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Autore: Ninfea Blu    30/04/2011    3 recensioni
Salve a tutte. E' la prima volta che scrivo in questa sezione, ma sono affascinata dal personaggio del dottor Cullen, che trovo complesso e interessante, quindi ho voluto provare. Attraverso questa ff, affronto una tematica che mi interessa molto. Ho cercato di rispettare il personaggio e di svilupparlo raccontando la sua esistenza e le sue esperienze.
2° cap - "Mio padre: mi era capitato di pensare a lui... mi chiedevo come avesse reagito alla mia scomparsa, se mi avesse fatto cercare."
5° cap - "Heidi mi inquietava; era un misto di grazia ultraterrena unita a una fisicità fatta di carne e sangue. Sentivo nei suoi confronti una specie di repulsione che si mischiava all'attrazione."
9° cap - "Il mio incontro col destino avvenne una fredda mattina di febbraio, con la luce chiara che entrava attraverso la finestra del mio studio e illuminava il volto delicato di un'umana, una donna che all'epoca era la moglie di un altro uomo."
Non so se la dicitura spoiler sia corretta, di fatto non è una if. Accetto consigli.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Heidi, Tanya, Un po' tutti | Coppie: Carlisle/Esme
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Precedente alla saga
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21 – Bella e maledetta

21 – Bella e maledetta

 

 

 

Ci allontanammo velocemente da Madison, lasciando tutto dietro di noi; la clinica, i miei pazienti abbandonati a se stessi, la piccola Alice in balia dei desideri di Lucien, l’investigatore privato che stava cercando Esme, e che forse non avrebbe rinunciato a seguire le nostre tracce.

Mi trascinai dietro solo la mia angoscia per la sorte misteriosa e inquietante della giovane Alice.

Non so quante volte, nei mesi successivi, indugiai col pensiero su di lei, sul modo in cui mi ero trovato costretto ad abbandonarla, e mi sentii inetto per il mio comportamento. Lasciare qualcosa di incompiuto nel mio lavoro mi faceva sentire inadeguato, come se fossi un perdente. Mi opprimeva un senso di fallimento, e prendevo quest’ultima fuga come un insuccesso assai più personale, che professionale. Non era più solo lavoro, forse non lo era mai stato.

Non era una missione da portare a termine; oltre al riscatto di me stesso, all’evoluzione che tendevo a perseguire nella ricerca di una pace talvolta quasi impossibile, erano scattati altri sentimenti, in qualche modo, più terreni e umani.

 

Mi sentivo fragile e insoddisfatto e mi chiedevo se il senso d’imbarazzo non derivasse dalla mia vanità mortificata.

Forse avevo sbagliato fin dall’inizio a prendere tanto a cuore la vicenda singolare di Alice, ma il mio coinvolgimento era stato tale e profondo, che non avevo potuto restare indifferente.

La sua esistenza intrecciata misteriosamente a quella di Lucien mi riguardava troppo da vicino per non sentirmi responsabile verso di lei.

E così, mi ero mosso per evitare ciò che mi sembrava l’epilogo più terribile per la vita di quella fanciulla piena di speranze e sogni per il futuro.

Ma il vento che spingeva la mia esistenza in direzioni sempre diverse, improvvisamente aveva soffiato dalla parte opposta, e come al solito, non avevo potuto oppormi a ciò che era più forte della mia banale presunzione.

Alla fine, tornavo sempre a fare i conti con la condizione raminga della mia vita.

Non avremmo mai avuto radici, né io, né la mia famiglia. Ero ormai rassegnato a questa costante della nostra tortuosa esistenza. Avrei dovuto evitare di affezionarmi a un luogo più di un altro, a persone e situazioni contingenti. Ma non so, se per carattere o acute attitudini, non riuscivo a mantenere la giusta distanza dall’umanità con cui entravo in contatto.

Edward, tra noi, era quello che sapeva mantenere maggior distacco da tutto. Esercitava una fermezza di spirito quasi stoica. Lasciò Madison senza mai guardarsi indietro, come aveva sempre fatto in precedenza.

Senza tentennamenti, obbiezioni.

Un po’ gli invidiavo questa sua capacità di adattamento, unita all’apparente freddezza, anche se qualche volta sospettavo che fingesse. Tanta glaciale indifferenza veniva poi tradita da bruschi cambiamenti d’umore e dalle tensioni più o meno intense che si accendevano tra noi.

In alcuni momenti mi pareva di cogliere un’ ombra appena velata di tristezza nel suo sguardo, ma durava sempre lo spazio di un istante; dopo, la sua espressione tornava quasi indecifrabile e senza sfumature.

Esme era senz’altro quella che soffriva di più, almeno agli inizi; le dispiaceva interrompere nuove attività avviate con successo e zelo, o non finire un trimestre scolastico in dirittura di arrivo, ma non protestava mai, perché comprendeva sempre la situazione che si presentava ogni volta.

“La tua comprensione cara, è un sollievo enorme per me. Sei davvero sicura che questi repentini spostamenti non ti pesino? Puoi dirmelo, lo capirei.”

“Carlisle, ma cosa stai dicendo? Ho compreso da tempo la situazione; - e dicendolo, Esme si stringeva al mio corpo guardandomi negli occhi con convinzione. - Certo, all’inizio non è stato facile adattarmi a questa vita. Ma io ti seguirò sempre, perché nessun posto lontano da te, sarebbe casa per me.”

Bastavano le sue parole a scacciare ogni mia incertezza. Esme aveva una consapevolezza che a me ancora mancava.

 

Erano anni particolari quelli che stavamo attraversando, anni difficili e violenti.

Li avevo sentiti scivolarmi addosso con i loro piccoli e grandi drammi che condizionavano gli uomini, ma non turbavano l’esistenza dei vampiri. Noi saremmo passati in mezzo al fuoco più devastante senza raccogliere bruciature sulla nostra pelle.

C’era la Grande Depressione, una crisi economica e sociale che avrebbe investito l’Europa, e nell’arco di un decennio avrebbe portato il vecchio continente e poi l’America, verso il disastro della seconda guerra mondiale.

Il boom economico seguito al primo conflitto d’inizio secolo, con la crescita della produzione industriale e dei consumi, si era rivelato solo un fuoco di paglia, e il venerdì nero del ‘29 con il crollo della borsa di Wall Street, era stato il colpo di grazia; la crisi finanziaria aveva arrestato l’economia del paese facendo fallire imprese, industrie e anche l’agricoltura. Tredici milioni di persone persero il lavoro e tre/quarti dei contadini furono ridotti alla fame; non era inusuale vedere file lunghissime di gente per comperare il pane.

C’erano stati i ruggenti anni ‘20 con i loro balli scatenati come il Charleston e la musica jazz, e ormai stava per finire anche l’epoca del proibizionismo con i suoi divieti. [1]

Testimone silenzioso e impotente del mio tempo, impermeabile alla storia che plasma e costruisce le vite degli uomini, sapevo che quando all’uomo viene negata una qualsivoglia libertà, scatta sempre in lui, il rifiuto delle regole e delle restrizioni; così le bevande alcoliche non cessarono di essere prodotte, vendute o consumate, favorendo in quegli anni la crescita della malavita organizzata, capeggiata da gangs mafiose di origini italiane o irlandesi di cui si potevano leggere le gesta sui giornali di tutto il paese. Era in atto una vera e propria guerra tra i trafficanti e i contrabbandieri di liquori, e lo stato che cercava di far rispettare le leggi.

In questo clima instabile, arrivammo a Rochester, una cittadina situata a sud del lago Ontario, nello stato di New York presso la contea di Monroe nei primi mesi del 1930. L’ avevamo scelta come località ideale perché le estati del posto erano molto brevi e gli inverni, lunghi, freddi e nevosi. Inoltre la zona in prossimità del lago sarebbe stata un perfetto terreno di caccia per noi vampiri.

Agli inizi del ‘900, la città si era sviluppata attraverso una fiorente industria tessile, ma anche qui, la crisi si era fatta sentire; diverse attività avevano chiuso per fallimento, mandando molte persone sul lastrico. Questo non era un problema che poteva toccare l’alta borghesia che deteneva il controllo delle banche.

Una delle famiglie più influenti della città erano i King, banchieri da varie generazioni. Elargivano sostanziose donazioni all’ospedale dove lavoravo come chirurgo, e naturalmente davano lavoro a molte persone nella comunità. Erano considerati dei veri e propri benefattori, e in realtà avevano troppi interessi legati a svariate attività che garantivano loro il sostegno pressoché incondizionato di tutta la città.

 

Tra i dipendenti del signor King, c’era il padre di quella che era considerata a ragione, una delle più belle ragazze della città, se non di tutto lo Stato di New York; la fanciulla si chiamava Rosalie Lilian Hale.

La famiglia Hale apparteneva alla media borghesia; il padre della giovane lavorava presso una delle banche del signor King. Benché benestanti, i genitori di Rosalie riponevano nell’avvenenza della figlia tutte le loro speranze per un futuro, se possibile, ancora più luminoso. Come tutti gli arrivisti, miravano quasi certamente a elevare il già discreto tenore di vita, puntando ai massimi vertici che si potessero raggiungere in quegli anni. Probabilmente volevano per lei un marito facoltoso con un’ottima posizione sociale, e si prodigarono per ottenere questo risultato, facendo in modo che la figlia venisse notata dal miglior partito presente sulla piazza.

Incontrai Rosalie in sporadiche occasioni, ma compresi quanto bastava della sua personalità e psicologia, perché Edward ebbe accesso immediato alla sua mente semplice, dal momento che per quasi tre anni, frequentarono la stessa scuola anche se in corsi diversi. Mio figlio non la trovava particolarmente attraente, soprattutto sul piano intellettuale, ma ho sempre pensato che nel suo giudizio ci fosse un po’ di arroganza.

“Rosalie Hale; la sua mente è un lago quieto e poco profondo. – Commentava con una punta di supponenza. - È quasi sorprendente, visto il tipo di persona che è, ma non le piacciamo; considera la nostra bellezza innaturale. Una volta deve avere visto Esme mentre usciva da scuola; le da fastidio il fatto che siamo più avvenenti di lei.”

“La cosa deve sorprenderti molto. Forse non è una persona così banale come tu credi.” Notai.

“In realtà, mi sento sollevato; almeno, non ha i pensieri molesti delle giovani umane incantate dal nostro aspetto, ma non riesce a spiegarsi come mai, mi risulti indifferente e non susciti in me l’ammirazione che evoca in tutti gli altri.”

“Penso davvero non sia una ragazza comune.” Conclusi.

Sì, forse la nostra presenza a Rochester toglieva un po’ di luce a Rosalie, e questo magari la rendeva vagamente insicura, ma credo che se non si fosse lasciata abbagliare dalle false adulazioni, se non avesse goduto dell’invidia che suscitava, il nostro metterla in ombra avrebbe potuto darle modo di riflettere maggiormente su se stessa, e su chi aveva attorno.

D’altronde Rosalie non era pienamente consapevole di tutta quell’aspettativa attorno alla sua persona; era solo una giovane, bellissima donna senza grandi ambizioni che sognava cose semplici e vere, come l’amore di un uomo, una bella casa e dei figli da allevare e accudire. L’unico suo errore era credere che per ottenerle bastasse essere e apparire come la creatura più desiderabile.

Lei non doveva fare nessuno sforzo per questo.

Non c’erano domande da porsi sul cosa fosse davvero importante, se l’obbiettivo o il percorso per raggiungerlo, sul cosa volesse dire essere dei privilegiati in un momento storico dell’America segnato da difficoltà e disperazione.

Nella sua ingenuità adolescenziale, non si rendeva conto che certi doni, niente hanno a che fare con i meriti e possono diventare sventure; nel suo mondo tutto era una favola è lei era la principessa di un regno che sembrava perfetto: vita e famiglia perfetta, amici perfetti, fidanzato perfetto. Nella sintesi, un quadro idilliaco guastato però da un briciolo d’invidia per la sua amica d’infanzia Vera, che alla sua stessa età, ma con molte meno attrattive e risorse, era già sposata con un figlio.

Rosalie a diciotto anni, era una giovane forse un po’ superficiale e vanesia, un poco immatura e innamorata dell’idea astratta dell’amore, che amava essere al centro delle attenzioni, a cui piaceva in sommo grado essere ammirata dagli uomini. E in questo, in fondo, non c’era neppure nulla di male; una ragazza consapevole del suo grande fascino, può diventare una donna matura, forte e sicura di sé, e in tale atteggiamento, spesso non c’è nulla di premeditato.

C’è solo un pizzico di compiacimento femminile che esiste in varia misura in tutte le donne.

Una donna con le potenzialità di Rosalie avrebbe potuto ottenere tutto dalla vita, affinando intelletto, fascino e carisma; forse col tempo e l’esperienza, accompagnate dalla maturità avrebbe capito che il luccichio che stordisce i sensi e il cuore, spesso non è altro che oro fasullo e ingannatore. Ma Rosalie non ebbe il tempo di fare tesoro delle lezioni della vita e si ritrovò travolta dalla sorte che altri tentarono di costruirle addosso. E ancora adesso, mi inquieta pensare a quanto l’influenza pesante dei suoi genitori abbia contribuito alla sua disgrazia.

A Rosalie furono tarpate quelle ali che avrebbero potuto portarla in alto, e la dannazione a cui fu condannata partì da più lontano, rispetto a quell’ ultima notte in cui io la trovai devastata dalla crudeltà umana.

Fu la madre, tanto orgogliosa della sua bellezza, che la spinse senza nessuna remora tra le braccia di quello che avrebbe dovuto diventare il marito, il ricco e facoltoso Royce King, rampollo ed erede affascinante di tutte le immense sostanze della famiglia d’origine. Ma se Royce poteva apparire sulla carta un’ottima prospettiva per avere il futuro più splendido assicurato, nella realtà non era l’uomo che voleva far credere. Edward lo incrociò poche volte, ma gli furono sufficienti a farsi un’idea precisa ed esatta di quello che era.

Ricopriva Rosalie di regali costosi, gioielli, bei vestiti e mazzi di fiori; la introdusse nei saloni del bel mondo, portandola a feste e ricevimenti di personaggi importanti, trattandola come una regina da mettere in mostra.

Naturalmente, di tutto questo la giovane era compiaciuta; come avrebbe potuto non esserlo? Sembrava che tutti i sogni dovessero realizzarsi per lei, senza il minimo sforzo. Non sapeva ancora di averli riposti nella persona sbagliata.

Edward che riusciva a leggere la sua anima nera, ne era irritato in maniera spaventosamente violenta.

“Royce King è uno schifoso maniaco debosciato; ha una mente crudele e depravata attraversata da pensieri innominabili. È un bastardo, violento e meschino; è andato con alcune prostitute solo per prendersi il gusto di picchiarle a sangue. Quando beve diventa anche peggio. La signorina Hale non immagina neppur lontanamente cosa l’aspetta, se davvero si sposerà con quel tizio. Ogni volta che i suoi pensieri maligni attraversano la mia mente, avverto il bestiale desiderio di ucciderlo, ma prima forse lo torturerei molto lentamente. Gli farei provare la vera autentica perversione.”

Le reazioni di mio figlio mi allarmarono più del consueto; gli consigliai di non farsi coinvolgere, ma non ero sicuro bastassero le mie parole a calmarlo. Avvertivo con preoccupazione lo sforzo estremo che faceva per controllare i suoi impulsi. In effetti, in poche altre occasioni, avevo visto Edward così provato dalla rabbia; il pensiero di Royce King lo faceva diventare furioso. Fu molto vicino a perdere il controllo.

Un pomeriggio tornò a casa da scuola sconvolto perché per un momento, si era lasciato sedurre dal pensiero di rapire e far sparire velocemente il fidanzato di Rosalie.

Edward era uscito da scuola molto prima dei suoi compagni e si era ritrovato solo nel piazzale davanti all’ingresso, dove a pochi metri di distanza stava l’automobile di Royce; appoggiato alla fiancata della sua auto, nel suo elegantissimo completo grigio e un enorme mazzo di rose in mano, l’uomo attendeva l’uscita di Rosalie dall’edificio scolastico.

Immagini terrificanti e vermiglie lo avevano assalito.

Rose rosse gettate su un letto che si tingevano di sangue, e spine nella sua mente, che graffiavano la pelle bianca come porcellana, e penetravano con forza nella carne delicata della ragazza stesa sotto di lui.

Gli era bastato un attimo e la tentazione di assecondare la sua natura omicida, si era fatta strada senza difficoltà come un fulmine che attraversa il buio; nessun testimone, un lavoro rapido e pulito, nessuno si sarebbe accorto di niente.

La legittimazione di un atto che avrebbe reso un servigio alla comunità, era bastato a giustificare il desiderio di uccidere e gli aveva procurato una sensazione di potere.

Edward aveva mosso un passo, guidato da un istinto troppo forte; poi si era arrestato di botto, stringendo i pugni in maniera violenta ai lati del corpo immobile e rigido come una statua.

Non seppe dire neppure lui, cosa lo avesse trattenuto; forse, il timore di deludermi.

Forse, la consapevolezza e la paura che se fosse precipitato, nessuno, neppure io avrei arrestato la sua caduta verso il baratro. Non erano altro che le prime avvisaglie di ciò che doveva accadere, ma io non volli vederle.

Si era trattenuto, e a me questo bastava per credere che non sarebbe mai successo.

Non si sarebbe mai perso perché era mio figlio, e in lui mi ostinavo a vedere la mia stessa forza.

 

Ero uno stolto.

 

Non ero altro che uno stupido, presuntuoso vampiro che non voleva accettare la realtà che ci fossero tra noi, quelli che devono scendere nel buio più profondo e lasciarsi inghiottire da esso, per trovare la loro luce. Edward era fra questi.

 

E arrivò anche quella maledetta sera del 1933.

Una serata scura e senza luna, una di quelle sere fameliche in cui escono solo i lupi a caccia di prede.

Una notte da vampiri travestiti da uomini, annidati nei vicoli putridi con gli occhi offuscati dall’alcool, pronti a uscire dal loro nascondiglio per assalire la loro vittima ignara. Belve assetate di sangue, mostri senza coscienza accecati dagli impulsi più disumani.

Avevo finito il mio turno in ospedale; ricordo la luce fredda dei lampioni che illuminavano le strade e i fari delle poche macchine che viaggiavano all’epoca.

Per gli umani era l’ora della cena che vede le famiglie riunite intorno a un tavolo a dividere il cibo guadagnato col sudore del proprio lavoro. Anch’io stavo tornando dalla mia famiglia; non c’era una tavola apparecchiata ad attendermi, ma solo un figlio tormentato dalle sue pulsioni e una vampira innamorata che mi avrebbe raccontato dei suoi alunni diligenti e dell’entusiasmo che le procuravano.

Potevo dire che mi bastava e che era comunque più di quello che mi sarei aspettato da quella strana esistenza.

Stavo prendendo la via di casa con il cuore leggero, quando avvertii l’odore inconfondibile.

Arrivò come una nota confusa e dolente di vita strappata.

D’istinto cambiai strada per seguire quella scia che aveva l’essenza inquietante del tormento più atroce. E purtroppo, ero quasi certo di quello che avrei trovato. Seguii con angoscia quel percorso che mi portò davanti a ciò che si potrebbe definire solo orrore. Lo scempio fisico e morale di una donna innocente.

Qualcosa che forse è peggio della morte stessa.

Rosalie era andata a trovare la sua amica Vera, quella sera. Non abitavano distanti.

Non tornò mai a casa.

 

La violenza sulle donne è un abominio incomprensibile, uno di quei misteri insondabili che farebbero arrabbiare con Dio, anche l’uomo più devoto.

Per questo, dopo tanti anni, mi pesa ancora sugli occhi l’immagine di Rosalie agonizzante.

Perché non ci può essere accettazione e neanche perdono, e nonostante tutto, questi sentimenti esistono nella mia natura, e vivono nella più profonda contraddizione.

 

Trovai il suo corpo in un lago di sangue, seviziato in un modo che non si può dire e che mente normale non potrebbe concepire, abbandonato come un rifiuto dentro un vicolo squallido e oscuro.

La morte, per fortuna o purtroppo, non aveva avuto ancora pietà di lei e del suo cuore martoriato.

Non ho mai saputo cosa sarebbe stato meglio. E non so neppure cosa avrei fatto io, se fossi arrivato lì, un attimo prima. Ma so cosa avrebbe preferito lei.

 

Quante volte ero stato testimone di simili scempi nel corso della mia lunga esistenza; venivo da un secolo oscuro che non concedeva diritti né giustizia al mondo femminile, e in oltre duecento anni non mi ha mai abbandonato quel senso di amarezza che avverto di fronte a certe brutture che sembrano non cambiare mai.

 

Non era rimasto nulla della Rosalie che tutti conoscevano, la ragazza avvenente piena di sogni che camminava per strada con passo sicuro, orgogliosa di attirare gli sguardi dei giovanotti, che sorrideva colma di speranze alla vita. Tutto il suo essere era stato annientato dalla violenza che aveva subito. I sogni erano stati abbattuti come uccelli in volo e le speranze erano crollate come castelli di sabbia travolti dalla bufera.

Sollevai da terra quel corpo brutalizzato e presi a correre velocissimo verso casa. Mentre correvo, potevo sentire il suo cuore che lentamente andava spegnendosi, mentre il suo sangue ancora caldo mi macchiava i vestiti e il suo aroma invadeva le mie narici, e non fu senza dolore che pensai che sarei stato causa di una pena ben più terribile.

E mi angustiavo all’idea che per mano mia sarebbe morta di nuovo nell’arco di tre giorni terrificanti.

La morsicai al collo, ai polsi e alle caviglie, per regalarle la sorte dannata che avevo già concesso ad altri della mia famiglia, ma nell’animo c’era qualcosa cui anelavo inconsciamente. Strani sentimenti si agitavano nella mia coscienza; covavo un forte risentimento sconosciuto per coloro che si erano macchiati di quel delitto che costringeva me, ora a compiere il mio. Se Rosalie avesse potuto fermarmi, lo avrebbe fatto. Lei più di Edward, non ha mai voluto questa vita e non l’avrebbe voluta.

Se avesse potuto scegliere, avrebbe scelto diversamente. Fin dall’inizio.

Ma quasi tutto, nella sua esistenza mortale e immortale fu determinato da altri.

Esme, appena la vide, ebbe parole di pietà per la ragazza.

“Povera cara; ma chi può averle fatto una cosa così spaventosa?”

“Dovevano essere in tanti; un uomo solo non potrebbe fare una cosa simile. Quando l’ho trovata, doveva essere appena accaduto.”

“Vuoi tenerla con noi?” mi chiese.

“Sarà libera di restare o andarsene per la sua strada. Non la costringerò a fare nulla.”

Quando Edward quella sera rientrò a casa non fu contento della mia iniziativa di trasformare Rosalie.

“Non hai esagerato, questa volta? Rosalie Hale! È troppo nota. Non dovevi portarla qui. Muoveranno mari e monti per trovarla.”

La voce concitata di mio figlio tradiva l’esasperazione che provava.

“Non potevo lasciarla lì, in quello stato. È vergognoso e riprovevole quello che le hanno fatto.” Ribattei con assoluta decisione.

“Lo so, ma nessuno sospetterà mai di quel maniaco, né dei suoi degni compari. Un branco di canaglie schifose, che meriterebbero di morire tra atroci tormenti.”

Dalla sua voce rabbiosa, capivo che lo avrebbe fatto volentieri trascinato dall’emotività. Cercai di esercitare il controllo su di lui; ultimamente, certe sue reazioni non mi facevano stare tranquillo.

“Edward, non è compito nostro intervenire nelle faccende umane. – sospirai sull’ultima frase. - Vedi chi è stato?”

“Certo. È tutto ancora vivo nella sua mente. Le facce di quegli animali, ogni raccapricciante dettaglio.”

Durante la trasformazione, Rosalie coglieva a sprazzi i nostri discorsi, ma il veleno che bruciava la sua carne non la faceva pensare quasi a nient’altro che il dolore.

Ci supplicò svariate volte di ucciderla.

Io le rispondevo che presto tutto sarebbe finito.

Le tenevo una mano e rimasi accanto a lei per tre giorni; ad ogni grido di dolore le chiedevo scusa, mentre le spiegavo quello che le stava accadendo e cosa eravamo.

Non si lasciò convincere, finché non si rese conto lei stessa che il suo corpo mutava e diventava più duro e forte.

Rosalie era stata un’ umana già molto bella, ma la trasformazione stava esaltando e accendendo la sua bellezza in un modo impensabile. Stava diventando magnifica.

Alla fine del terzo giorno, Rosalie, bella come una dea, si risvegliò nella sua nuova vita con gli occhi rossi che bruciavano di un fuoco che non era semplicemente quello della sete.

Le spiegai nuovamente tutto quello che era accaduto e cosa era diventata e lei mi ascoltò apparentemente calma; ma quel fuoco che ardeva nel suo sguardo non si placava neppure dopo una battuta di caccia. C’era un desiderio in lei che non si sarebbe estinto, e io non me la sentii di provare a soffocarlo.

Non ne ebbi il coraggio.

E non sapevo quanto fosse giusto soffocarlo.

Avevo il sospetto di qualcosa che stava per accadere e non sono sicuro di non averlo in parte determinato.

O forse, di averlo permesso, e magari desiderato in qualche piega oscura del mio spirito dannato.

Rosalie restò abbagliata dalla sua bellezza, ma fu qualcosa che la distrasse per pochissimo tempo; era un’altra l’ossessione che la dominava e che avrebbe finito per soddisfare. Sapevo che Edward la sentiva. Ma tra lui e Rosalie c’era un tacito silenzio che gridava con furia, che soffiava su un tormento troppo profondo e impietoso per poterlo estinguere. Feci finta di non vedere e comprendere quello che si agitava nel suo animo di vampira neonata.

Non mi azzardai a convincerla di nulla. Evitai qualsiasi tipo di frase fatta.

Non avevo risposte né soluzioni e lei non ne chiedeva.

Un vampiro dimentica la sua vita umana, resta nella sua mente solo una debole traccia di qualcosa che fu.

Ma come già la storia di Lucien mi aveva insegnato, certe tragedie che colpiscono l’uomo sono incancellabili.

Rosalie non avrebbe mai dimenticato nulla.

Avrebbe ricordato per sempre ogni dettaglio di quella notte fatale e dannata. Le sarebbe pesata addosso per l’eternità come un macigno pesantissimo; se un vampiro può soffocare, quello l’avrebbe soffocata. Ci sarebbe stato un solo modo per alleggerire quel fardello quasi insostenibile.

Non potevo immaginare come e quando.

Era un’ ipotesi che galleggiava sospesa fra noi, come una barca vuota trasportata dall’acqua che deve toccare terra; non sai quando questo accadrà, ma sai che dovrà accadere.

Non sapevo come mi sarei sentito io dopo il fatto, e un po’ temevo di scoprire le mie sensazioni, perché forse avrei provato qualcosa di simile al piacere.

Solo di una cosa ero certo: Rosalie avrebbe perseguito e attuato la sua vendetta su chi le aveva rubato tutti i suoi sogni e indirettamente, l’aveva resa bellissima e maledetta.

 

 

Continua…

 

 

Salve a tutte. Eccomi qui.

Sono stata veloce questa volta. O almeno, più veloce del solito.

Spero prima di tutto che abbiate passato una Buona Pasqua, e poi che il capitolo vi sia piaciuto.

Avrete notato che è più corto di quelli che scrivo di solito, ma ho preferito non appesantirlo troppo. Mi è servito per introdurre qualche cenno sull’epoca storica che ci dà lo scorrere del tempo vissuto dai Cullen, oltre naturalmente il personaggio di Rosalie che vorrei approfondire meglio nel prossimo capitolo. Avrete anche notato che ho ridotto molto i dialoghi, spero non vi dispiaccia, ma qui non mi sembravano essenziali. Io spero che qualcuno sia ancora lì a seguirmi e che magari voglia dirmi come ha trovato questo capitolo. Come sempre, anche se l’ho già fatto singolarmente, vi ringrazio per le vostre recensioni (pochine nell’ultimo, ma grazie lo stesso).  Ringrazio chi continua a seguire questa storia in una delle liste e anche chi legge soltanto senza farsi sentire, ma un segno di vita anche piccolo, sarebbe gradito. Spero di sentirvi.

Ninfea.

 

 

 

 

 



[1]  Proibizionismo; periodo che va circa dal 1920 al 1933, dove in America era vietata la vendita e il consumo di alcolici.

   
 
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