si avviò verso l’area di rigore, cercando di
eludere la marcatura del Fumatore
e di Carlos. Il Comunista batté i guanti e si
preparò a difendere la porta, gli
occhi socchiusi per contrastare la luce del sole. Tutto pareva pronto,
si
aspettava solo che Flavio calciasse.
Ma
ad un tratto Cesare, che vagava per l’area di rigore lasciato
libero dai suoi
compagni, si avviò a passo deciso verso il punto di battuta.
-Tiro
io- sentenziò, invitando Flavio a spostarsi. Nessuno lo
contraddisse o replicò,
tutti stupiti dalla sua risolutezza.
Il
Comunista non mutò la sua espressione, ma quando vide Cesare
scansare Flavio,
prendere il pallone e posizionarlo con l’intenzione di
tirare, un brivido gli
percorse la schiena. Flavio poteva essere un buon giocatore, ma non lo
impensieriva più di tanto, mentre di Cesare doveva
preoccuparsi, considerando
soprattutto il suo mutevole stato d’animo. Si
drizzò sulla schiena e parandosi
il volto con un guanto, lo osservò bene.
Cesare
teneva il pallone fermo con la suola e stava ricambiando il suo sguardo
con
altrettanta intensità. Il sole proiettava la sua ombra sul
terreno e conferiva
al suo volto un aspetto ancora più orgoglioso e fiero di
quanto non fosse
normalmente. Al Comunista parve di aver davanti un guerriero che,
stremato
dalla fame e dalle intemperie, dalla stanchezza e dai lutti, non avesse
rinunciato a combattere e avesse in corpo ancora più forza
di prima. Per questo
non poté evitare di rabbrividire: vedeva negli occhi
dell’avversario nuovo
vigore e un animo ritemprato, sembrava quasi che avesse intenzione di
scrollarsi di dosso tutte le sue preoccupazioni pur di affrontarlo e
vincere
quella sfida.
Per
prendere la rincorsa, il ragazzo fece qualche passo indietro, misurando
la
distanza fra i suoi piedi e il pallone con cura. Gli altri ragazzi che
attendevano la punizione lasciarono perdere le marcature e gli schemi
difensivi: era scontato che Cesare avrebbe tirato in porta.
Il
Comunista si piegò sulle ginocchia e pensò che si
sarebbe buttato verso destra.
Piegò le dita delle mani per saggiarne la
sensibilità e si accorse che erano
madide di sudore, essendo state rinchiuse in un paio di guanti di
gomma. Il
sole non rendeva facile il suo compito: la luce troppo intensa poteva
accecarlo
e impedirgli di intuire la traiettoria del pallone, tuttavia era certo
che
Cesare avrebbe tirato verso destra. Notò il piede sinistro
posto in avanti per
prendere la rincorsa e dal modo in cui stava aggrottando le
sopracciglia capì
che non avrebbe badato ad imprimere qualche particolare effetto al
volteggio
della palla, ma avrebbe tirato di potenza, quasi alla cieca.
Capiva
quali erano le sue intenzioni: voleva scaricare tutta la rabbia e la
frustrazione in quel tiro; pur riconoscendo le sue nobili intenzioni,
non gli
avrebbe permesso di batterlo.
I
duelli fra Cesare e il Comunista erano sempre carichi di retroscena e
significati
nascosti e ognuno dei due, pur rispettando l’avversario, si
augurava di uscirne
vincitore a scapito dell’altro.
Quando
era morto il padre del Comunista, Cesare era stato il primo a saperlo e
a
comunicarlo al resto della compagnia. Aveva fatto un discorso per
spiegare agli
altri la situazione: fra lui e il Comunista non c’erano buoni
rapporti, i
genitori del ragazzo erano divorziati da anni e questo non nutriva il
benché
minimo rispetto per il padre; per questi motivi la sua morte
l’aveva segnato
profondamente, per una settimana non s’era fatto vedere in
giro per consumare
il proprio dolore chiuso in casa. Nonostante avesse sempre fuggito la
sua
presenza, era rimasto scioccato dalla morte del padre, si era sentito
privato
di una parte di sé forse soffocata troppo a lungo, di un
frammento della sua
anima che lo vedeva ancora legato alla figura paterna e lo implorava di
assumersi le sue responsabilità, di tornare a fargli
compagnia.
Implicitamente,
raccomandando agli altri di evitare battute e lasciarlo in pace per un
po’,
Cesare l’aveva tacciato di debolezza per essersi fatto
dominare a quel modo dal
dolore. Lui invece, pur straziato dalla sofferenza per la morte
dell’amico, non
aveva ceduto e si era presentato come sempre alla partita. Ma il
Comunista non
aveva intenzione di favoreggiarlo a causa del suo umore e si
preparò a parare
il tiro.
Cesare
non prese una lunga rincorsa: indietreggiò di due passi e li
ripercorse
lentamente. La forza con cui però impattò il
pallone lasciava trapelare tutta
la rabbia che aveva in corpo e che era deciso a buttar fuori.
Il
Vichingo non provò nemmeno a deviare il tiro, anzi quasi si
scansò,
permettendone il passaggio. Il pallone volò rapidissimo in
direzione della porta,
senza volteggiare o compiere alcuna rotazione su se stesso. Cesare
aveva
colpito con l’interno destro del piede, senza imprimere
particolari effetti
alla palla; dopo aver calciato allungò il collo per
controllare l’esito del
tiro.
Questo
era così rapido e potente che il Comunista ebbe paura di
affrontarlo, ma si
tuffò ugualmente verso destra per cercare
d’intercettarlo, anche a costo di
farsi male. Aveva intuito bene: la palla si diresse verso la sua destra
con un
sibilo e lui allungò le braccia nel tentativo di
respingerla; il suo intervento
non fu necessario: con un rimbalzo notevole il pallone
sbatté sul palo e il
portiere tirò un sospiro di sollievo. La botta era stata
tanto forte da far
tremare la porta e la vibrazione perdurò ancora per qualche
secondo,
testimonianza della potenza che era stata investita nel tiro.
Dopo
un momento di smarrimento da parte di tutti, i ragazzi ripresero a
giocare e
Gianluca andò a prendere possesso della sfera, subito
attorniato da Carlos e il
Vichingo. Il Comunista si rialzò, sollevato per non aver
subito gol, e fu forse
l’unico a notare le labbra contratte e arricciate in una
smorfia di Cesare. Il
ragazzo guardava il pallone e dopo qualche secondo corse nella sua
direzione,
non curandosi degli altri.
-Dammi
la palla- comandò.
Loro
furono un po’ sorpresi di vederlo piombare
all’improvviso e Gianluca, quasi per
timore reverenziale, lo lasciò libero di disporre della
sfera di cuoio.
Cesare
se ne impadronì e lo fermò con la suola,
scrutando gli avversari a testa alta
come faceva sempre. Il Vichingo fu il primo ad andargli incontro,
felice che
l’amico si fosse scosso dal torpore, ma non riuscì
a fermarlo: Cesare lo evitò
con uno scarto verso sinistra.
Nemmeno
Carlos ed il Fumatore riuscirono a frenare la sua avanzata,
perché l’uno venne
spintonato con
forza e l’altro aggirato
con un altro dribbling. I ragazzi non osavano aggredirlo impiegando
tutte le
proprie forze, ma sapevano che anche così facendo non
sarebbero usciti
vincitori: nessuno sapeva giocare a pallone come Cesare e non
c’era nessuno che
potesse superarlo in qualcosa.
Certo
il Fumatore era alto, ma la sua altezza risultava a volte
d’ingombro, così come
il suo modo di giocare rabbioso; Cesare era sempre razionale e
ponderava ogni
sua mossa con attenzione. Il Vichingo l’avrebbe spazzato via
con una spallata,
ma essendo dotato di quella stazza i suoi movimenti erano a volte goffi
e
macchinosi; Cesare era ben proporzionato in altezza e muscolatura,
possedeva un
fisico asciutto e al contempo non era mingherlino.
Quando
ebbe superato in velocità i tre avversari, provò
di nuovo a tirare verso la
porta; il Comunista non si mosse nemmeno, poiché il tiro
terminò a lato, e il
ragazzo si mise le mani nei capelli.
-Perché
non vuol entrare?-.
Il
gioco riprese con la rimessa dal fondo, ma era ormai chiaro a tutti che
il
risultato non contava più: Cesare faceva di tutto per
recuperare palla,
pretendeva che i compagni lo servissero anche quand’era
marcato e non appena si
avvicinava abbastanza all’area avversaria tentava il tiro.
Non riuscì però a
segnare, per uguali meriti del Comunista e della sfortuna.
Sembrava
che il pallone non volesse saperne di oltrepassare la linea bianca, che
una
forza oscura impedisse a Cesare di avere la soddisfazione del gol. Il
ragazzo
provava e riprovava con foga rinnovata, ma non riusciva proprio a
segnare.
-Ma
perché cazzo non entra?- gridò ad un certo punto,
dopo l’ennesimo sbaglio.
Il
Vichingo, che gli stava vicino, poté udire la sua voce
incrinarsi leggermente e
incuriosito da questo dettaglio lo guardò con più
attenzione: teneva lo sguardo
basso e le sue labbra tremavano, segno che fosse stato solo avrebbe
voluto
piangere per sfogare il suo dolore.
Flavio
ottenne conferma da Peppe dell’incidente avvenuto solo
qualche ora prima: uno
dei migliori amici di Cesare, tentando un sorpasso sulla superstrada,
si era
scontrato con un tir ed era morto sul colpo, fracassandosi il braccio,
la
rotula e l’osso del collo ed i soccorsi l’avevano
trovato così, in mezzo alla
strada, le braccia disposte secondo angolazioni innaturali e il cuore
che da
tempo aveva smesso di battere.
Cesare
correva da una parte all’altra del campo, recuperando il
pallone e cercando
disperatamente, in preda ad una furia cieca, di segnare. Nonostante i
suoi
tentativi fallissero sempre, egli non rinunciava a riprovava sempre con
nuova
forza, ancora più determinato, con maggiore impeto della
volta precedente, come
se il fallimento si sommasse al dolore che stava provando ad esternare.
Sembrava quasi un animale ferito che, consapevole di essere destinato
alla
sconfitta, affronta l’avversario con orgoglio, sperando forse
di trovare la
morte nella battaglia.
Il
Vichingo e il Fumatore si scambiarono un’occhiata e decisero
di comune accordo
di abbandonare il campo, poggiandosi alla staccionata che lo
delimitava.
Gradualmente li raggiunsero anche Gianluca, Carlos, Flavio e Peppe,
lasciando
soli Cesare e il Comunista.
-Poverino-
commentò ad un certo punto Peppe.
Effettivamente
lo spettacolo era alquanto penoso: il ragazzo continuava a tirare quel
pallone
con tutte le proprie forze e quello puntualmente si allontanava dalla
porta.
Mano a mano che si andava avanti i tiri diventavano più
fiacchi e anche Cesare
ad un certo punto non ebbe più fiato. Il Comunista raccolse
il pallone che
debolmente era scivolato nella sua direzione, accogliendolo fra le
braccia, e
Cesare si fermò. I ragazzi guardarono il loro leader gettare
la spugna e
sedersi sul terreno, prendendosi la testa fra le mani.
-Che
facciamo?-.
-Andiamocene-
propose Carlos, che fu il primo a dirigersi verso la propria moto e
abbandonare
il campo.
Il
Comunista riportò il pallone a Gianluca e incitò
Flavio a salire sulla sua
macchina; anche loro sparirono verso la città,
così come Gianluca. Peppe, il
Vichingo e il Fumatore rimasero appoggiati a quella staccionata,
l’uno
silenzioso e quieto, gli altri due sudati e ansanti. Si tolsero le
magliette,
usandole per tergersi la fronte e sventolarsi, abbattuti dal sole
pomeridiano.
Stettero a guardare Cesare che, ancora fermo in mezzo al campo,
riprendeva
fiato e non sembrava patire il caldo. Tutti e tre avrebbero voluto
dirgli
qualcosa, ma preferirono restare in silenzio riconoscendo che nessuna
delle
loro parole avrebbe risollevato l’amico.
-Hai
da accendere?- domandò Peppe ad un certo punto, rivolto al
Fumatore.
Questo
gli porse un accendino e Peppe lo usò per appiccare fuoco
all’estremità di una
cartina, che poi iniziò a fumare. Non appena si accorse che
non si trattava di
tabacco, il Fumatore domandò se poteva fare un tiro.
Così
consumarono quella speciale sigaretta in tre, dando uno sguardo a
Cesare e riflettendo
ognuno sui propri problemi.
-Sta
piangendo- commentò ad un certo punto il Vichingo, alludendo
a Cesare.
Il
ragazzo stava ora con la testa fra le mani e pareva volersi strappare i
capelli, a giudicare dal modo in cui se li torceva; Peppe scosse piano
la testa
e il Fumatore disse:
-Non
ce l’ha fatta-.
Rimasero
così per un bel po’ di tempo, quel che
bastò a Cesare per sfogare il suo dolore
e riprendersi, ai tre per consumare tutte le sigarette e le canne di
cui
disponevano. Persino l’imperturbabile Cesare, solido nel suo
fanatismo
politico, indifferente alle emozioni, dotato di un carisma tale da
essersi
conquistato il ruolo di leader indiscusso nel gruppo, aveva ceduto al
dolore.
-Sono
quasi le sette, è tardi-.
-Sì,
andiamo-.
Cesare
si avvicinò a loro, recuperando gli occhiali da sole e
riponendoli sul naso;
dietro quelle lenti scure era libero di far scorrere le ultime lacrime.
Peppe
mise in moto il motorino, offrendosi di riaccompagnarlo a casa, mentre
il
Fumatore e il Vichingo si incamminarono verso la città.
Il
sole stava scomparendo dietro le colline e il campetto, ora che non era
più
animato da alcun duello, appariva squallido e desolato. Solo poco
prima, su
quel cemento, otto ragazzi avevano consumato i propri dolori ed uno di
loro,
cedendo alle lacrime, aveva forse sentito per la prima volta la
gravità della
vita. Come sempre, non esultavano e non tornavano a casa assieme, ma
ognuno
prendeva la sua strada in preda ai più svariati pensieri.
Una volta terminata
la partita, erano tutti perdenti.