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Autore: Pichichi    30/04/2011    0 recensioni
Sarebbe potuto cascare il mondo, ma i ragazzi non avrebbero mai rinunciato alla partitella pomeridiana; sopportavano la pioggia, il vento, il sole cocente d'estate. Non importava realmente il risultato, poiché quello sfidarsi assumeva per loro significati particolari: ognuno di loro riversava in quella battaglia le proprie frustrazioni, i propri timori, le proprie insicurezze, sperando di esorcizzarle correndo e ansimando dietro al pallone. La partita aveva un effetto catartico e il numero di reti segnate non significava nulla; alla fine, quando stremati si riposavano, restavano tutti perdenti.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano le cinque del pomeriggio. Sulla staccionata che delimitava il campo stavano appollaiati due ragazzi, unici temerari capaci di sfidare il caldo sole di maggio che, ancora alto nel cielo, batteva sulle loro nuche. Erano già sudati. Uno di loro, il più alto, fumava in silenzio una sigaretta arrangiata, partorita poche ore prima mettendo insieme il tabacco e il filtro, poi cucendoli insieme con la saliva. Il Fumatore teneva le gambe lunghe penzoloni e molleggiava il peso del suo corpo ora da una parte o da un’altra. Aspettava già da dieci minuti, insieme al suo amico.

Lui invece non fumava, ma gli si era seduto accanto, sulla staccionata; alzava lo sguardo verso il sole e di tanto in tanto scollava il tessuto della maglietta dal ventre, per permettere all’aria di infiltrarsi al suo interno. Era biondo, con occhi chiari e dalla corporatura massiccia: per questo gli avevano dato il soprannome di Vichingo. Stavano in silenzio, consci che gli altri non avrebbero tardato ad arrivare.

Così fu: gradualmente si radunarono tutti attorno alla staccionata, terminando di fumare insieme un’ultima sigaretta.

-Chi manca?-.

Arrivarono tutti, chi in coppia con qualcun altro, chi con la moto, chi da solo. Il Vichingo e il Fumatore scesero dalla staccionata, andando loro incontro; il Vichingo sorrise e cominciò a salutare uno ad uno gli amici, mentre il Fumatore li contava mentalmente, verificando che non mancasse nessuno.

Peppe si preoccupò che la sua moto riposasse all’ombra del palazzo disabitato e che le gomme non incorressero in alcun ago o vetro. Si presentava al campo sempre con un certo ritardo e indossava sempre un paio di scarpe blu scuro, con la suola rialzata. Portava obbligatoriamente i jeans a vita bassa e vestiva magliette dai colori sgargianti: fra i ragazzi, era quello che forse teneva di più alla propria immagine.

Flavio arrivò insieme a Stefano, il Comunista, sull’automobile di quest’ultimo. Si preoccupavano solitamente di fornire il tè e l’acqua per ristorarsi dopo la partita; Flavio era l’unico di loro a portare gli occhiali e la prima cosa che fece, una volta avvicinatosi al gruppo, fu fissare lo zaino che aveva con sé ad una delle assi della staccionata. Non si arrischiò a parlare perché temeva che lo prendessero in giro per via della sua erre moscia.

Il Comunista batté una mano sulle spalle del Fumatore, nonostante le raggiungesse a malapena, e domandò:

-Dov’è la palla?-.

-Qua-.

Gianluca era il più basso di tutti quanti, provvisto di una chioma adeguatamente acconciata a mo’ di cresta. Era sempre lui a portare con sé il pallone, in modo che potessero giocare la tradizionale partitella del pomeriggio. La sfera di cuoio passò dalle sue mani ai piedi del Fumatore, che la stoppò con la suola e terminò con calma la sua sigaretta.

Il pallone che utilizzavano aveva sopportato intemperie di ogni genere, urti e sbalzi di ogni tipo, ma non aveva ancora ceduto. Certo non era più gonfio e pulito come una volta, ma i ragazzi non volevano separarsene: quell’oggetto li univa e li legava più di quanto potessero immaginare, riusciva a tenere insieme tutti loro, ognuno con le proprie diversità. Rotondo, sporco di terra, graffiato dalle ortiche e dai rovi che circondavano il campetto, sgonfio per via dei numerosi calci ricevuti, dalle piastre scorticate che rendevano quasi visibile la gomma nera all’interno, tuttavia ancora presente e pronto ad essere maltrattato.

-Andiamo?- il Comunista si rimboccò gli orli dei pantaloni alzandoli fino al ginocchio, poi indossò un paio di scarpe da calcio bianche.

-Sì, andiamo- appurato che erano in numero pari, il Fumatore prese in mano la palla e si diresse verso il centrocampo.

Non aveva fatto che due passi verso il bordo campo, che udì il rombo di un motore e per questo si fermò. Tutti si voltarono a guardare il ragazzo che, visibilmente più grande di loro, poggiava a terra la moto e si affrettava a raggiungerli.

-Carlos!- gli gridò Gianluca –E datti una mossa!-.

Carlos si avvicinò a loro con un ghigno sul viso, come suo solito: quel sorriso largo che mostrava i denti gialli era divenuto il suo marchio di fabbrica. Si liberò rapidamente della maglia che aveva sopra per restare in canottiera. Carlos aveva vent’anni e nonostante non fosse più alto del Fumatore o più massiccio del Vichingo, dimostrava la sua età attraverso i lineamenti del volto. Lasciava sempre crescere le basette, i baffi e il pizzetto, portava un anello di ferro all’angolo destro del labbro e due similari su entrambi i lobi delle orecchie.

-Andiamo, va’- superò Gianluca e il resto della compagnia, prendendo possesso del pallone e rivolgendo loro il solito ghigno.

Una volta scoperto quel posto, non l’avevano più abbandonato.

Il campetto aveva le dimensioni del terreno di gioco da calcetto e originariamente doveva esser stato un luogo di ritrovo per ragazzini. La staccionata di legno era l’ultimo residuo della recinzione che doveva averlo circondato, con le panchine, le tribune e le porte in metallo. Il suolo era in cemento e il fondocampo era delimitato da un’ormai sbiadita linea rossa; le porte erano state rivestite di bianco, tempo addietro, ma ora quel che ne restava era una consistente quantità di ruggine; le reti erano durate troppo poco, squassate dalla violenza dei tiri e dal vandalismo d’ignoti ragazzi, che ne avevano lasciato soltanto brandelli.

Anche il paesaggio che circondava il campetto non era invitante: la zona era deserta, il palazzo che vi si affacciava era stato dichiarato inagibile e pericolante; mucchi di spazzatura erano accatastati attorno a due cassettoni, causa della costante presenza di gatti; non vi era vegetazione, ma soltanto rovi, sterpi essiccate e strade sterrate che riconducevano in città. In quel caldo pomeriggio di Maggio, le uniche ombre che si stagliavano sul campetto erano quelle dei ragazzi.

Il Comunista, indossati i guanti da portiere, fece notare:

-Manca Cesare-.

Poi guardò Peppe, sperando di ottenerne notizie.

-Non so, non l’ho visto-.

-Io nemmeno- .

-Va be’, giochiamo senza, che problema c’è?- propose Carlos, che non pareva cogliere il motivo del loro smarrimento.

-Non possiamo giocare senza Cesare- gli fece notare Gianluca.

-Già- lo appoggiarono gli altri, tutti in attesa di una soluzione.

-E chi cazzo lo dice?- Carlos prese a spostare il pallone da un piede all’altro –Minchia, siete proprio dei leccaculi. Cazzo significa che se non c’è lui non possiamo giocare?-.

-Siamo dispari, questo è il problema, capisci?- replicò il Comunista, guardandolo male.

Erano stati compagni alle superiori, prima di essere entrambi bocciati e decidere di intraprendere strade diverse. In ogni caso al Comunista non stava per nulla simpatico Carlos, il suo ghigno e le sue maniere arroganti e infantili. Cesare non lo entusiasmava, ma perlomeno gli riconosceva il possesso di un certo quoziente d’intelligenza, dote che mancava del tutto a Carlos.

Il Fumatore si mise una mano davanti agli occhi per ripararsi dal sole e guardò in lontananza, oltre lo sterrato, sperando di distinguere la sagoma del giocatore mancante.

-Non so, raga’... iniziamo, poi si vede- disse.

Composero le squadre, con una certa difficoltà: solitamente era Cesare a disporre chi dovesse giocare contro chi. Peppe si posizionò immediatamente fra i pali della porta, quella più vicina alla sua moto; non amava sudare e sporcarsi i vestiti come facevano i suoi compagni, quindi preferiva stare a difendere la porta. Allo stesso modo anche il Comunista si poggiò al palo della porta opposta, infilando con cura i guanti e afferrando l’asta trasversale per verificare la presa.

Flavio gli si avvicinò, tirando su le maniche della maglia che indossava, e disse:

-Ho sentito di un incidente... -.

-Che incidente?-.

-Sulla statale... un ragazzo che Cesare conosceva... -.

Il Comunista prendeva sempre in giro Flavio alla pari degli altri ragazzi, che gli rimproveravano la scarsa virilità e lo scarso carisma; era considerato lo sfigato del gruppo e a nessuno di loro veniva in mente di aiutarlo o difenderlo quando era preda delle angherie degli altri. Per questo motivo Flavio parlava poco, limitandosi a correre, sudare e sopportare tutto quel che gli urlavano senza battere ciglio, domandandosi comunque perché non lo escludessero dalla compagnia. Certo lo mortificavano, ma gli permettevano di giocare a pallone assieme a loro.

Il Comunista non ebbe tempo di formulare alcun commento, perché Gianluca indicò una sagoma che lentamente si avvicinava al campo e gridò:

-Eccolo, è arrivato!-.

Un ragazzo avanzava fra le sterpi, indossando dei pantaloni di tuta ormai consunti e un paio di occhiali neri, da sole. Se era il ghigno a contraddistinguere Carlos, quegli occhiali neri erano diventati il simbolo di Cesare, tanto che non se ne separava mai se non in rare occasioni. Non si curava di parer maleducato evitando di guardare il suo interlocutore negli occhi, persistendo nel tenere quell’accessorio sul naso, perché contribuisse a dargli un tono.

-Dici che è per questo che ha fatto tardi?- chiese il Comunista a Flavio, mentre si avvicinavano al centro del campo.

-Forse, non so... probabilmente sarà andato ad informarsi, mi sembrava che fossero amici...-

-Cazzo, non puoi fare nulla per questa erre?- sbottò il Comunista, chiaramente infastidito da quella pronuncia così particolare.

Tutti si radunarono al centro del campo per chiedere spiegazioni sul ritardo, tranne Carlos che restò in disparte, comunque interessato.

-Dove cazzo eri?- fu la domanda del Fumatore, che sorrise all’amico andandogli incontro.

-Era sicuramente a scoparsi qualche amica- sogghignò il Vichingo.

Cesare scrollò le spalle e si rivolse a Carlos.

-Dammi la palla-.

Il tono lapidario con cui pronunciò quelle parole fece intendere a tutti che era accaduto qualcosa d’importante e che, soprattutto, era tassativamente vietato fare domande. Perfino Carlos, che manifestava chiari segnali d’insofferenza, acconsentì a far rotolare la sfera di cuoio fino ai suoi piedi.

Cesare si tolse gli occhiali da sole e scrutò attraverso gli occhi scuri ciascuno dei suoi compagni.

-Allora siamo io, Peppe, Flaviuccio e Gianluca contro voi quattro- stabilì.

I ragazzi non opposero resistenza e, rinvigoriti dalla presenza del leader, presero posizione cercando di caricarsi a vicenda.

Cesare poggiò gli occhiali da sole proprio accanto alla staccionata e prese posto al centro del campo, accanto a Gianluca. Era sempre così: Cesare sceglieva gli elementi più deboli per dimostrare come la sua superiorità, in campo e fuori, fosse indiscutibile. Specialmente gli premeva vincere in maniera schiacciante contro Carlos, l’unico dei ragazzi che non fosse assoggettato ai suoi ordini. Sapeva che avrebbe potuto ordinare a Flavio di calarsi i pantaloni davanti a tutti e che lui, subordinato totalmente al suo volere, lo avrebbe fatto; ma si divertiva anche a prenderlo in squadra con sé, per mostrare agli altri come potesse rendere vincitore un perdente cronico quale era Flavio. Si grattò la barba con una mano e diede uno sguardo alla porta difesa dal Comunista. Nemmeno con lui aveva buoni rapporti: le loro ideologie politiche non avrebbero potuto essere più distanti. Lo rispettava per la sua intelligenza, ma in cuor suo lo riteneva un essere insignificante, che sospettava tendesse all’omosessualità.

Il Vichingo scambiò uno sguardo col Fumatore e questo bastò loro per intendersi: credevano di aver già capito a cosa fosse dovuto il malumore di Cesare. Formavano una coppia ben assortita, loro due: l’uno alto, magro e agilissimo, l’altro forte e robusto; si capivano al volo senza bisogno di parole e questo era uno dei motivi per cui la loro collaborazione risultava efficace anche in campo, oltre che nella vita.

Sapevano già che quella partita sarebbe stata più intensa e significativa del previsto.

 

Finalmente cominciarono a giocare, dapprima buttando palloni alla rinfusa verso l’area di rigore, ancora troppo statici e pesanti per costruire il gioco, poi facendo circolare il pallone con abili tocchi.

Carlos fu il primo di loro a manifestare, oltre alla voglia di giocare, una certa cattiveria agonistica. Cominciò subito a spintonare e farsi largo fra gli avversari, puntando soprattutto verso Flavio. Il ragazzo vi era abituato, così non si spaventò troppo. Credeva di aver capito quale fosse il modo di giocare di Carlos: portava palla sull’esterno e lo costringeva ad allargarsi, quindi l’indietreggiare fino al limite dell’area di rigore e il non sfidarlo mai in velocità potevano essere le possibili contromosse.

Cesare si mantenne apatico ed indolente per i primi minuti, privo dell’agonismo e dell’egoismo che lo caratterizzavano, si limitò a ciondolare nella trequarti avversaria in attesa che qualche suo compagno gli passasse il pallone.

-Cazzo hai?- gli gridò il Vichingo mentre lo teneva sotto controllo, sperando così di scuoterlo.

-Nulla-.

Gianluca riconquistò palla e dopo aver oltrepassato la linea di centrocampo la passò a Cesare. Solitamente il ragazzo, una volta in possesso della sfera, avanzava nell’area avversaria facendo sfoggio di abilità funamboliche non comuni, consapevole che qualora avesse sbagliato nessuno gli avrebbe rimproverato il mancato passaggio o la caparbietà del voler fare tutto da solo. Semplicemente, Cesare comandava e gli altri non potevano fare a meno di obbedirgli. Fossero stati un branco di lupi, avrebbe potuto prendere la denominazione di “maschio alfa”.

 Stavolta invece, non appena ebbe il pallone fra i piedi, lo passò con un tocco di prima a Gianluca, che nel frattempo si era portato in avanti. Il ragazzo fu stupito: non era così che andavano le cose, solitamente. Cesare passava il pallone agli altri solo nel caso in cui fosse realmente impossibilitato a proseguire con le sue forze. Quella volta invece l’aveva fatto di proposito, come se non gli importasse.

Il Fumatore fu lesto a riconquistarla, approfittando del malinteso fra i due e la passò al Vichingo alzando contemporaneamente un braccio.

Stando alla loro personale simbologia, quel gesto significava: lancio lungo sulla trequarti. Il Fumatore era altissimo e i due ragazzi combinavano la precisione di uno con la potenza di elevazione dell’altro, in modo che una volta trovato il tempo giusto per lo stacco, nessuno avrebbe potuto ostacolarlo e il colpo di testa sarebbe andato dritto in porta.

Il Vichingo colse il segnale e lanciò il pallone in avanti, imprimendogli un movimento parabolico perfettamente calcolato. Il Fumatore, approfittando dell’assenza di Cesare, spintonò di lato Flavio e assicuratosi lo spazio necessario spiccò un salto.

Non aveva fumato soltanto semplici sigarette, prima; quella che lui chiamava “erba” e che prima aveva raccolto in una cartina per poi fumarla, pur essendo un surrogato di bassa qualità che prevedeva una composizione di piante eterogenee, era sufficiente ad iniettargli in corpo una smania e un’eccitazione senza pari. Era sempre stato un ragazzo iperattivo. Aveva convogliato questa sua caratteristica nello sport, ottenendo sempre ottimi risultati per via del suo fisico, ma ciò non aveva contribuito a fargli passare quella smania di agire, di fare, di colpire e di correre che lo agitavano. Quando s’impegnava nello sport, non dovendo imporsi limitazioni, poteva esprimere tutta quell’adrenalina mista a rabbia. Quella sostanza lo inebriava molto più dell’alcool, pur arrossandogli gli occhi gli permetteva di raggiungere livelli di prestazione non comuni anche per lui. Per questo lo definivano “rabbioso” nel suo modo di giocare: aveva in corpo tanta di quella energia da scaricare che nessuno, se non Cesare, era in grado di contenerlo.

Colpì il pallone con la fronte, torcendo il collo verso destra per imprimergli velocità e direzione, e quello docilmente deviò la propria traiettoria verso la porta. Il Fumatore stette a guardare l’esito dell’azione, deluso nel vedere Peppe che allungava le braccia e vi imprigionava il pallone.

Imprecò istintivamente, poi trotterellò indietro per riprendere posizione.

Peppe lanciò il pallone in direzione di Cesare, che era rimasto in area avversaria come un centravanti, tallonato dal Vichingo.

-Tua!-.

Ma anche stavolta Cesare si limitò a stopparla elegantemente con il petto, metterla giù e passarla lateralmente a Gianluca. Lui, avendo capito che per qualche motivo il loro leader era giù di corda e non era intenzionato a giocare seriamente, pensò di approfittarne: ricevuto il pallone, lo ripassò a Cesare e contemporaneamente fece un gesto sbrigativo con la mano. Nel loro universale linguaggio, questo significava: passami rapidamente il pallone.

Cesare si adeguò alla strategia dell’amico, lanciando la sfera di cuoio sulla sua corsia, in modo che caricato dallo slancio della corsa Gianluca acquistasse ancora più velocità. Era quello che in gergo veniva denominato “uno-due” o “triangolo”.

 

Poiché il Vichingo era impegnato a tenere d’occhio l’abbacchiato Cesare, Carlos era stanziato perennemente in attacco e il Fumatore rientrava dall’azione precedente, Gianluca aveva campo libero davanti a sé e non esitò a sfruttarlo.

-Attenti!- urlò il Comunista ai suoi compagni, irritato dal fatto che avessero lasciato quella zona del campo del tutto scoperta.

Gianluca correva veloce e in brava tempo si liberò dell’ostacolo del Vichingo, che aveva provato a disturbarlo, con un dribbling secco. Pur essendo di bassa statura e non avendo un complesso muscolare imponente, combinava la velocità con una buona tecnica. Sapeva gestire il pallone al meglio, districarsi negli spazi stretti e calciava abbastanza forte.

A scuola se la cavava, non rischiava mai la bocciatura e se doveva mettersi d’impegno a studiare per ottenere il sei, lo faceva senza rimandare. Non era alto come il Fumatore, non forte come il Vichingo, non intelligente come il Comunista, non carismatico come Cesare, ma sapeva ritagliarsi il suo spazio. Il suo cruccio era di non avere un bell’aspetto. Gli pareva che tutti i suoi compagni fossero più belli, più affascinanti, più virili di lui; effettivamente questo non era altro che un suo complesso d’inferiorità, poiché non era particolarmente brutto. Si sentiva piccolo e perciò inadeguato per stare al fianco di alcuna ragazza. Quale di queste avrebbe voluto un cavaliere più basso di lei?

Ma il tormento di Gianluca era causato da un’unica ragazza, una e solo una, che aveva il potere di farlo soffrire. Si era scelto forse la peggiore, fra tutte, perché essendo talmente bella Gianluca non nutriva la minima speranza che un giorno avrebbe potuto accorgersi di lui. Era sempre stato il suo migliore amico, si era sempre tenuto nell’ombra nel timore di essere rifiutato, aveva sofferto in silenzio vedendola passare fra le braccia di molti ragazzi. Tante notti aveva sognato che lo splendore di quegli occhi azzurri fosse destinato a lui, che i baci fossero riservati a lui, a lui soltanto, e similmente aveva immaginato di essere lui ad affondare ripetutamente fra le sue gambe, perdendovisi e ritrovandosi poi ansante sul suo corpo nudo, certo di averla appagata. Teneva nascosto questo suo tormento, temendo di esser preso in giro dagli amici, ma gli procurava molta sofferenza. Credeva che la natura fosse stata ingiusta con lui, non dotandolo di prestanza fisica, proprio quella che tanto apprezzava la sua amata. Non era giusto che gli fosse preclusa la felicità a causa di difetti fisici che, con tutta la buona volontà e la determinazione, non poteva cancellare.

Quando giunse alla linea che delimitava l’area di rigore alzò la testa. Il Comunista presidiava il palo a sinistra, mentre vi era un pertugio libero in basso a destra, che avrebbe potuto raggiungere solo con un tiro preciso e angolato. Di nuovo il Vichingo provò a fermarlo, ma lui scartò verso destra e controllata nuovamente la posizione del portiere, fece partire il tiro. Colpì la palla con l’interno destro e il pallone rotolò rapidamente in direzione del palo destro.

Il Comunista non riuscì, allungando il braccio, ad intercettare il rasoterra e il pallone oltrepassò la linea di porta. I suoi compagni esultarono e anche Cesare lo applaudì. Questo dimostrava che l’esercizio, la caparbietà e un pizzico di intelligenza potevano equiparare le scarse doti fisiche. Come avrebbe voluto che la sua migliore amica lo capisse.

 

Il gioco riprese regolarmente e la sfera passò fra i piedi del Vichingo. Poté avanzare indisturbato fino alla metà campo perché Cesare lo ostacolò con una marcatura molto blanda. Sentiva che era troppo facile, senza di lui; gli sembrava quasi di imbrogliare, di star giocando una partita venduta. Il Vichingo, a dispetto del suo aspetto che poteva incutere timore, era molto partecipe delle sofferenze dei suoi amici e sotto la scorza da burbero nascondeva un animo buono. Non poche erano state le volte in cui aveva dovuto trarre fuori dai guai ora questo ora quell’amico. Appariva superficiale ad un primo esame, ma una volta instaurata una maggiore confidenza veniva fuori la sua indole altruista. Sul campo preferiva mettere gli altri in condizione di segnare, piuttosto che fare gol, e per questo era stato definito “assist-man”.

Dribblò Flavio con facilità, poi notò Carlos che s’era smarcato al centro dell’area di rigore. Gli passò la palla e il ragazzo la colpì “di prima”, senza voltarsi o prendere la mira. Quel tiro improvviso, che pareva dovesse sorprendere il portiere, non oltrepassò i pali.

Peppe faceva buona guardia e fu rapido a deviare il tiro di Carlos verso destra, lasciando che terminasse fuori. Peppe era rinomato per i suoi buoni riflessi.

Era alto più o meno quanto Gianluca, anche se aveva più muscoli e più forza; data la sua taglia, non sembrava proprio il più adatto a ricoprire il ruolo da portiere, poiché non era alto e nemmeno troppo agile, ma disponeva di riflessi pronti ed era questo il suo punto di forza. Era un tipo allegro, di rado ombroso e taciturno, sempre pronto a far festa con gli amici in compagnia di una cassa di birre; lavorava come deejay e gli piaceva imboscarsi nei vari locali per poi trascorrere la serata far alcool, ragazze e, se capitava, droga.

Pareva uno di quei ragazzi senza arte né parte, prendeva la scuola con leggerezza, marinava quando gli andava e si assentava spesso: tutti i suoi sforzi erano tesi ad ottenere quel sei politico che gli avrebbe garantito la tranquillità. Ad un primo esame avrebbe potuto dare l’impressione del solito coglione senza veri interessi, circondato da amiche pronte a soddisfare i suoi bisogni fisici, interessato solo alla sua immagine e a tener saldo il posto che occupava all’interno del gruppo. Non era tutto qui, sotto la superficie ilare e l’aria da spaccone Peppe celava avvenimenti di cui non amava parlare e che non voleva ricordare.

Saltava da un palo all’altro per impedire che il pallone violasse la sua porta, si impegnava con tutte le sue forze per mantenerla illibata, rischiando anche di venir travolto dall’impeto degli attaccanti in qualche uscita un po’ troppo azzardata ed era per questo considerato uno degli elementi più validi, superiore al Comunista nel ruolo di portiere.

Il calcio d’angolo battuto dal Fumatore andò a buon fine: il pallone compì una traiettoria calcolata nella direzione di Carlos. Lui, accertatosi che Flavio fosse troppo occupato a contenere assieme a Gianluca il Vichingo, considerato l’avversario più pericoloso per via della sua stazza, fu libero di spingere il pallone verso la rete, certo di essere andato a segno.

Ma Peppe gli impedì di fare goal, allungandosi verso sinistra e sdrucciolando sul terreno per deviare il tiro. L’azione fu così rapida che l’intervento del portiere risultò ancora più decisivo, perché Carlos era già pronto ad esultare. Peppe raccolse la sfera fra le mani, proteggendola dagli avversari, mentre l’altro ragazzo si disperava.

-Bravo Peppino!- si congratulò Cesare, che aveva molta stima di lui.

Peppe sapeva cos’era a rendere Cesare così svogliato e pensieroso, ma non aveva intenzione di dire nulla agli altri: il loro leader avrebbe deciso se fosse opportuno o meno rendere tutti quanti partecipi del suo dolore. Rilanciò la palla in avanti, controllando i graffi sull’avambraccio da cui stillava sangue, a causa del contatto con il terreno. Si strofinò la maglietta per togliersi di dosso la polvere e si posizionò al centro della porta; così assumeva un’aria fiera e importante, nonostante la sua bassa statura.

Non aveva paura degli altri, per quanto lo superassero in altezza: il suo compito era proteggere la porta ed era pronto a farlo a qualsiasi costo. Allo stesso modo avrebbe voluto proteggere sua sorella dal mostro che le aveva strappato la verginità. Chi avrebbe potuto sospettare che l’amico di famiglia, da sempre compagno del fratello, insidiasse a quel modo la sorellina e avesse tali mire su di lei? La scoperta di quel traditore intestino lo aveva devastato e riempito di una rabbia indicibile: avrebbe voluto immediatamente correre da lui per ferirlo, per ucciderlo, per cancellare con le sue stesse mani quell’efferatezza.

Al solo pensiero sentiva l’adrenalina scorrere nelle proprie vene e il suo corpo acquistare una forza rabbiosa, violenta, i suoi occhi incupirsi e il suo sorriso allegro scemare, per lasciare il posto alla smorfia di dolore di chi non chiede altro che vendetta.

Il gioco proseguì tranquillamente per una mezz’ora, con un altro paio di gol per parte. Ora la sfera di cuoio era in possesso di Flavio, che avanzava timidamente sulla fascia destra.

Subito Carlos gli andò incontro per contrastarlo, armato del suo perenne ghigno strafottente. Flavio osservò il suo avversario avvicinarsi in fretta e con impeto, certo di riuscire a strappargli il pallone.

Fra i due non correva buon sangue: Flavio era la vittima preferita di Carlos, che non perdeva occasione per denigrarlo, e naturalmente per contro il ragazzo covava un rancore speciale nei suoi confronti. Carlos lo attaccava su più fronti, ma ultimamente aveva preso a fare apprezzamenti pesanti sulla madre di Flavio. Tutti i ragazzi riconoscevano come la donna fosse bellissima e attraente, doti che non aveva purtroppo trasmesso al figlio, ma trattandosi appunto della madre di Flavio non osavano andare oltre un certo limite. Carlos invece, che non conosceva mezze misure e doveva sempre cogliere l’occasione di infastidire il ragazzo, vagheggiava di sogni erotici e masturbazioni che avevano avuto la donna come protagonista; gli altri a quel punto ridacchiavano, ma era evidente che Carlos stava esagerando, nella sua spavalderia.

Flavio non sognava minimamente di ribellarsi: come avrebbe potuto uno sfigato magrolino e occhialuto come lui competere con un ragazzone più alto, più forte e più popolare come Carlos?

Ma si prendeva le sue piccole rivincite, ogni tanto. Sfruttò la sicurezza dell’avversario e il suo trattarlo con superficialità per sorprenderlo.

-E dammi ‘sta palla!-.

Carlos sopraggiunse a chiudergli ogni spazio per avanzare, tentando soffiargli la sfera, ma Flavio non indietreggiò né chiese l’aiuto di qualche compagno.

Attese che l’altro si trovasse a pochi centimetri, poi con un tocco fece passare il pallone sotto le sue gambe, compiendo un “tunnel”; subito lo aggirò e recuperò la palla, dirigendosi verso l’area avversaria. Carlos fu così stupito di essere stato gabbato che per qualche secondo non reagì, limitandosi a guardare; poi si ricordò di aver fatto una pessima figura e rincorse Flavio per rinnovare il duello. Nel punto in cui il suo intelletto era limitato, interveniva la forza bruta.

Mentre tutti si affannavano intorno a quel pallone, si scontravano, sgomitavano, sudavano e bestemmiavano, Cesare non aveva mosso un passo, non aveva compiuto un solo scatto, non aveva mai tirato verso la porta.

Le spalle cascanti e lo sguardo basso, stava al centro dell’area di rigore del Comunista e calciava di tanto in tanto qualche sassolino. Non sembrava interessarsi di quanto accadeva intorno a lui, delle urla dei compagni, della direzione che assumeva il pallone, del risultato. Teneva le mani in tasca e osservava la linea rossa che delimitava l’area di rigore. Il Comunista, approfittando dell’azione che si stava svolgendo al centrocampo, lo guardò a lungo domandandosi cos’avesse. Flavio, prima della partita, gli aveva accennato qualcosa riguardo ad un incidente che vedeva coinvolto un amico di Cesare. Il Comunista pensò fosse una motivazione plausibile da indurlo a comportarsi così, ad essere così abbattuto; era sensibile al tema della morte e si dispiacque di vederlo in quello stato.

-Cos’hai?- chiese – Ti vedo proprio abbattuto-.

Quelle erano circostanze che inducevano ad avvicinarsi agli altri e condividere il loro dolore, mettendo da parte qualsiasi differenza di ideologia, religione, lingua, classe. Cesare non stava simpatico al Comunista e viceversa questo non lo reputava altro che uno pseudo-dittatore, ma in quel frangente dominato dal lutto egli era disposto a mettere da parte il suo disprezzo. Nessuno meritava la morte, nemmeno il proprio peggior nemico.­

Cesare, che riconosceva al Comunista un’intelligenza superiore, si degnò di rispondere:

-Nulla, è che un amico m’ha fatto un brutto scherzo-.

Il sorriso amaro con cui pronunciò queste parole non lasciava spazio all’immaginazione e il Comunista, sinceramente dispiaciuto, non aggiunse altro.

Nel frattempo Flavio era riuscito ad introdursi nella metà campo avversaria, con Carlos che lo spintonava nel tentativo di recuperare il pallone. Il ragazzo mingherlino resisteva bene ai suoi colpi, ma necessitava di aiuto poiché anche il Vichingo era corso in aiuto di Carlos. I due, che erano i più possenti dal punto di vista fisico, ebbero la meglio su Flavio arpionando la palla e spingendolo a terra.

-Oh! Fallo!- lui allargò le braccia e da terra invocò l’approvazione dei suoi compagni.

Carlos, che era già pronto a ripartire, si fermò e levò un braccio: universalmente significava “va’ a quel paese”.

-Ma che cazzo dici?- protestò il Vichingo.

-Oh, mi avete spinto così!- Flavio mimò il gesto strattonandosi la casacca.

-Fallo, è fallo!- Gianluca intervenne a supportare il compagno, andando verso Carlos e facendosi restituire il pallone.

-Minchia, sei un fottuto cacasotto!- esclamò questo, irritato per il precedente dribbling subito e per non essere riuscito a fermarlo.

-Cos’è, allora?- domandò il Fumatore, rientrato dall’area di rigore.

-Punizione per loro- spiegò il Vichingo.

Lui, preposto a far da barriera, si posizionò a pochi metri da Flavio che nel frattempo aveva ripreso il pallone e se l’era sistemato per bene.

Gianluca si avviò verso l’area di rigore, cercando di eludere la marcatura del Fumatore e di Carlos. Il Comunista batté i guanti e si preparò a difendere la porta, gli occhi socchiusi per contrastare la luce del sole. Tutto pareva pronto, si aspettava solo che Flavio calciasse.

Ma ad un tratto Cesare, che vagava per l’area di rigore lasciato libero dai suoi compagni, si avviò a passo deciso verso il punto di battuta.

-Tiro io- sentenziò, invitando Flavio a spostarsi. Nessuno lo contraddisse o replicò, tutti stupiti dalla sua risolutezza.

 

Il Comunista non mutò la sua espressione, ma quando vide Cesare scansare Flavio, prendere il pallone e posizionarlo con l’intenzione di tirare, un brivido gli percorse la schiena. Flavio poteva essere un buon giocatore, ma non lo impensieriva più di tanto, mentre di Cesare doveva preoccuparsi, considerando soprattutto il suo mutevole stato d’animo. Si drizzò sulla schiena e parandosi il volto con un guanto, lo osservò bene.

Cesare teneva il pallone fermo con la suola e stava ricambiando il suo sguardo con altrettanta intensità. Il sole proiettava la sua ombra sul terreno e conferiva al suo volto un aspetto ancora più orgoglioso e fiero di quanto non fosse normalmente. Al Comunista parve di aver davanti un guerriero che, stremato dalla fame e dalle intemperie, dalla stanchezza e dai lutti, non avesse rinunciato a combattere e avesse in corpo ancora più forza di prima. Per questo non poté evitare di rabbrividire: vedeva negli occhi dell’avversario nuovo vigore e un animo ritemprato, sembrava quasi che avesse intenzione di scrollarsi di dosso tutte le sue preoccupazioni pur di affrontarlo e vincere quella sfida.

Per prendere la rincorsa, il ragazzo fece qualche passo indietro, misurando la distanza fra i suoi piedi e il pallone con cura. Gli altri ragazzi che attendevano la punizione lasciarono perdere le marcature e gli schemi difensivi: era scontato che Cesare avrebbe tirato in porta.

Il Comunista si piegò sulle ginocchia e pensò che si sarebbe buttato verso destra. Piegò le dita delle mani per saggiarne la sensibilità e si accorse che erano madide di sudore, essendo state rinchiuse in un paio di guanti di gomma. Il sole non rendeva facile il suo compito: la luce troppo intensa poteva accecarlo e impedirgli di intuire la traiettoria del pallone, tuttavia era certo che Cesare avrebbe tirato verso destra. Notò il piede sinistro posto in avanti per prendere la rincorsa e dal modo in cui stava aggrottando le sopracciglia capì che non avrebbe badato ad imprimere qualche particolare effetto al volteggio della palla, ma avrebbe tirato di potenza, quasi alla cieca.

Capiva quali erano le sue intenzioni: voleva scaricare tutta la rabbia e la frustrazione in quel tiro; pur riconoscendo le sue nobili intenzioni, non gli avrebbe permesso di batterlo.

I duelli fra Cesare e il Comunista erano sempre carichi di retroscena e significati nascosti e ognuno dei due, pur rispettando l’avversario, si augurava di uscirne vincitore a scapito dell’altro.

Quando era morto il padre del Comunista, Cesare era stato il primo a saperlo e a comunicarlo al resto della compagnia. Aveva fatto un discorso per spiegare agli altri la situazione: fra lui e il Comunista non c’erano buoni rapporti, i genitori del ragazzo erano divorziati da anni e questo non nutriva il benché minimo rispetto per il padre; per questi motivi la sua morte l’aveva segnato profondamente, per una settimana non s’era fatto vedere in giro per consumare il proprio dolore chiuso in casa. Nonostante avesse sempre fuggito la sua presenza, era rimasto scioccato dalla morte del padre, si era sentito privato di una parte di sé forse soffocata troppo a lungo, di un frammento della sua anima che lo vedeva ancora legato alla figura paterna e lo implorava di assumersi le sue responsabilità, di tornare a fargli compagnia.

Implicitamente, raccomandando agli altri di evitare battute e lasciarlo in pace per un po’, Cesare l’aveva tacciato di debolezza per essersi fatto dominare a quel modo dal dolore. Lui invece, pur straziato dalla sofferenza per la morte dell’amico, non aveva ceduto e si era presentato come sempre alla partita. Ma il Comunista non aveva intenzione di favoreggiarlo a causa del suo umore e si preparò a parare il tiro.

Cesare non prese una lunga rincorsa: indietreggiò di due passi e li ripercorse lentamente. La forza con cui però impattò il pallone lasciava trapelare tutta la rabbia che aveva in corpo e che era deciso a buttar fuori.

Il Vichingo non provò nemmeno a deviare il tiro, anzi quasi si scansò, permettendone il passaggio. Il pallone volò rapidissimo in direzione della porta, senza volteggiare o compiere alcuna rotazione su se stesso. Cesare aveva colpito con l’interno destro del piede, senza imprimere particolari effetti alla palla; dopo aver calciato allungò il collo per controllare l’esito del tiro.

Questo era così rapido e potente che il Comunista ebbe paura di affrontarlo, ma si tuffò ugualmente verso destra per cercare d’intercettarlo, anche a costo di farsi male. Aveva intuito bene: la palla si diresse verso la sua destra con un sibilo e lui allungò le braccia nel tentativo di respingerla; il suo intervento non fu necessario: con un rimbalzo notevole il pallone sbatté sul palo e il portiere tirò un sospiro di sollievo. La botta era stata tanto forte da far tremare la porta e la vibrazione perdurò ancora per qualche secondo, testimonianza della potenza che era stata investita nel tiro.

Dopo un momento di smarrimento da parte di tutti, i ragazzi ripresero a giocare e Gianluca andò a prendere possesso della sfera, subito attorniato da Carlos e il Vichingo. Il Comunista si rialzò, sollevato per non aver subito gol, e fu forse l’unico a notare le labbra contratte e arricciate in una smorfia di Cesare. Il ragazzo guardava il pallone e dopo qualche secondo corse nella sua direzione, non curandosi degli altri.

-Dammi la palla- comandò.

Loro furono un po’ sorpresi di vederlo piombare all’improvviso e Gianluca, quasi per timore reverenziale, lo lasciò libero di disporre della sfera di cuoio.

Cesare se ne impadronì e lo fermò con la suola, scrutando gli avversari a testa alta come faceva sempre. Il Vichingo fu il primo ad andargli incontro, felice che l’amico si fosse scosso dal torpore, ma non riuscì a fermarlo: Cesare lo evitò con uno scarto verso sinistra.

Nemmeno Carlos ed il Fumatore riuscirono a frenare la sua avanzata, perché l’uno venne spintonato  con forza e l’altro aggirato con un altro dribbling. I ragazzi non osavano aggredirlo impiegando tutte le proprie forze, ma sapevano che anche così facendo non sarebbero usciti vincitori: nessuno sapeva giocare a pallone come Cesare e non c’era nessuno che potesse superarlo in qualcosa.

Certo il Fumatore era alto, ma la sua altezza risultava a volte d’ingombro, così come il suo modo di giocare rabbioso; Cesare era sempre razionale e ponderava ogni sua mossa con attenzione. Il Vichingo l’avrebbe spazzato via con una spallata, ma essendo dotato di quella stazza i suoi movimenti erano a volte goffi e macchinosi; Cesare era ben proporzionato in altezza e muscolatura, possedeva un fisico asciutto e al contempo non era mingherlino.

Quando ebbe superato in velocità i tre avversari, provò di nuovo a tirare verso la porta; il Comunista non si mosse nemmeno, poiché il tiro terminò a lato, e il ragazzo si mise le mani nei capelli.

-Perché non vuol entrare?-.

Il gioco riprese con la rimessa dal fondo, ma era ormai chiaro a tutti che il risultato non contava più: Cesare faceva di tutto per recuperare palla, pretendeva che i compagni lo servissero anche quand’era marcato e non appena si avvicinava abbastanza all’area avversaria tentava il tiro. Non riuscì però a segnare, per uguali meriti del Comunista e della sfortuna.

Sembrava che il pallone non volesse saperne di oltrepassare la linea bianca, che una forza oscura impedisse a Cesare di avere la soddisfazione del gol. Il ragazzo provava e riprovava con foga rinnovata, ma non riusciva proprio a segnare.

-Ma perché cazzo non entra?- gridò ad un certo punto, dopo l’ennesimo sbaglio.

Il Vichingo, che gli stava vicino, poté udire la sua voce incrinarsi leggermente e incuriosito da questo dettaglio lo guardò con più attenzione: teneva lo sguardo basso e le sue labbra tremavano, segno che fosse stato solo avrebbe voluto piangere per sfogare il suo dolore.

Flavio ottenne conferma da Peppe dell’incidente avvenuto solo qualche ora prima: uno dei migliori amici di Cesare, tentando un sorpasso sulla superstrada, si era scontrato con un tir ed era morto sul colpo, fracassandosi il braccio, la rotula e l’osso del collo ed i soccorsi l’avevano trovato così, in mezzo alla strada, le braccia disposte secondo angolazioni innaturali e il cuore che da tempo aveva smesso di battere.

Cesare correva da una parte all’altra del campo, recuperando il pallone e cercando disperatamente, in preda ad una furia cieca, di segnare. Nonostante i suoi tentativi fallissero sempre, egli non rinunciava a riprovava sempre con nuova forza, ancora più determinato, con maggiore impeto della volta precedente, come se il fallimento si sommasse al dolore che stava provando ad esternare. Sembrava quasi un animale ferito che, consapevole di essere destinato alla sconfitta, affronta l’avversario con orgoglio, sperando forse di trovare la morte nella battaglia.

Il Vichingo e il Fumatore si scambiarono un’occhiata e decisero di comune accordo di abbandonare il campo, poggiandosi alla staccionata che lo delimitava. Gradualmente li raggiunsero anche Gianluca, Carlos, Flavio e Peppe, lasciando soli Cesare e il Comunista.

-Poverino- commentò ad un certo punto Peppe.

Effettivamente lo spettacolo era alquanto penoso: il ragazzo continuava a tirare quel pallone con tutte le proprie forze e quello puntualmente si allontanava dalla porta. Mano a mano che si andava avanti i tiri diventavano più fiacchi e anche Cesare ad un certo punto non ebbe più fiato. Il Comunista raccolse il pallone che debolmente era scivolato nella sua direzione, accogliendolo fra le braccia, e Cesare si fermò. I ragazzi guardarono il loro leader gettare la spugna e sedersi sul terreno, prendendosi la testa fra le mani.

-Che facciamo?-.

-Andiamocene- propose Carlos, che fu il primo a dirigersi verso la propria moto e abbandonare il campo.

Il Comunista riportò il pallone a Gianluca e incitò Flavio a salire sulla sua macchina; anche loro sparirono verso la città, così come Gianluca. Peppe, il Vichingo e il Fumatore rimasero appoggiati a quella staccionata, l’uno silenzioso e quieto, gli altri due sudati e ansanti. Si tolsero le magliette, usandole per tergersi la fronte e sventolarsi, abbattuti dal sole pomeridiano. Stettero a guardare Cesare che, ancora fermo in mezzo al campo, riprendeva fiato e non sembrava patire il caldo. Tutti e tre avrebbero voluto dirgli qualcosa, ma preferirono restare in silenzio riconoscendo che nessuna delle loro parole avrebbe risollevato l’amico.

-Hai da accendere?- domandò Peppe ad un certo punto, rivolto al Fumatore.

Questo gli porse un accendino e Peppe lo usò per appiccare fuoco all’estremità di una cartina, che poi iniziò a fumare. Non appena si accorse che non si trattava di tabacco, il Fumatore domandò se poteva fare un tiro.

Così consumarono quella speciale sigaretta in tre, dando uno sguardo a Cesare e riflettendo ognuno sui propri problemi.

-Sta piangendo- commentò ad un certo punto il Vichingo, alludendo a Cesare.

Il ragazzo stava ora con la testa fra le mani e pareva volersi strappare i capelli, a giudicare dal modo in cui se li torceva; Peppe scosse piano la testa e il Fumatore disse:

-Non ce l’ha fatta-.

Rimasero così per un bel po’ di tempo, quel che bastò a Cesare per sfogare il suo dolore e riprendersi, ai tre per consumare tutte le sigarette e le canne di cui disponevano. Persino l’imperturbabile Cesare, solido nel suo fanatismo politico, indifferente alle emozioni, dotato di un carisma tale da essersi conquistato il ruolo di leader indiscusso nel gruppo, aveva ceduto al dolore.

-Sono quasi le sette, è tardi-.

-Sì, andiamo-.

Cesare si avvicinò a loro, recuperando gli occhiali da sole e riponendoli sul naso; dietro quelle lenti scure era libero di far scorrere le ultime lacrime. Peppe mise in moto il motorino, offrendosi di riaccompagnarlo a casa, mentre il Fumatore e il Vichingo si incamminarono verso la città.

Il sole stava scomparendo dietro le colline e il campetto, ora che non era più animato da alcun duello, appariva squallido e desolato. Solo poco prima, su quel cemento, otto ragazzi avevano consumato i propri dolori ed uno di loro, cedendo alle lacrime, aveva forse sentito per la prima volta la gravità della vita. Come sempre, non esultavano e non tornavano a casa assieme, ma ognuno prendeva la sua strada in preda ai più svariati pensieri. Una volta terminata la partita, erano tutti perdenti.

   
 
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